è l'nizio di una lettera ad un amico, ma a chi scriveva Wilde?
Tra l'aprile e il novembre 1895 Oscar Wilde, sotto l'accusa di omosessualità - massimo tabù nell'Età Vittoriana - dovette affrontare vari processi che gli costarono la condanna a due anni di lavori forzati, la bancarotta e l'interdizione alla pubblicazione di tutte le sue opere.
Mentre era detenuto a Reading, tra il gennaio e il marzo 1897, allo scrittore irlandese fu concesso di scrivere una lettera: cinquantamila parole, la più lunga che sia stata mai stilata. Una confessione privata, nella quale Wilde scrisse il memoriale della sua vita in carcere e la raccapricciante cupezza vissuta a Reading. Era indirizzata al suo amico e amante Lord Alfred Douglas che causò la sua rovina .
Per questa lunga lettera Wilde scelse un titolo in latino (Epistula: in Carcere et Vinculis), che invita suggestivamente a soffermarsi su quanto può accadere ad un uomo in stato di totale reclusione, più che sulla possibilità di rielaborare spiritualmente l'esperienza del dolore. Il titolo con cui ci è nota, De Profundis, fu scelta dall'amico Robert Ross per darla parzialmente alla stampa nel 1905 ed è lo stesso utilizzato nel 1962 per la pubblicazione della versione integrale, dopo la scomparsa di tutti i protagonisti.
In questa lunga lettera traspaiono i moti più profondi dell'animo di Oscar Wilde. Ed è per questo motivo che lo ritengo lo scritto assolutamente più bello e significativo della sua intera vita.
-Liolucy
-Liolucy
A Lord Alfred Douglas
Dal Carcere di S. M. - Reading
Caro Bosie,
dopo una lunga e vana attesa, mi decido a scriverti per primo, per il tuo bene come per il mio, giacché non mi piace pensare di aver trascorso in prigione due lunghi anni senza mai aver ricevuto da te un solo rigo, né alcuna notizia, o ambasciata, che non fosse tale da darmi pena. La nostra malaugurata e deprecabile amicizia è finita per me nella rovina e nel pubblico disonore; e tuttavia il ricordo del nostro antico affetto mi tiene spesso compagnia, e mi è di grande tristezza pensare che il posto dell'amore di un tempo possa venir preso dall'odio, dall'amarezza o dal disprezzo. Tu stesso, penso, sentirai nel tuo intimo che è meglio scrivermi mentre giaccio qui nella solitudine del carcere, che non pubblicare le mie lettere senza la mia autorizzazione o dedicarmi delle poesie senza chiedere il mio parere; e questo, anche se il mondo non verrà mai a conoscere le parole di dolore o di passione, di rimorso o d'indifferenza, che crederai opportuno rivolgermi in risposta o in preghiera.
Non dubito che in questa lettera, nella quale dovrò scrivere della tua e della mia vita, del passato e del futuro, di cose dolci mutate in amarezza e di cose amare che possono venir mutate in gioia, vi sarà molto che ferirà nel vivo la tua vanità. In questo caso, leggi e rileggi questa lettera finché la tua vanità non sarà morta del tutto. Se troverai in essa qualche cosa di cui ti riterrai accusato ingiustamente, ricorda che bisognerebbe esser grati per ogni colpa di
cui si è accusati ingiustamente. Se vi sarà in essa un solo passo che porterà le lacrime ai tuoi occhi, piangi, come piangiamo noi in carcere, dove per le lacrime non esiste distinzione tra il giorno e la notte. Sarà la sola cosa che potrà salvarti. Se andrai a lamentarti da tua madre, come ti lamentasti con lei del disprezzo che manifestai nei tuoi riguardi nella mia lettera a Robbie, perché essa ti consoli, e lusingandoti ti restituisca la tua presunzione e il tuo amor proprio, allora sarai perduto, irrimediabilmente. Se troverai per te una sola falsa giustificazione, presto ne troverai un centinaio, e resterai esattamente qual eri. Forse sostieni ancora, come dicesti nella tua risposta a Robbie, che io "ti attribuisco moventi indegni"? Ah, tu non hai mai avuto moventi in tutta la tua vita. Hai avuto solo appetiti. Un movente è un'aspirazione intellettuale. Forse eri "molto giovane" quando ebbe inizio la nostra amicizia? Ma il tuo difetto non fu mai di saper poco della vita, bensì di saperne troppo. Ti eri lasciato da un pezzo alle spalle l'aurora dell'adolescenza con le sue tinte delicate, la sua luce pura e limpida, la sua gioia d'innocenza e di attesa. Con passo rapido, quasi di corsa, passasti dal Sentimentalismo al Realismo. Cominciasti ad essere attratto dal marciapiede e da chi lo
popolava. Questa fu l'origine del pasticcio per il quale cercasti il mio aiuto; ed io, così poco saviamente secondo la saggezza del mondo, te lo diedi per pietà, per gentilezza d'animo. Dovrai leggere questa lettera fino in fondo, anche se ogni parola potrà diventare per te come il fuoco, o il bisturi del chirurgo, che brucia la carne delicata e la fa sanguinare. Ricordati che lo sciocco agli occhi degli dèi è molto diverso dallo sciocco agli occhi degli uomini. Uno che ignori totalmente le forme dell'Arte nella sua evoluzione, o gli stadi del pensiero nel suo sviluppo, la pompa della prosa latina o la musicalità più piena di quella greca ricca di vocali, la scultura toscana o la canzone elisabettiana, può tuttavia essere pieno della più dolce saggezza. Il vero sciocco, colui che gli dèi deridono e distruggono, è quello che non conosce se stesso. Io lo fui per troppo tempo. Tu anche lo fosti per troppo tempo. Non esserlo più. Non aver timore. Il vizio supremo è la superficialità. Tutto ciò che viene vissuto fino in fondo è giusto. Ricorda anche che, per quanto dolore possa darti la lettura di questa lettera, ancor più dolore è costato a me scriverla. Le Potenze Invisibili ti sono state molto benigne. Ti hanno permesso di vedere le forme strane e tragiche della vita come si vedono le ombre in un cristallo. La testa di Medusa che trasforma gli uomini in pietra, a te è stato concesso di vederla solo in uno specchio. Tu stesso hai camminato libero tra i fiori. A me, il bel mondo di colore e movimento è stato tolto per sempre. Comincerò col dirti che mi rimprovero profondamente. Seduto qui, in questa cella oscura, nei panni del carcerato, disonorato e rovinato, rimprovero me stesso. Nelle notti agitate e tormentate dall'angoscia, nei lunghi monotoni giorni del dolore, è me stesso che rimprovero. Mi rimprovero per aver permesso che la mia vita fosse interamente dominata da un'amicizia così poco intellettuale: un'amicizia il cui primo scopo non era la creazione e la contemplazione del bello. L'abisso tra di noi fu troppo vasto fin dagli inizi. Tu eri stato pigro a scuola, peggio che pigro all'università. Non potevi capire che un artista. e soprattutto un artista quale io sono, per il quale cioè la qualità del proprio lavoro è condizionata dal rafforzamento della propria personalità, abbisogna, per esplicare la propria arte, d'una comunanza d'idee, di un'atmosfera intellettuale, e di quiete, di solitudine, di pace. Tu ammiravi il mio lavoro quando era terminato, godevi dei brillanti successi delle mie serate di gala, e dei brillanti pranzi che le concludevano: eri orgoglioso, com'è naturale, di essere amico intimo di un artista cosi insigne; ma non potevi capire le condizioni che sono necessarie per produrre lavoro artistico. Non sto esprimendomi con frasi esagerate o retoriche, ma in termini di assoluta aderenza alla realtà, quando ti ricordo che per tutto il tempo in cui fummo insieme, non scrissi mai una sola riga. Tanto a Torquay come a Goring, a Londra come a Firenze, o in qualsiasi altro luogo, la mia vita, finché tu eri al mio fianco, era assolutamente sterile e improduttiva. E, salvo brevi pause, eri, mi duole dirlo, costantemente al mio fianco. Ricordo per esempio che nel settembre del 1893, per citare solo un caso tra i tanti, presi un alloggio semplicemente per poter lavorare indisturbato, giacché avevo rotto il mio contratto con John Hare per il quale avevo promesso di scrivere una commedia, ed egli mi faceva pressioni al riguardo. La prima settimana ti tenesti alla larga. Avevamo avuto da dire - come era logico - circa il valore artistico della tua traduzione di Salomè, cosi ti contentasti di scrivermi in proposito delle lettere sciocche. Quella settimana scrissi e completai in ogni dettaglio, così come alla fine fu rappresentato, il primo atto di Un marito ideale. La settimana seguente tu ritornasti, e dovetti praticamente rinunciare al mio lavoro. Mi recavo a St. James come tutte le mattine alle undici e mezzo per avere la possibilità di pensare e di scrivere senza quelle interruzioni che sono inevitabili in una famiglia, per quieta e tranquilla che fosse la mia. Ma fu un tentativo inutile. A mezzogiorno arrivavi tu con la carrozza, ti trattenevi fumando sigarette e chiacchierando fino all'una e mezzo, ora in cui dovevi recarti a colazione al Café Royal o da Berkeley. La colazione, coi suoi liqueurs, durava in genere fino alle tre e mezzo. Per un'ora ti ritiravi da White. All'ora del tè ti rifacevi vivo, e restavi con me fino all'ora in cui ci si cambiava per il pranzo. Pranzavi con me al Savoy, o a Tite Street. Non ci separavamo mai prima di mezzanotte, giacché una cenetta da Willies doveva concludere l'incantevole giornata. Tale fu, giorno per giorno, la mia vita in quei tre mesi; fatta eccezione per i quattro giorni che passasti all'estero; e allora, naturalmente, dovetti venire a Calais per riprenderti. Per uno della mia natura e del mio temperamento la situazione era insieme tragica e grottesca. Te ne rendi conto, adesso? Capisci, adesso, come la tua incapacità a star solo, la tua natura che si ostinava a esigere dagli altri tempo e attenzione, la tua impossibilità di applicarti in un qualsiasi lavoro intellettuale, la sfortunata circostanza - perché non voglio pensare si trattasse d'altro - che fece si che tu non acquistassi un "carattere oxfordiano" nelle questioni intellettuali, che tu non fossi mai capace di sostenere una garbata schermaglia di idee, ma fossi arrivato soltanto alla violenza d'opinioni, capisci, adesso, che tutte queste cose, unite al fatto che le tue aspirazioni e i tuoi interessi erano per la vita, non per l'arte, risultavano altrettanto deleteri al tuo progresso culturale quanto al mio lavoro d'artista? Se paragono la mia amicizia con te a quella con uomini ancor più giovani, come John Gray e Pierre Louis, provo un senso di vergogna. La mia vita vera, più eletta, era con loro: con gente simile a loro.
Non voglio parlare, adesso, dei disastrosi risultati della mia amicizia per te. Sto semplicemente pensando alla tua qualità, fintanto che tale amicizia durò. Per me, fu intellettualmente degradante. Tu avevi in embrione i germi di un temperamento artistico. Ma t'incontrai non so se troppo presto o troppo tardi. Stavo bene quando eri via. Ai primi di dicembre dell'anno a cui mi riferisco, appena mi fu possibile convincere tua madre a mandarti via dall'Inghilterra, rabberciai la ragnatela strappata e sfilacciata della mia immaginazione,
ripresi in mano la mia vita, e non solo finii i tre atti che mi restavano di Un marito ideale, ma ideai e quasi portai a termine altre due commedie di genere tutto diverso, La tragedia fiorentina e La Sainte Courtisaine. Ma tu tornasti all'improvviso, non invitato, non gradito, e in circostanze che furono fatali alla mia felicità. E io non fui più in grado di riprendere i due lavori lasciati a mezzo. Non potei più ritrovare lo stato d'animo con cui li avevo creati. Anche
tu adesso, avendo pubblicato un libro di poesie, ti renderai conto della verità di quanto ho detto. Che tu vi riesca o meno, tutto ciò rimane come una spaventosa verità nel cuore stesso della nostra amicizia. Finché tu restasti con me significasti la totale rovina della mia arte; e permettendoti di frapporti con tanta ostinazione fra l'Arte e me, mi vergogno e mi biasimo al massimo grado. Non eri in grado di sapere, non eri in grado di capire, non eri in grado di
apprezzare. Io non avevo diritto di pretendere che tu lo fossi. I tuoi interessi non andavano più in là dei tuoi umori o dei tuoi appetiti. I tuoi desideri erano solo per i divertimenti, per i piaceri comuni o meno comuni. Il tuo temperamento non esigeva di più; o non credeva, al momento, di esigere di più. Avrei dovuto vietarti la mia casa e il mio alloggio, fatta eccezione
per le volte in cui ti invitavo espressamente. Mi rimprovero senza riserve la mia debolezza, poiché si trattò soltanto di debolezza. Una mezz'ora con l'Arte significava per me sempre di più che un'eternità con te. Niente, in effetti, in qualsiasi periodo della mia vita, fu mai più importante per me dell'Arte. Ma nel caso di un artista, la debolezza è poco meno d'un delitto quando si tratti di una debolezza che paralizza l'immaginazione. E inoltre mi rimprovero per averti permesso di portarmi a una rovina finanziaria disonorevole e totale. Ricordo un mattino dei primi d'ottobre del '92, mentre sedevo con tua madre nei boschi di Bracknell che cominciavano a ingiallire. A quel tempo sapevo pochissimo della tua vera natura. Ero stato con te a Oxford da un sabato a un lunedì. Tu eri stato con me a Cromer dieci giorni, e avevi giocato al golf. La conversazione si spostò su di te, e tua madre prese a parlarmi del tuo carattere. Mi disse dei tuoi due difetti principali: la vanità, e il tuo essere, secondo la sua espressione, "tutto sbagliato in fatto di denaro". Ricordo chiaramente d'aver riso. Non immaginavo lontanamente che il primo mi avrebbe condotto in carcere, il secondo alla bancarotta. Pensavo alla vanità come a un grazioso fiore che un giovanotto può sfoggiare all'occhiello; e quanto alla prodigalità - perché non credevo che tua madre intendesse altro - le virtù della temperanza e dell'economia non erano del mio carattere, né della mia razza. Ma prima che la nostra amicizia fosse vecchia d'un mese, cominciai a capire ciò che intendeva tua madre. Il tuo ostinarti in una vita di sventata prodigalità; le tue continue richieste di denaro; la pretesa che io pagassi per tutti i tuoi divertimenti, sia che fossi o no della compagnia; tutto ciò mi procurò in breve serie difficoltà finanziari; e ciò che rese quella prodigalità così monotona per me, e poco interessante, mentre la tua presa ostinata sulla mia vita si faceva sempre più forte, era il fatto che il denaro venisse speso in cose che non andavano oltre i piaceri del mangiare, del bere, e simili. Può essere una gioia, ogni tanto, avere la propria tavola rallegrata dal vino o dalle rose; ma tu oltrepassavi ogni limite di gusto e di misura. Chiedevi senza garbo, e prendevi senza ringraziare. Avevi finito per credere che vivere alle mie spalle, in una profusione di agiatezza alla quale non eri avvezzo, e che perciò acuiva maggiormente i tuoi appetiti, fosse una specie di tuo diritto; e alla fine, se ti accadeva di perdere del denaro al gioco in un casinò di Algeri, non facevi che telegrafarmi a Londra l'indomani perché io versassi l'ammontare delle tue perdite sul tuo conto in banca; e non ti davi altro pensiero al riguardo. Se ti dico che fra l'autunno del 1892 e la data della mia incarcerazione spesi con te - e per te - più di cinquemila sterline in moneta sonante, senza contare le cambiali che dovetti avallare, ti farai un'idea del genere di vita che conducevi. Credi che esageri? Le mie spese ordinarie con te, a Londra, in una giornata qualunque, tra colazione, pranzo, cena, divertimenti, carrozze, eccetera, si aggiravano fra le dodici e le venti sterline; e le spese della settimana erano naturalmente in proporzione, e si aggiravano fra le ottanta e le centotrenta sterline. Per i nostri tre mesi a Goring le spese (affitto compreso, naturalmente) furono di 1340 sterline. Col
curatore fallimentare dovetti ripercorrere passo passo ogni dettaglio della mia vita. Fu orribile. "Vivere con semplicità e pensare con grandezza" era, naturalmente, un ideale che tu a quel tempo non eri in grado di apprezzare; ma tanta prodigalità fu rovinosa per entrambi. Uno dei pranzi più piacevoli che io ricordi d'aver mai avuto fu con Robbie in un caffeuccio di Soho, e mi costò in scellini press'a poco quel che i pranzi con te mi costavano in sterline. Da quel pranzo con Robbie venne fuori il primo e più riuscito dei miei dialoghi. Idea, titolo, soggetto, forma, tutto compreso nei tre franchi e cinquanta centesimi della table d'hòte. Degli smodati pranzi con te mi resta solo il ricordo d'aver mangiato e bevuto troppo. E cedendo alle tue richieste non facevo che il tuo male, ora lo sai. Ciò ti rese avido spesso, alquanto privo di scrupoli a volte, scortese sempre. Erano troppe le occasioni in cui averti ospite costituiva tutt'altro che un privilegio o un piacere. Ti dimenticavi, non . dico della cortesia formale di un ringraziamento, perché le cortesie formali logorano la vera amicizia, ma semplicemente del piacere di una dolce compagnia, dell'incanto di una conversazione piacevole, di quel repnvòv xaxòv, come lo chiamavano i greci, e di tutti quegli atti di gentilezza e di umanità che rendono la vita amabile, ne formano l'accompagnamento come una musica, che armonizzi le cose e riempia di melodia i luoghi discordanti o silenziosi. E anche se può sembrarti strano che uno che si trovi in una situazione terribile come la mia faccia differenza fra un'ignominia e l'altra, pure ti dico francamente che la follia di sperperare per te tutto quel denaro, e di lasciarti dilapidare il mio patrimonio a tuo, come a mio danno, dà alla mia bancarotta una nota di dissolutezza volgare che mi fa vergognare doppiamente ai miei stessi occhi. Ero fatto per altre cose. Ma soprattutto mi rimprovero per la totale degradazione morale in cui mi lasciai coinvolgere da te. La forza di volontà costituisce la base del carattere, e la mia volontà era completamente soggetta alla tua. Sembra grottesco: eppure è vero. Quelle continue scenate che avevano tutta l'aria di essere per te una necessità fisica, e che distorcevano la tua mente e il tuo corpo facendo di te qualcosa di terribile sia a vedersi che ad ascoltarsi; quella spaventosa mania ereditata da tuo padre, di scrivere lettere rivoltanti e odiose; l'assoluta mancanza di controllo sui tuoi sentimenti che manifestavi sia nei lunghi silenzi risentiti e imbronciati, sia nelle crisi improvvise di collera quasi epilettica; tutte queste cose, riguardo alle quali una mia lettera, lasciata in giro da te al Savoy o in qualche altro albergo e presentata in tribunale dalla difesa di tuo padre, conteneva una preghiera non scevra di pathos, se tu a quel tempo fossi stato in grado di discernere il pathos nei suoi elementi e nelle sue espressioni; tutte queste cose dicevo, furono l'origine e la causa del mio fatale soggiacerti, cedendo alle tue richieste che si facevano di giorno in giorno più esigenti. Eri logorante. Il tuo era il trionfo della natura più meschina su quella più grande. Era il caso della tirannia del debole sul più forte che descrivevo, in non so più quale delle mie commedie,' come "la sola tirannia che duri". Ed era inevitabile. Nei propri rapporti con gli altri si deve cercare un qualche moyen de vivre. Nel tuo caso, bisognava rinunziare o a te, o a se stessi, non vi era altra alternativa. Per il profondo, mal riposto affetto che ti portavo; per la grande pietà che mi ispiravano i difetti della tua indole e del tuo temperamento; per il mio proverbiale buon carattere e per la mia pigrizia celtica; per la mia avversione d'artista alle scenate volgari e alle parolacce; per l'incapacità di serbare qualsiasi genere di rancore che allora mi caratterizzava; per la mia avversione a vedere la vita amareggiata e imbruttita da quelli che a me - che avevo gli occhi volti ad altre cose - sembravano dettagli troppo insignificanti per meritare un momento d'attenzione: per tutte queste ragioni, per semplici che possano sembrare, io rinunciai a me stesso in tutte le occasioni. La conseguenza logica fu che le tue pretese, i tuoi tentativi di sopravvento, le tue esigenze, si fecero sempre più irragionevoli. Il motivo più. meschino, l'appetito più basso, la passione più volgare divennero la tua legge, che doveva sempre guidare la vita degli altri ed alla quale, se era il caso, la vita degli altri doveva essere sacrificata senza scrupolo. Poiché sapevi che facendo una scenata l'avresti avuta vinta, era più che naturale che ti abbandonassi quasi inconsciamente ad ogni eccesso di violenza volgare. Alla fine non sapevi tu stesso verso quale traguardo ti affrettassi, o quale scopo avessi in vista. Ti eri impossessato del mio genio, della mia forza di volontà, del mio patrimonio, ed esigevi, nella cecità della tua insaziabile ingordigia, la mia intera esistenza. Anche di quella ti impossessasti. Nel momento della crisi suprema e più tragica di tutta la mia vita,poco prima di compiere quel deplorevole passo che fu la mia assurda azione giudiziaria, da una parte c'era tuo padre che mi perseguitava con odiosi biglietti lasciati al mio club, dall'altra tu, che mi attaccavi con lettere altrettanto odiose. Una delle peggiori che mi scrivesti, e per il più abietto dei motivi, fu quella che ricevetti il mattino in cui lasciai che tu mi conducessi alla Corte di Polizia per inoltrare il ridicolo mandato d'arresto per tuo padre. Fra lui e te, persi la testa, le mie facoltà di giudizio mi abbandonarono: il terrore ne prese il posto. Non vedevo scampo possibile, lo dico francamente, dall'uno all'altro di voi; barcollavo ciecamente come una bestia condotta al macello. Avevo commesso un madornale errore psicologico: avevo sempre creduto che cederti nelle piccole cose non avesse importanza, e che al momento opportuno sarei riuscito a far prevalere la mia forza di volontà grazie alla sua superiorità naturale. Non fu così. Quando giunse il momento, la forza di volontà mi mancò completamente. Nella vita non ci sono, in effetti, cose grandi o piccole. Tutte le cose hanno uno stesso valore e una stessa misura. La mia abitudine di cederti in tutto - dovuta soprattutto a indifferenza - era diventata poco a poco parte intrinseca della mia natura; senza che io me ne avvedessi, aveva dato al mio temperamento una forma stereotipata, permanente e fatale. Ecco perché Pater, nel suo acuto epilogo alla prima edizione dei suoi saggi, dice che "le ragioni dell'insuccesso consistono nel crearsi delle abitudini". Quando lo disse, la noiosa gente di Oxford ritenne la frase solo una estrosa inversione del testo alquanto pesante dell'Etica aristotelica; ma in essa si nasconde una meravigliosa e terribile verità. Ti avevo permesso di minare la mia forza di carattere, e il crearsi di un'abitudine fu per me sinonimo non solo d'insuccesso, ma di Rovina. Tu fosti per me più deleterio moralmente di quanto non lo eri stato artisticamente. Ottenuto il mandato, fu naturalmente la tua volontà a prendere le redini della situazione. Nel momento in cui avrei dovuto essere a Londra per chiedere un consiglio avveduto e riflettere con calma sull'orribile trappola in cui mi ero lasciato prendere - vera trappola per gonzi, la chiama ancor oggi tuo padre, - tu insistevi perché ti conducessi a Montecarlo, il posto più disgustoso del creato, per poter giocare giorno e notte al Casinò, finché questo restava aperto. Quanto a me, per il quale il baccarat non aveva alcuna attrattiva, venivo lasciato fuori, abbandonato a me stesso. Ti rifiutasti di parlare anche per soli cinque minuti della posizione in cui tu e tuo padre mi avevate messo. La mia funzione era semplicemente, quella di pagare le tue spese d'albergo e le tue perdite al gioco. La minima allusione alla difficile prova che mi aspettava veniva considerata una seccatura. Per te aveva più interesse una nuova marca di champagne che ci venisse consigliata. Al nostro ritorno a Londra, quegli amici ai quali stava realmente a cuore il mio bene, mi supplicarono di riparare all'estero e di non affrontare un processo impossibile. Tu attribuisti loro meschini motivi per avermi dato un simile consiglio, e mi accusasti di vigliaccheria per averlo ascoltato. Mi forzasti a restare, e sul banco degli imputati io mi comportai sfacciatamente, giurando il falso scioccamente e contro ogni logica. Alla fine, naturalmente, venni arrestato, e tuo padre divenne l'eroe del momento; anzi, divenne qualcosa di più: la tua famiglia infatti, cosa abbastanza strana, è oggi posta tra gli Immortali: giacché per quell'effetto grottesco che nella storia corrisponde all'elemento gotico, e fa di Clio la meno seria delle muse, tuo padre vivrà per sempre nel cuore delle famiglie buone e pure di spirito della letteratura parrocchiale; tu sei messo insieme a Samuele fanciullo, ed io seggo nell'infimo girone di Malebolge, fra Gilles de Retz ed il marchese di Sade. E' chiaro che avrei dovuto liberarmi di te. Avrei dovuto scrollarti dalla mia vita come ci si scrolla di dosso qualcosa che ci ha punto. Nel suo dramma più bello, Eschilo ci racconta del gran signore che alleva in casa il cucciolo di leone, il kovtoc tvty, e lo ama perché gli brillano gli occhi quando lo chiama e perché fa le feste quando vuole da mangiare... E la bestia cresce, rivela la natura della sua razza... e distrugge il suo padrone e la sua casa e tutto quanto possiede.
A me sembra di essere stato come lui. Ma il mio errore non fu tanto di non averti lasciato, quanto di averti lasciato troppe volte. Per quanto mi è dato ricordare, troncai la mia amicizia con te regolarmente ogni tre mesi; e ogni volta che lo feci, tu mi spingesti a richiamarti con suppliche, telegrammi, lettere, l'intercessione di amici tuoi, l'intercessione di amici miei, e via
dicendo. Quando; alla fine del marzo '93, tu lasciasti la mia casa di Torquay, ero deciso a non rivolgerti più la parola né a permetterti mai più, per nessuna ragione, di tornare con me: tanto ripugnante era stata la scenata che mi avevi fatto la sera prima della tua partenza. Tu scrivesti e telegrafasti da Bristol implorandomi perché ti perdonassi e mi incontrassi con te. Il tuo tutore, che era rimasto a Torquay, mi disse che pensava a volte che tu non fossi del tutto responsabile di ciò che dicevi o facevi; e che questa era anche l'opinione di tutti, o quasi tutti, gli studenti di Magdalen. Consentii ad incontrarti, e naturalmente ti perdonai. Mentre facevamo ritorna in città, tu mi pregasti di condurti al Savoy. Quella fu per me una visita davvero fatale. Tre mesi dopo, in giugno, eravamo a Goring. Vennero alcuni tuoi amici di Oxford, e si fermarono dal sabato al lunedì. Il mattino in cui partirono, tu mi facesti una scenata così orribile, così penosa, che io ti dissi che avremmo dovuto separarci. Ricordo benissimo che mentre eravamo sul campo pianeggiante del croquet, con quella bell'erbetta tutt'intorno, io ti feci notare che stavamo guastandoci reciprocamente l'esistenza; che tu stavi rovinando la mia, e che evidentemente neanch'io riuscivo a farti veramente felice; e che una partenza senza ritorno, una definitiva separazione, era l'unica cosa da farsi, da un punto di vista saggiamente filosofico. Tu partisti dopo colazione, imbronciato, lasciando al maggiordomo, perché me la consegnasse dopo la tua partenza, una delle tue lettere più offensive. Non erano trascorsi tre giorni, e mi telegrafavi da Londra supplicandomi di perdonarti e di permetterti di tornare. Io avevo preso quella casa per farti contento; a tua richiesta, avevo assunto i tuoi stessi servitori. Avevo sempre sofferto per l'orribile carattere di cui eri letteralmente preda. Ti volevo bene. Così ti lasciai tornare e ti perdonai. Tre mesi dopo ancora, in settembre, ebbero luogo nuove scenate, dovute all'averti io fatto notare alcuni errori da scolaretto nel tuo abbozzo di traduzione della Salomè. Dovresti a quest'ora aver studiato abbastanza il francese da poter capire come la traduzione fosse indegna tanto di te, quale studente di Oxford, quanto dell'opera che ti ripromettevi di tradurre. Allora naturalmente non eri in grado di capirlo; e in una delle burrascose lettere che mi scrivesti in proposito, dicesti che non riconoscevi di avere verso di me "debiti intellettuali di alcun genere". Ricordo che quando lessi questa tua asserzione sentii come essa fosse l'unica cosa vera che mi avevi scritto nel corso di tutta la nostra amicizia. Era chiaro che una natura incolta avrebbe fatto molto meglio al caso tuo. Dico questo senza alcuna amarezza, ma solo in nome dell'amicizia. In fin dei conti, il legame di ogni rapporto, sia esso tra marito e moglie come tra amici, è sempre un legame di conversazione; e fra due persone di troppo vasta disparità culturale, la sola base possibile è al livello più basso. La frivolezza nel pensiero e nell'azione ha un suo incanto: ne avevo fatto la chiave di volta di una filosofia molto brillante espressa in commedie e paradossi. Ma la futilità e la follia della nostra vita erano spesso molto stancanti per me; ci incontravamo solo nel fango: e per affascinante - anzi, per troppo affascinante - che fosse quell'unico argomento intorno al quale gravitava invariabilmente la tua conversazione, pure alla fine mi diventò monotono. Spesso ne ero annoiato a morte, lo accettavo come accettavo la tua passione per il music-hall, o gli assurdi eccessi nel mangiare o nel bere, o quelle altre tue caratteristiche per me di minore attrattiva; lo accettavo come una cosa che si deve sopportare,come parte del prezzo troppo alto che si doveva pagare per conoscerti. Quando lasciai Goring e andai a Dinard per una quindicina di giorni, tu ti inquietasti terribilmente con me perché non volevo portartici, e prima della mia partenza mi facesti delle scenate molto spiacevoli all'Hotel Albemarle, e mi mandasti dei telegrammi altrettanto sgradevoli alla casa di campagna dove fui ospite per alcuni giorni. Ricordo di averti detto come fosse tuo dovere startene in famiglia per qualche tempo, dal momento che ne mancavi da un'intera stagione. Ma in realtà, e per essere del tutto sincero, io non volevo in alcun modo averti con me. Eravamo stati assieme quasi dodici settimane: avevo bisogno di riposo e di libertà, dopo la tensione terribile cui mi costringeva la tua presenza, avevo bisogno di starmene un po' per conto mio. Era una necessità intellettuale. Per questo, lo confesso, vidi nella tua lettera, della quale ho trascritto alcuni passi, un'ottima occasione per troncare la fatale amicizia che era sorta fra di noi, e troncarla senza amarezza, come del resto avevo cercato di fare già tre mesi prima, a Goring, in quel radioso mattino di giugno. Ma mi fu fatto presente, e devo dire, con molto candore, da quel mio stesso amico al quale ti eri rivolto in quella congiuntura, che tu ti saresti sentito molto offeso, addirittura umiliato, se ti avessi rimandato il tuo lavoro come il compito di uno scolaro; che pretendevo troppo da te, intellettualmente; e che, qualsiasi cosa tu dicessi o facessi, mi eri sinceramente e interamente affezionato. Non volevo essere io il primo a
troncare o a scoraggiare i tuoi esordi letterari; sapevo benissimo che nessuna traduzione, se non quella di un poeta, avrebbe potuto rendere in maniera adeguata il colore e la musicalità della mia opera, e l'affetto mi sembrava - mi sembra ancor oggi - qualcosa di meraviglioso, da non potersi respingere alla leggera; così ripresi indietro la traduzione, e te. Esattamente tre mesi più tardi, dopo una serie di scenate che culminarono in una più ripugnante del solito, quando tu arrivasti al mio alloggio un lunedì sera con due tuoi amici, mi ritrovai l'indomani a dover letteralmente fuggire all'estero per evitarti, dando ai miei non so quale assurda giustificazione per quell'improvvisa partenza, e lasciando al mio domestico un falso indirizzo per la paura che tu mi corressi dietro col primo treno. E ricordo che quel pomeriggio, nello
scompartimento in corsa verso Parigi, io riflettevo in quale situazione tremenda, insostenibile, sbagliata per ogni verso, fosse venuta a trovarsi la mia vita se io, uomo di fama internazionale, ero addirittura costretto a fuggire dall'Inghilterra per liberarmi da una amicizia capace soltanto di distruggere quanto vi era di bello in me, sia da un punto di vista intellettuale che morale; la persona dalla quale fuggivo e con la quale avevo confuso le mie giornate non essendo una creatura ripugnante balzata da un porcile o dal fango nella vita attuale, ma trattandosi di te, un giovane della mia stessa classe e posizione sociale, che era stato al mio stesso college di Oxford, ed era ospite abituale in casa mia. Seguirono i soliti telegrammi di supplica e di rimorso: li ignorai. Alla fine tu minacciasti di non volere a nessun costo partire per l'Egitto, se io non acconsentivo ad incontrarti. Ero stato io stesso, con la tua
consapevolezza ed il tuo concorso, a pregare tua madre di mandarti per qualche tempo in Egitto, lontano dall'Inghilterra, dal momento che a Londra ti stavi rovinando la vita. Sapevo che se non ci fossi andato, sarebbe stata per lei una terribile delusione, e per il suo bene t'incontrai, e, sotto la spinta di un'intensa emozione, quale nemmeno tu puoi aver dimenticato, perdonai il passato; tuttavia non feci parola del futuro. Al mio ritorno a Londra il giorno seguente, ricordo d'esser rimasto seduto in camera mia e di aver cercato seriamente e tristemente di dibattere fra me se eri davvero quel che mi apparivi, così pieno di difetti spaventosi, così assolutamente deleterio per te stesso e per gli altri, così fatale anche solo per chi ti conosceva o ti stava vicino. Vi pensai su un'intera settimana, domandandomi se dopotutto il mio giudizio su di te non fosse ingiusto o sbagliato. Alla fine di quella settimana mi viene consegnata una lettera di tua madre. Esprimeva in pieno ogni mio sentimento nei tuoi riguardi. Nella lettera tua madre parlava della cieca, eccessiva vanità che ti faceva disprezzare casa tua e trattare il tuo fratello maggiore, quella candidissima anima, "come un beota"; del tuo cattivo carattere, che faceva sì che ella avesse paura a parlarti della tua vita, di quella vita che ella sentiva, sapeva tu stavi conducendo; della tua condotta in questioni di danaro, così penosa per lei per molti motivi; del cambiamento e della degenerazione che erano sopravvenuti in te. Ella si rendeva conto, naturalmente, di come l'ereditarietà ti avesse gravato di un terribile fardello; e francamente lo ammetteva, lo ammetteva con terrore: "egli è il solo dei miei figli" scriveva "che abbia ereditato il fatale carattere dei Douglas". Alla fine diceva di sentirsi costretta a dichiarare che secondo lei la tua amicizia con me aveva accresciuto la tua vanità al punto da essere all'origine di tutti i tuoi errori, e mi supplicava ardentemente di non incontrarmi con te all'estero. Io le risposi subito, dicendo che concordavo con ogni sua parola, e aggiungendo molto altro ancora. Arrivai fin dove mi era possibile arrivare. Le dissi che la nostra amicizia era cominciata dall'esserti tu rivolto a me quando eri studente a Oxford perché ti cavassi fuori da un pasticcio piuttosto serio di natura particolare. Le dissi che in tutta la tua vita ti eri sempre trovato in pasticci del
genere. Per giustificare il tuo viaggio in Belgio ne avevi dato la colpa al tuo compagno di viaggio, e tua madre mi aveva rimproverato per avertelo fatto conoscere; io rimisi la colpa sulle giuste spalle, cioè le tue. Come conclusione la rassicurai dicendo che non avevo la minima intenzione di raggiungerti all'estero, e pregandola di trattenerti laggiù come attachè onorario, se era possibile, altrimenti con la scusa di imparare le lingue, o con qualunque altra
scusa ella preferisse, per un minimo di tre o quattro mesi; e questo, per il tuo come per il mio bene. Nel frattempo tu mi scrivevi dall'Egitto a ogni volta di corriere. Non tenevo il minimo conto delle tue comunicazioni. Le leggevo e le strappavo. Avevo deciso di non aver più niente a che fare con te. Presa questa decisione, mi dedicavo felicemente all'Arte, quell'Arte il cui sviluppo ti avevo permesso di arrestare. Allo scadere di tre mesi tua madre, con quella
disgraziata debolezza di carattere che le era tipica, e che nella tragedia della mia vita fu un elemento non meno fatale per me della violenza di tuo padre, mi scrive addirittura, certo istigata da te, dicendomi che tu aspetti con grande impazienza mie notizie, e mandandomi il tuo indirizzo di Atene - che io naturalmente conoscevo benissimo - perché non abbia scuse per non mettermi in contatto con te. Confesso che quella lettera mi sbalordì. Non riuscivo a
capire come, dopo quel che mi aveva scritto in dicembre, e dopo quel che io le avevo risposto, potesse cercare di rabberciare o rinnovare la nostra disgraziata amicizia. Naturalmente le risposi, invitandola nuovamente a cercare di metterti in contatto con qualche ambasciata all'estero, per impedirti di tornare in Inghilterra; ma non ti scrissi, né mi curai dei tuoi telegrammi più di quanto non facessi prima che mi avesse scritto tua madre. Alla fine tu telegrafasti addirittura a mia moglie, supplicandola di usare la sua influenza su di me per
indurmi a scriverti. La nostra amicizia era sempre stata per lei fonte di pena; non solo perché personalmente non le eri mai stato simpatico, ma perché capiva quanto una compagnia costante mi mutasse, e non certo per il meglio; tuttavia, siccome era sempre stata gentile nei tuoi riguardi, non sopportava l'idea che io potessi essere in qualche modo scortese - tale infatti le sembravo - con uno dei miei amici: pensava, anzi sapeva, che questo era contrario alla mia natura. Dietro sua richiesta ti scrissi. Ricordo perfettamente ogni parola di quel telegramma. Dicevo che il tempo medica ogni ferita, ma che per molti mesi avvenire non ti avrei scritto né veduto. Tu ti mettesti subito in viaggio alla volta di Parigi, e strada facendo mi mandasti telegrammi appassionati supplicandomi di vederti almeno una volta. Io rifiutai. Arrivasti a Parigi un sabato a notte inoltrata e trovasti al tuo albergo un mio breve biglietto in cui ti dicevo che non desideravo vederti. L'indomani mattina ricevetti a Tite Street un tuo telegramma di forse dieci o undici pagine. In esso dicevi che qualsiasi cosa tu mi avessi fatto, non potevi credere che io mi rifiutassi di vederti; mi facevi notare che avevi viaggiato per sei giorni e sei notti attraverso l'Europa, senza mai fermarti, nella speranza di vedermi anche solo per un'ora; mi rivolgevi una preghiera devo riconoscerlo, molto patetica, e concludevi con quella che io ritenni una minaccia di suicidio, neppure molto velata, Mi avevi detto tu stesso molte volte che molti della tua stirpe si erano macchiati le mani del proprio sangue; tuo zio, sicuramente, tuo nonno forse, e molti altri ancora di quella pazza malvagia progenie dalla quale discendi. Pietà, il mio vecchio affetto per te, rispetto per tua madre, per la quale la tua
morte in tali orrende circostanze sarebbe stata un colpo troppo duro da sopportare, orrore all'idea che una vita così giovane, una vita che fra i suoi brutti difetti aveva ancora una promessa di bellezza, potesse finire in modo così spaventoso; infine un senso puramente umanitario, tutto questo, se delle scuse fossero necessarie, può servirmi di scusa per aver consentito ad accordarti un ultimo appuntamento. Quando arrivai a Parigi, le tue lagrime, che per tutta la sera continuarono a scorrere, bagnando il tuo viso come pioggia mentre sedevamo prima a pranzo da Voisin, poi a cena da Paillard; la gioia sincera che mostrasti al vedermi e quel tuo prendermi continuamente la mano, come un bambino docile e pentito, la tua contrizione, così semplice e genuina sul momento; tutto questo mi indusse a riannodare la nostra amicizia. Due giorni dopo il nostro ritorno a Londra tuo padre ti vide mentre facevi colazione con me al Café Royal, venne al mio tavolo, bevve il mio vino, e quello stesso pomeriggio, per mezzo di una lettera a te indirizzata, sferrò il primo dei suoi attacchi contro di me. Può sembrare strano, ma mi toccò un'altra volta, non dirò la sorte, ma il dovere di separarmi da te. Non occorre dirti che mi riferisco alla tua condotta verso di me a Brighton dal 10 al 13
ottobre del 1894. Per te, pensare a tre anni fa, è rievocare un tempo lontanissimo. Ma noi che siamo in carcere, e nelle cui esistenze non c'è nessun avvenimento, eccetto il dolore, dobbiamo misurare il tempo coi palpiti della sofferenza e la ricapitolazione dei momenti amari. Non abbiamo altro a cui pensare. La sofferenza, per strano che questo possa sembrarti, è il mezzo per cui esistiamo, perché è l'unico mezzo per cui diventiamo coscienti di esistere; e il ricordo delle sofferenze del passato ci è necessario come garanzia e testimonianza della nostra identità ininterrotta. Tra noi e la memoria della felicità sta un abisso non meno profondo di quello che ci divide dalla felicità stessa. Se la nostra vita insieme fosse stata quella che il mondo immaginava, una vita tutta di piacere, feste e libertinaggio, non saprei più ricordarne un solo episodio. È perché fu piena di momenti e giorni tragici, amari, sinistri nelle loro promesse, tetri e terribili nelle loro scenate monotone e violenze indecenti, che posso rivedere e riudire nei suoi dettagli ogni singolo episodio, anzi quasi non so vedere e udire altro. È tanto vero che in questo luogo si vive di dolore, che la mia amicizia con te, così come sono costretto a ricordarla, mi appare sempre un preludio conforme a quelle varie forme di tormento che devo provare ogni giorno; anzi, mi sembra di postularle come necessarie, quasi che la mia vita, qualsiasi aspetto avesse intanto rivestito ai miei occhi e a quelli altrui, fosse stata in realtà una Sinfonia del Dolore e fosse passata attraverso i suoi movimenti ritmicamente collegati fino alla conclusione stabilita, con quella inevitabilità che in arte caratterizza lo svolgimento di ogni grande tema. Parlavo della tua condotta verso di me in quei tre giorni successivi di tre anni fa, non è vero? Stavo allora tentando di portare a termine la mia ultima commedia. a Worthington, dove abitavo solo. Le due visite che mi avevi fatto erano terminate. Improvvisamente apparisti una terza volta conducendo con te un compagno che mi proponesti addirittura di ospitare in casa mia. Io (e devi ammettere adesso che avevo ragione) rifiutai assolutamente di farlo. Ti ospitai, naturalmente: non avevo scelta; ma altrove, e non in casa mia. Il giorno seguente, un lunedì, il tuo compagno tornò ai doveri della sua professione, e tu rimanesti con me. Annoiato di Worthington, e ancor più, senza dubbio, dei miei tentativi infruttuosi di riconcentrare l'attenzione sulla commedia, l'unica cosa che mi interessasse davvero in quel momento, insistei per essere condotto al Grand Hotel di Brighton. La sera del nostro arrivo cadesti ammalato di quella febbre insidiosa e pericolosa che impropriamente viene chiamata influenza; il tuo secondo attacco, se non il terzo. Non occorre che io ti rammenti come ti servissi e ti assistessi, prodigandoti non soltanto frutta, fiori, piccoli doni, libri, e simili cose che il danaro può procurare, ma anche tutto l'affetto, la tenerezza e l'amore che col danaro non è possibile ottenere, checché tu ne pensi. Non lasciai mai l'albergo, eccetto per un'ora di passeggio la mattina e una di carrozza il pomeriggio. Feci arrivare appositamente per te dell'uva da Londra, dato che non ti piaceva quella fornita dall'albergo; escogitai passatempi per divertirti; rimasi quasi continuamente con te o nella camera accanto; stetti con te ogni sera per tenerti quieto o per distrarti. Dopo quattro o cinque giorni tu guarisci, ed io prendo in affitto un alloggio per cercare di finire la mia commedia. Tu, si capisce, mi accompagni. La mattina dopo la nostra sistemazione, io mi sento improvvisamente molto male. Tu sei obbligato a recarti a Londra per affari, ma prometti di tornare nel pomeriggio. A Londra incontri un amico, e ritorni a Brighton soltanto la sera del giorno dopo, quando ormai ho una febbre altissima e il dottore scopre che ho preso l'influenza da te. Per un ammalato, niente potrebbe essere più scomodo di quel mio alloggio. Il salottino è al primo piano, la camera da letto al terzo. Non c'è cameriere per assistermi, non c'è una persona, a cui affidare un biglietto o l'incarico di procurare le medicine. Ma ci sei tu. Non provo alcuna inquietudine. Nei due giorni seguenti, tu mi lasci del tutto solo, senza cure, senza assistenza, senza nulla. Non si trattava di uva, fiori e regali, si trattava delle cose più indispensabili; non riuscii ad avere nemmeno il latte che il dottore mi aveva ordinato di bere; ottenere una limonata fu impossibile; e quando ti pregai di procurarmi un libro, o, se alla libreria non avessero avuto quello che desideravo, di scegliermi tu qualcosa d'altro, non ti prendesti neppure la pena di andarci. E quando, in conseguenza, me ne rimango tutto il giorno senza nulla da leggere, tu mi dici con tutta calma di avermi comperato il libro, e che hanno promesso di mandarmelo, un'asserzione che più tardi per caso scopersi falsa da capo a fondo. Nel mentre, s'intende, vivi a mie spese, andando in carrozza, pranzando al Grand Hotel, e anzi comparendo in camera mia soltanto per domandarmi danaro. La sera del sabato, avendomi tu lasciato completamente solo e senza assistenza dalla mattina, ti chiedo di ritornare dopo cena a farmi compagnia per un poco. Con voce irritata e maniere sgarbate prometti di farlo. Aspetto fino alle undici, e tu non compari. Ti lasciai allora un biglietto in camera tua ricordandoti la promessa che mi avevi fatta, e come l'avevi mantenuta. Alle tre di mattina, incapace di dormire e tormentato dalla sete, scesi nell'oscurità e nel freddo giù in salottino con la speranza di trovarvi dell'acqua da bere. Trovai te. Mi assalisti con tutte le orrende parole che un umore sregolato, una natura indisciplinata e ineducata potevano suggerire. Con la terribile alchimia dell'egoismo trasformasti il tuo rimorso in collera. Mi accusasti di egoismo, perché mi ero aspettato che tu mi facessi compagnia mentre ero ammalato; e di essere un ostacolo fra te e i tuoi divertimenti; e di cercare di privarti dei tuoi piaceri. Mi dicesti, e so che era vero, di essere rincasato a mezzanotte semplicemente per cambiare vestito e uscire di nuovo per recarti dove speravi ti aspettassero nuovi piaceri; ma che, lasciando una lettera in cui ti ricordavo di avermi trascurato per l'intera giornata e l'intera serata, io ti avevo defraudato del tuo desiderio di nuovi piaceri e addirittura avevo ridotto la tua capacità di godimento. Nauseato, tornai di sopra e rimasi senza sonno fino all'alba, né potei spegnere la mia sete febbrile fino a parecchie ore dopo. Alle undici entrasti nella mia camera. Durante la scenata precedente non avevo potuto impedirmi dal riflettere che la mia lettera era servita se non altro a frenarti in una notte di eccessi fuori dell'usato. Alla mattina eri pienamente padrone di te. Aspettavo, naturalmente, di sentire quali scuse volessi farmi, e in quale maniera mi avresti chiesto quel perdono che in cuor tuo sapevi invariabilmente in attesa di te, qualsiasi cosa mi avessi fatto; dato che la tua assoluta fiducia nel mio perdono era in te da sempre la qualità che più amavo, forse la qualità più degna d'essere amata. Lungi dall'agire così, prendesti a ripetere la medesima scenata con nuova enfasi e accresciuta violenza. Ti dissi infine di lasciare la camera; fingesti di farlo, ma quando alzai la testa dal guanciale in cui l'avevo nascosta, tu eri sempre li, e con risa brutali e -rabbia isterica muovesti d'improvviso verso di me. Un senso d'orrore mi invase, non capivo per quale precisa ragione; ma mi levai subito dal letto, e, scalzo, e nello stato in cui mi trovavo, scesi le due rampe di scale fino al salottino, che non lasciai fino a quando il proprietario dell'alloggio - che avevo chiamato con il campanello - non mi ebbe assicurato che avevi lasciato la mia camera, e promesso ch'egli sarebbe rimasto a portata di voce in caso di bisogno. Dopo un intervallo di un'ora, durante il quale il dottore era venuto, e trovandomi, come era naturale, in uno stato di totale prostrazione nervosa oltre che in una condizione febbrile peggiore di quel che fosse stata all'inizio della malattia, tu tornasti, senza dir parola, in cerca di denaro, prendesti quanto riuscisti a trovare sulla toeletta e sulla mensola del camino, e lasciasti la casa con i tuoi bagagli. Occorre dire ciò che pensai di te durante i due infelicissimi e solitari giorni di malattia che seguirono? necessario che io affermi di aver visto allora chiaramente che disonore sarebbe stato per me mantenere anche solo una conoscenza superficiale con una persona quale tu avevi dimostrato di essere? Che riconobbi come il momento della rottura fosse giunto, e lo riconobbi in realtà con grande sollievo? E che compresi come nel futuro la mia Arte e la mia Vita sarebbero state più libere e migliori e più belle sotto ogni possibile aspetto? Malato com'ero, mi sentivo tranquillo. Il fatto che la separazione era irrevocabile mi dava la pace. Martedì. la febbre mi aveva ormai lasciato, e pranzai in salotto. Mercoledì era il mio compleanno. Tra i telegrammi e i messaggi d'augurio sul mio tavolino vi era una busta con la tua calligrafia. L'apersi, sopraffatto da un senso di tristezza. Sapevo che era finito il tempo in cui una bella frase, un'espressione di affetto, una parola di rimorso mi avrebbero persuaso a riprenderti. Ma mi ingannavo. Ti avevo sottovalutato. La lettera che mi mandasti per il mio compleanno era una replica minuziosa delle due scenate, abilmente e attentamente registrate in bianco e nero! Mi schernivi con scherni volgari. Il solo motivo di soddisfazione in tutta la faccenda era stato per te, dicevi, il fatto d'essere tornato al Grand Hotel e di aver fatto aggiungere la colazione sul mio conto prima di partire per Londra. Ti congratulavi con me per la prudenza che mi aveva fatto lasciare il letto e fuggire senza indugio al piano di sotto. "Fu per te un momento pericoloso", dicevi pericoloso di quanto immagini". Ah, io l'avevo sentito anche troppo bene! Quale ne fosse il significato reale non lo sapevo; non sapevo se tu avessi con te la pistola che avevi comperato per tentare di impaurire tuo padre e con cui avevi una volta sparato in un pubblico ristorante in mia compagnia, credendola scarica; o se la tua mano avesse fatto un movimento verso il coltello da tavola che per caso si trovava sul tavolino che ci separava; o se, dimenticando nell'ira d'essere inferiore di statura e di forze, avessi pensato di infliggermi un'offesa più speciale e personale, o persino di assalirmi mentre giacevo Il malato; non avrei saputo dirlo. Nemmeno in questo momento lo so. Tutto ciò che so è che un senso di orrore senza limiti mi aveva sopraffatto, e avevo sentito che, a meno di lasciare la camera all'istante e andar via, tu avresti fatto, o tentato di fare, un'azione che perfino per te sarebbe rimasta un motivo di vergogna per tutta la vita. Una sola volta in vita mia, prima d'allora, io avevo provato un simile senso d'orrore per un essere umano: quando, nella mia biblioteca di Tite Street, agitando in aria le sue manine con furia epilettica, tuo padre, col suo bravaccio, o il suo amico, fra me e lui, aveva vomitato ogni immonda parola che la sua mente immonda
sapeva inventare e urlato le odiose minacce che in seguito mise in pratica con tanta astuzia. In quest'ultimo caso, naturalmente, fu lui che dovette lasciare la stanza per primo: io lo cacciai. Nel tuo caso fuggii. Non era la prima volta che ero stato costretto a salvarti da te stesso. Concludevi la tua lettera col dire: "Quando non sei sul tuo piedistallo non sei interessante. La prossima volta che ti ammali me ne andrò via subito". Ah! che fibra grossolana rivela mai questa frase! Che assoluta mancanza di immaginazione! Come era divenuto insensibile e volgare, ormai, il tuo temperamento! "Quando non sei sul tuo piedistallo non sei interessante. La prossima volta che ti ammali andrò via subito". Quanto spesso mi sono tornate alla mente queste parole, nelle celle squallide e solitarie delle varie prigioni in cui sono stato! Me le sono ripetute mille volte e ho visto in esse, spero facendoti un'ingiustizia, parte del segreto del tuo strano silenzio. Che tu mi abbia scritto in questi termini, quando la malattia e la febbre stessa di cui mi ero ammalato le avevo prese nell'assistere te, è stata una cosa di una volgarità e crudezza nauseanti; ma che in tutto l'universo un solo essere umano scrivesse così a un altro sarebbe già un peccato imperdonabile, se esistessero peccati imperdonabili.
Confesso che quando terminai la tua lettera mi sentii quasi contaminato, come se frequentando una persona di natura così bassa avessi irrimediabilmente macchiata e coperta di vergogna la mia vita. Era vero, ma solo sei mesi più tardi avrei capito fino a che punto. Stabilii da me di ritornare a Londra il venerdì e recarmi di persona da Sir George Lewis, per chiedergli di scrivere a tuo padre che avevo deciso di non permetterti mai più, in nessuna circostanza, di metter piede in casa mia, sederti alla mia tavola, parlarmi, passeggiare con me o essermi compagno in nessuna occasione ed in nessun luogo. Fatto ciò, ti avrei scritto solo per informarti della decisione presa; le ragioni, le avresti inevitabilmente comprese da solo. Per la sera del giovedì avevo già sistemato ogni cosa. Venerdì mattina, mentre sedevo a colazione prima della mia partenza, apersi per caso il giornale e vi trovai la notizia che il tuo fratello maggiore, il vero capo della famiglia, l'erede al titolo, il pilastro della casa, era stato trovato morto in un fosso con il fucile scarico accanto. L'orrore delle circostanze di questa tragedia, ora riconosciute accidentali, ma allora macchiate da un più oscuro sospetto; il pathos della morte improvvisa di un giovane tanto amato da tutti quelli che lo conoscevano, e per così dire quasi alla vigilia delle proprie nozze; la mia consapevolezza dell'angoscia di tua madre per la perdita di colui dal quale dipendevano le consolazioni e le gioie della sua vita, colui che, come lei stessa mi aveva detto una volta, dal giorno della sua nascita non le aveva mai fatto versare una lagrima; la consapevolezza del tuo isolamento, mentre entrambi gli altri tuoi fratelli erano assenti dall'Europa e tu rimanevi di conseguenza l'unico a cui tua madre e tua sorella potessero rivolgersi non soltanto per averti compagno nel loro dolore, ma anche per quelle tetre responsabilità che la morte porta sempre con sé; il senso delle lacrimae rerum, delle lacrime di cui è composto il mondo e della tristezza di tutte le cose umane: dalla confluenza di questi pensieri e di queste emozioni accorrenti in folla alla mia mente nacque un'infinita pietà per te e la tua famiglia. Dimenticai i motivi di rancore e l'amarezza contro di te. Quel che eri stato con me nella malattia, io non riuscii ad esserlo con te nel lutto. Ti telegrafai subito le mie condoglianze più sentite e nella lettera che seguì ti invitai a venire a casa mia appena potevi. Mi pareva che abbandonarti proprio in quel momento, e con tutte le formalità, per tramite dell'avvocato, sarebbe stato troppo terribile per te. Al tuo ritorno in città dal teatro del dramma a cui eri stato chiamato a partecipare, venisti subito da me, con semplicità commovente, nei tuoi abiti di lutto, gli occhi annebbiati di lagrime. Cercavi consolazione e aiuto, come potrebbe cercarli un bambino. Ti apersi la mia casa, il mio focolare, il mio cuore. Feci mio il tuo dolore per aiutarti a sopportarlo. Mai, neppure con una parola, feci allusione alla tua condotta nei miei confronti, alle scene disgustose e alla disgustosa lettera. Il tuo dolore, che era sincero, sembrava renderti più vicino a me di quanto fossi stato mai. I fiori che ti diedi da mettere sulla tomba di tuo fratello dovevano essere un simbolo non soltanto della bellezza della sua vita, ma della bellezza che giace sopita in tutte le vite e può essere portata alla luce.
Gli dèi sono misteriosi. Non è soltanto dei nostri vizi che essi fanno staffili per fustigarci. Ci portano alla rovina per mezzo di ciò che abbiamo di buono, di tenero, di umano e di caritatevole. Se non fosse stato per la pietà e l'affetto verso di te e i tuoi, non sarei adesso in lagrime in questo luogo terribile. Del resto, io scorgo in fondo a tutti i nostri rapporti, non il Destino soltanto, ma la Nemesi: la Nemesi che sopraggiunge veloce, perché corre là dove si versa il sangue. Da parte di padre tu discendi da una stirpe, con la quale il matrimonio è orrendo, l'amicizia disastrosa, una stirpe che tronca con mano omicida la propria vita o quella altrui. In ogni piccola circostanza in cui le strade delle nostre vite si toccarono; in ogni momento di importanza grande o apparentemente piccola in cui tu venisti a cercare da me piacere o aiuto; nei casi minimi, nei lievi incidenti che appaiono, in rapporto con la vita, niente più del pulviscolo in un raggio di sole o della foglia che cade ondeggiando da un
albero, la Rovina seguiva, come l'eco di un grido amaro o l'ombra che va a caccia insieme all'animale da preda. La nostra amicizia incomincia in realtà con la supplica che mi rivolgesti, in una lettera estremamente patetica e commovente, perché ti prestassi aiuto in una situazione, terribile per chiunque, e doppiamente tale per uno studente di Oxford. Acconsento
a farlo, e alla fine, poiché tu parli di me a Sir George Lewis come di un tuo amico, incomincio a perderne la stima e l'amicizia, un'amicizia vecchia di quindici anni. Quando rimasi privo del consiglio, dell'aiuto e del rispetto di lui, perdetti l'unico grande baluardo della mia vita. Mi mandi da leggere una lirica molto graziosa, di levatura gogliardica; rispondo con una lettera piena di fantasiosi concetti letterari; ti paragono ad Ila o a Giacinto, a Giunchiglia o a Narciso, a qualche giovinetto che il sommo dio della poesia predilesse e onorò del suo amore. La lettera è come un passo di un sonetto di ShaKespeare, trasposto in tono minore. Può essere compresa soltanto da chi abbia letto il Convito di Platone, o colto lo spirito di una particolare espressione di gravità resa bella per noi dai marmi greci. Era, lasciamelo dire francamente, il genere di lettera che avrei scritto in un momento di estro felice a qualsiasi amabile giovane dell'una o dell'altra Università, che mi avesse mandato una sua poesia, sicuro che egli avrebbe avuto sufficiente intelligenza e cultura per interpretarne rettamente le frasi fantasiose. Ma vedi un poco la storia di questa lettera! Passa da te nelle mani di un tuo indegno compagno; da lui a una banda di ricattatori; ne vengono mandate copie per tutta Londra ai miei amici e al direttore del teatro dove si recita il mio lavoro; la buona società vien messa sottosopra da assurde voci che io abbia dovuto pagare una somma enorme a causa della lettera infamante che ti avrei scritto; questo forma la base dell'attacco più grave da parte di tuo padre. Presento io stesso in tribunale l'originale della lettera per mostrare ciò che essa è in realtà; essa viene denunciata dall'avvocato di tuo padre come un tentativo insidioso e ripugnante di corrompere l'innocenza; viene a far parte, a suo tempo, di un'accusa penale; il Pubblico Ministero se ne impadronisce; il Giudice, sulla base di essa, ricapitola i fatti dimostrando poca cultura e molto moralismo; infine per causa di questa lettera finisco in prigione. Ecco il risultato
dell'averti scritto una lettera tanto graziosa. Mentre sono con te a Salisbury, un messaggio minaccioso da parte di un tuo antico compagno ti mette in grande allarme; mi preghi di andarlo a trovare e aiutarti; lo faccio; ne risulta la mia rovina. Sono costretto a prendere su di me tutto ciò che hai fatto e a risponderne. Quando tu, non essendo riuscito a prendere la laurea, devi lasciare Oxford, mi telegrafi a Londra per supplicarmi di venire da te. Lo faccio subito; mi chiedi di condurti a Goring, dato che in quelle circostanze non era opportuno per te tornare a casa; a Goring vedi una casa che ti sembra incantevole; te la prendo; ne risulta la mia rovina, da qualsiasi punto di vista. Un giorno vieni da me e mi domandi come un favore personale di scrivere qualcosa per una rivista universitaria di Oxford, che stava per essere lanciata da un tuo amico che non avevo mai sentito nominare in vita mia e di cui non sapevo nulla. Per farti piacere - che cosa non ho fatto, sempre, per farti piacere? - gli invio una pagina di paradossi destinati in origine alla Saturdav Review. Pochi mesi dopo, il carattere particolare di questa rivista mi manda sul banco degli imputati all'Old Bailey. Esso forma parte dell'accusa del Pubblico Ministero contro di me. Si richiede da me che difenda la prosa del tuo amico e i versi tuoi. Per quella non posso trovare scusanti, ma, fedele fino all'ultimo alla tua giovanile letteratura come alla tua giovane vita, difendo questa con tutta la mia forza, e nego recisamente che tu sia un autore pornografico. Ma vado in carcere lo stesso, per la rivista gogliardica del tuo amico e per "l'Amore che non osa dire il proprio nome". A Natale ti faccio "un dono graziosissimo", come lo definivi nella tua lettera di ringraziamento, cui sapevo che avevi lasciato il cuore, del valore di forse quaranta sterline, o cinquanta al massimo. Quando accade la catastrofe della mia vita e vado in rovina, l'ufficiale fiscale che confisca la mia libreria e la mette in vendita,
lo fa per pagare quel "dono graziosissimo". Per causa di quello venne messo il sequestro alla mia casa. Nel momento finale e più terribile, quando vengo schernito e spinto dai tuoi schemi a promuovere un'azione legale contro tuo padre per farlo arrestare, l'ultima paglia a cui mi aggrappo nei miei sforzi per liberarmi, è l'enormità della spesa. Dico all'avvocato in tua presenza che non ho fondi, che non posso permettermi le cifre altissime necessarie per le
spese processuali, che non ho denaro a disposizione. Dicevo la pura verità, come ben sai. Quel fatale venerdì, invece di essere nell'ufficio di Humphrey in procinto di acconsentire per debolezza alla mia rovina, avrei potuto essere felice e libero in Francia, lontano da te e da tuo padre, inconsapevole delle sue detestabili cartoline e indifferente alle tue lettere, se avessi potuto lasciare l'Avondale Hotel. Ma la direzione dell'albergo rifiutò assolutamente di
lasciarmi partire. Tu vi avevi soggiornato con me per dieci giorni; anzi alla fine, con mia grande, e, lo ammetterai, giustificata indignazione, avevi condotto a stare con me anche un tuo compagno; il mio conto per quei dieci giorni era di quasi centoquaranta sterline. Il proprietario dichiarò di non poter consentire che il mio bagaglio lasciasse l'albergo finché io non avessi pagato interamente il conto. Questo fatto mi trattenne a Londra. Se non fosse stato
per il conto dell'albergo, sarei andato a Parigi fin da giovedì mattina. Quando dissi all'avvocato di non aver denaro per affrontare quella spesa gigantesca, tu subito ti interponesti. Dicesti che la tua famiglia sarebbe stata felicissima di pagare tutte le spese processuali: che tuo padre era un incubo per tutti loro; che avevano sovente discusso la possibilità di chiuderlo in manicomio in modo da toglierlo di mezzo; che era una fonte quotidiana di noie e dispiaceri per tua madre e per tutti; che se io mi fossi fatto avanti per farlo rinchiudere sarei stato considerato dalla famiglia un difensore e un benefattore; e che gli
stessi parenti di tua madre si sarebbero addossati con vera gioia tutte le spese che si fossero potute rendere necessarie per questo scopo. L'avvocato chiuse subito lo studio e in tutta fretta fui spinto al tribunale di polizia. Non avevo più scuse per rifiutarmi. Vi fui costretto. S'intende che la tua famiglia non pagò le spese, e quando feci bancarotta fu per opera di tuo
padre, e proprio a causa di quelle spese processuali, un magro bilancio di circa settecento sterline. In questo momento mia moglie, alienata da me a causa della grave questione se mi si debbano concedere per vivere tre sterline alla settimana o tre sterline e mezza, prepara una causa di divorzio per la quale, è logico, si renderanno necessarie nuove testimonianze e tutto un nuovo processo. Io, naturalmente, non so nulla dei dettagli. Conosco soltanto il nome del testimonio sulla cui deposizione gli avvocati di mia moglie fanno affidamento. È il tuo cameriere di Oxford, che dietro tua richiesta particolare assunsi al mio servizio l'estate che passammo a Goring. Ma non occorre continuare l'elenco degli esempi della strana Nemesi che sembri aver attirato
su di me. Qualche volta mi sembra che tu sia stato semplicemente una marionetta, mossa da mani misteriose e invisibili per portare eventi terribili ad un terribile compimento. Ma anche le marionette hanno le loro passioni. Esse sono capaci di introdurre un nuovo intrigo nell'azione scenica che rappresentano, e distorcere secondo un loro capriccio o desiderio la preordinata conclusione delle vicende. Essere interamente liberi, e nel medesimo tempo interamente dominati da una legge, è l'eterno paradosso della vita umana con cui ci troviamo faccia a faccia ad ogni istante; e questa, mi dico sovente, è l'unica spiegazione possibile della tua indole, se per i profondi e terribili misteri di un'anima umana esistesse una spiegazione,
oltre a quella che rende il mistero ancora più impenetrabile. Tu, naturalmente, avevi le tue illusioni, anzi vivevi di esse, e attraverso i loro mobili vapori e
i loro veli variopinti vedevi tutte le cose sotto un aspetto falsato. Pensavi, me ne ricordo benissimo, che dedicarti a me, escludendo completamente la tua famiglia e la vita di famiglia, fosse una prova di quanto straordinariamente mi apprezzassi e mi fossi affezionato. Senza dubbio a te la cosa appariva sotto questa luce. Ma ricordati che dalla mia parte stavano il lusso, la bella vita, i piaceri illimitati, il danaro prodigato senza restrizioni. La vita di famiglia
ti annoiava. "Il vino freddo e scadente di Salisbury", per usare una frase tua, ti era sgradito. Dalla mia parte, insieme alle attrazioni dell'intelletto, stava l'abbondanza della terra d'Egitto. Quando non potevi stare con me, la compagnia con cui mi sostituivi non era certo lusinghiera. Pensavi, inoltre, che mandando a tuo padre la lettera di un legale per dirgli che eri pronto a
rinunciare alla somma di duecentocinquanta sterline (meno qualche trattenuta per i debiti di Oxford) che egli ti passava annualmente, piuttosto di troncare l'eterna amicizia con me, tu stessi attuando la più pura cavalleria dell'amicizia e raggiungendo il più nobile disinteresse. Ma la rinuncia alla tua piccola rendita non significava che tu fossi pronto a rinunciare anche a una sola delle tue raffinatezze più superflue o delle tue prodigalità più vane. Al contrario, la
tua avidità di lusso non fu mai così sfrenata. Otto giorni a Parigi con te e il tuo cameriere italiano mi costarono quasi centocinquanta sterline; ottantacinque solo da Paillard. Per il tenore di vita che pretendevi, la tua rendita di un anno sarebbe bastata a malapena tre settimane, se avessi preso i pasti da solo e avessi scelto con particolare economia i divertimenti meno cari. Senza essere altro, dunque, che un vuoto sfoggio di spavalderia, il fatto di aver rinunciato alla rendita, per scarsa che fosse, dava infine un fondamento plausibile, o almeno ciò che ti appariva un fondamento plausibile, alla tua pretesa di vivere alle mie spalle; e in molte occasioni te ne servisti e ne approfittasti senza risparmio; e questo sfruttamento continuo, di me soprattutto ma, lo so, fino a un certo punto anche di tua madre, non era mai stato così doloroso perché, almeno nel mio caso, mai così totalmente privo della minima parola di gratitudine o del minimo senso dei limiti dovuti.
Pensavi inoltre che attaccando tuo padre con lettere orribili, telegrammi ingiuriosi e cartoline insultanti, tu stessi combattendo in realtà la battaglia di tua madre, scendendo in campo come suo paladino e vendicando i torti e i dolori senza dubbio terribili della sua vita coniugale. Fu una tua illusione, anzi una delle più sbagliate. Il mezzo migliore per vendicare su tuo padre i
torti fatti a tua madre, se proprio consideravi che ciò facesse parte dei doveri di un figliolo, era quello di essere per lei un figlio migliore di quel che eri stato; di non renderle impossibile parlarti di questioni serie; di non firmare cambiali il cui pagamento sarebbe devoluto a lei; di essere più affettuoso con lei e di non portare il dolore nella sua vita. Tuo fratello Francis la compensava in parte di ciò che aveva sofferto, con la dolcezza e la bontà che ebbe per lei
negli anni troppo brevi della sua vita, breve come quella di un fiore. Avresti dovuto prenderlo a modello. Avevi torto, anche, a pensare che per tua madre sarebbe stata una grande soddisfazione e una gioia il fatto che tu fossi riuscito, per mezzo mio, a mandare in carcere tuo padre. Sono sicuro che ti sbagliavi. E se desideri sapere che cosa prova in realtà una donna quando suo marito, il padre dei suoi figli, veste la divisa del carcerato e sta chiuso in
una cella di carcere, scrivi a mia moglie e domandalo a lei. Lei saprà dirtelo.
Anch'io avevo le mie illusioni. Pensavo che la vita sarebbe stata una commedia brillante, e tu uno dei suoi molti affascinanti personaggi. Scopersi che era una tragedia repellente e ignobile e che la sinistra occasione del grande colpo di scena, sinistra nella concentrazione della sua mira e nell'intensità del suo maligno volere, eri tu, spogliato di quella maschera di gioia e di piacere da cui non meno di me eri stato ingannato e fuorviato. Puoi ora comprendere, non è vero, un poco di ciò che soffro? Un giornale, mi sembra la Pall Mall Gazette, descrivendo la prova generale di una delle mie commedie, scrisse che tu mi seguivi come un'ombra: il ricordo della nostra amicizia è l'ombra che qui dentro mi segue; che sembra non lasciarmi mai; che mi sveglia la notte per raccontarmi mille volte da capo la medesima storia; finché il suo monotono ripetersi caccia da me il sonno fino al sorgere dell'alba; all'alba riprende; mi segue nel cortile del carcere e mi fa parlare da solo mentre cammino; sono costretto a ricordare ogni particolare che accompagnò ciascuno di quegli orrendi momenti; non vi è nulla che sia accaduto in quegli anni malaugurati che io non possa riprodurre in quella camera della mente dove hanno sede il dolore e la disperazione; ogni intonazione irritata della tua
voce, ogni tremito e gesto delle tue mani nervose, ogni parola amara, ogni frase avvelenata rivivono per me; ricordo la strada o il fiume lungo i quali passavamo, le pareti o i boschi che ci circondavano, quale ora segnassero le lancette sul quadrante dell'orologio, quale direzione avessero le ali del vento, la fase e il colore della luna. Esiste, lo so, una sola risposta a tutto ciò che ti ho detto, cioè che tu mi amavi; che in quei due anni e mezzo, durante i quali i Fati stavano tessendo in una sola trama scarlatta i fili delle nostre vite divise, tu in realtà mi amavi. Sì, so che è così. Qualunque fosse la tua condotta verso di me, sentii sempre che in fondo mi amavi davvero. Sebbene vedessi molto
chiaramente che la mia posizione nel mondo dell'arte, l'interesse che la mia personalità aveva sempre suscitato, il mio denaro, il lusso in cui vivevo, le mille cose che contribuivano a formare una vita cosi incantevolmente e meravigliosamente improbabile come la mia, erano, presi insieme o separatamente, elementi del fascino che ti legava a me; tuttavia, oltre a tutto
questo vi era qualcosa in più, qualcosa che aveva per te una strana attrazione: mi amavi molto più di quanto tu amassi chiunque altro. Ma, come me, tu hai avuto nella tua vita una tragica predisposizione, sebbene diametralmente opposta alla mia. Vuoi sapere quale? Questa: in te
l'Odio è sempre stato più forte dell'Amore. L'odio per tuo padre era in te di tale intensità da superare, vincere e mettere del tutto in ombra l'amore per me. Non ci fu lotta alcuna fra questi due sentimenti, o ben poca; tanto grande era il tuo Odio, e di tale mostruosa proliferazione. Non ti rendevi conto che non vi è posto nella medesima anima per entrambe queste passioni. Esse non possono vivere insieme in quella bella casa adorna. L'Amore si nutre di
immaginazione, per mezzo della quale diventiamo più saggi di quanto sappiamo, migliori di quel che sentiamo, più nobili di ciò che siamo; per mezzo della quale vediamo la vita come un tutto unico; per mezzo della quale soltanto possiamo comprendere gli altri nei rapporti reali non meno che in quelli ideali. Soltanto ciò che è nobile, e nobilmente concepito, può servire di nutrimento all'Amore. Ma qualsiasi cosa serve di nutrimento all'Odio. Ogni coppa di champagne che bevesti, ogni lauta vivanda di cui ti cibasti in tutti quegli anni, servì di nutrimento al tuo Odio e lo ingrassò. Così, per soddisfarlo, giocasti con la mia vita come giocavi col mio denaro, con noncuranza, con avventatezza, indifferente alle conseguenze. Se avessi perso, il danno, ti pareva, non sarebbe stato tuo. Se avessi vinto sarebbero stati tuoi, lo sapevi, l'esultanza e i vantaggi della vittoria. L'Odio acceca. Di questo non ti rendevi conto. L'Amore sa leggere ciò che è scritto sulla stella più lontana, ma l'Odio ti accecava al punto di non lasciarti vedere più in là dell'angusto giardino, chiuso da mura e già avvizzito della lussuria, dei tuoi volgari desideri. La terribile mancanza di immaginazione che è l'unico difetto veramente funesto del tuo carattere, era interamente dovuta all'Odio che viveva in te. Sottilmente, silenziosamente, in segreto, l'Odio rodeva la tua indole, come il lichene morde la radice di una pianta di salice, finché giungesti
al punto di non vedere più nulla all'infuori degli interessi più meschini e degli scopi più bassi. Quella facoltà che l'Amore avrebbe coltivato in te, l'Odio la avvelenò e la paralizzò. Quando tuo padre sferrò contro di me il primo dei suoi attacchi, fu come tuo amico personale, in una lettera personale indirizzata a te. Appena ebbi letta la lettera, con le sue minacce oscene e la sua rozza intemperanza, compresi immediatamente che un terribile pericolo sorgeva
sull'orizzonte dei miei giorni inquieti; ti dissi che non volevo fare le spese del vostro antico odio reciproco; che io a Londra ero naturalmente per lui una preda molto più grossa che non un Segretario di Stato a Homburg; che sarebbe stato ingiusto mettermi anche solo momentaneamente in una simile posizione; e che nella vita avevo da dedicarmi a qualche cosa di meglio che non a far scenate a un beone déclassé e mezzo idiota come lui. Tu non arrivavi a capirlo. L'Odio ti accecava. Insistevi nel dire che la lite in realtà non mi riguardava affatto; che non avresti permesso a tuo padre di dettar legge sulle tue amicizie personali; che da parte mia sarebbe stato ingiusto intervenire. Avevi, già prima di consultarmi al riguardo, risposto a tuo padre con un telegramma sciocco e volgare. Ciò, naturalmente, ti impegnò a
farvi seguito con una linea d'azione altrettanto sciocca e volgare. Gli errori fatali della vita non sono dovuti al fatto che l'uomo sia un essere irragionevole: un momento di irragionevolezza può essere il nostro momento più alto. Sono dovuti al fatto che l'uomo è un essere logico. C'è molta differenza. Quel telegramma condizionò tutto il seguito dei rapporti
con tuo padre, e di conseguenza la mia vita intera. E la cosa grottesca è che di quel telegramma il più volgare monello di strada si sarebbe vergognato. Da telegrammi impertinenti a pedanti lettere avvocatizie la transizione fu naturale, e il risultato delle lettere avvocatizie a tuo padre fu, naturalmente, di spingerlo ad andare ancora più in là. Non gli lasciavi altra scelta che di andare avanti, gliela imponevi forzatamente come un punto d'onore, o piuttosto di disonore, perché la tua richiesta facesse più effetto. Così, quando egli mi attacca un'altra volta, non lo fa più in una lettera personale, e come tuo amico personale, ma in pubblico e nella mia qualità di personaggio pubblico. Sono costretto a cacciarlo da casa mia. Egli va da ristorante in ristorante in cerca di me, per insultarmi davanti al mondo intero e in maniera tale che io venga rovinato se ricambio l'insulto, e se non lo ricambio venga
rovinato ugualmente. Quello era il momento in cui avresti dovuto farti avanti e dire che piuttosto che espormi per causa tua a questi disgustosi attacchi, a questa persecuzione infame, eri pronto a rinunciare immediatamente a qualsiasi diritto tu potessi accampare sulla mia amicizia. Adesso, suppongo, te ne rendi conto. Ma allora non ti passò neppure per la mente. L'Odio ti accecava. Tutto ciò che fosti capace di inventare (oltre a mandare a tuo padre lettere e telegrammi pieni d'insulti) fu di comperare una ridicola pistola che esplose un colpo nel Berkeley, in circostanze che crearono uno scandalo più grave di quanto tu abbia mai saputo. In realtà, l'idea di essere l'oggetto di una lite terribile fra tuo padre e un uomo della mia posizione, ti divertiva. La tua vanità - e questo, suppongo, era solo naturale - ne era soddisfatta; la tua presunzione, lusingata. Che tuo padre potesse tenersi il tuo corpo, che non
mi interessava, lasciandomi l'anima, che non interessava a lui, sarebbe stata per te una soluzione deludente. Fiutasti da lontano la possibilità di uno scandalo, e ti ci buttasti a volo. La prospettiva di una battaglia in cui tu saresti rimasto al sicuro ti riempiva di gioia. Non ricordo di averti visto di miglior umore di quel che fosti per il rimanente della stagione. La tua unica delusione sembrava dipendere dal fatto che in realtà non accadesse nulla e tra noi due non avesse avuto luogo altro litigio o scontro. Ti consolasti inviando a tuo padre telegrammi di tale tenore, che infine il disgraziato ti scrisse dicendo di aver dato ordine alla servitù che nessun telegramma gli venisse più recapitato, per nessun motivo. Questo non ti scoraggiò. Vedesti le immense possibilità offerte dalle cartoline aperte e le sfruttasti fino in
fondo. Aizzasti tuo padre ancor più alla caccia. Non è che supponga che altrimenti se ne sarebbe mai ritirato: l'istinto di famiglia era molto forte in lui, il suo odio per te era altrettanto tenace quanto il tuo odio per lui, e io ero per entrambi il pretesto e una forma di attacco, oltre che una forma di riparo. La sua stessa passione per la notorietà non era puramente individuale, ma propria di tutta la vostra stirpe. Tuttavia, se il suo interesse si fosse mai
illanguidito un momento, le tue lettere e cartoline lo avrebbero presto ravvivato e riportato all'antico calore. Proprio questo esse fecero. E naturalmente egli andò ancora oltre. Avendomi attaccato in privato come persona privata, poi in pubblico come personaggio pubblico, egli alla fine decide di sferrare il suo ultimo e più potente attacco contro di me come artista, e nel luogo stesso dove la mia arte viene rappresentata. Si procura con l'inganno un posto per la prima di uno dei miei lavori e organizza un piano per interrompere la rappresentazione, per parlare di me al pubblico in termini immondi, per insultare i miei attori, gettarmi addosso proiettili offensivi e indecenti quando verrò chiamato al proscenio, insomma per portarmi alla
rovina totale in un'orrenda maniera per mezzo del mio lavoro. Per puro caso, nella breve sincerità accidentale di un accesso di ubriachezza peggiore del solito, si vanta davanti ad altri delle sue intenzioni. La polizia viene informata e gli viene impedito di entrare in teatro. Avesti allora la tua buona occasione, quello sarebbe stato il tuo momento. Non ti rendi conto adesso che avresti dovuto coglierlo al balzo, farti avanti e dichiarare che la mia arte, quella almeno, non doveva essere danneggiata per colpa tua? Sapevi che cosa fosse per me la mia arte, come fosse la grande nota fondamentale per mezzo della quale avevo rivelato, me stesso prima a me stesso, poi al mondo; la vera passione della mia vita; l'amore al cui confronto tutti gli altri amori erano come acqua di palude paragonata a vino rosso, o il fuoco fatuo della palude al magico specchio della luna. Non comprendi, adesso, che la mancanza di
immaginazione è stata il vero e funesto difetto del tuo carattere? Ciò che dovevi fare era molto semplice e molto evidente, ma l'Odio ti aveva accecato, e non vedevi nulla. Io non potevo fare le mie scuse a tuo padre per avermi insultato e perseguitato nella maniera più odiosa per quasi nove mesi. Non potevo liberarmi di te e farti uscire dalla mia vita. L'avevo tentato ripetutamente, ero arrivato al punto di lasciare l'Inghilterra e andare all'estero nella speranza di fuggire da te. Non era servito a nulla. Tu eri l'unica persona che potesse fare qualcosa. La chiave della situazione era in mano tua soltanto. Era l'unica grande occasione che ti si offriva di ricompensarmi in piccola parte di tutto l'amore e l'affetto, la bontà e la generosità e la sollecitudine che avevo avuto per te. Se mi avessi apprezzato anche solo a un
decimo del mio valore come artista, lo avresti fatto. La facoltà "per mezzo della quale soltanto possiamo comprendere gli altri nei rapporti reali non meno che in quelli ideali", era morta in te. Pensavi soltanto a mandare tuo padre in carcere. Vederlo "sul banco degli imputati", come dicevi: questa era la tua idea fissa. La frase divenne una delle molte scies dei tuoi discorsi d'ogni giorno. L'ascoltavo ad ogni pasto. Ebbene, il tuo desiderio fu accontentato. L'Odio ti concesse tutto ciò che avevi desiderato. Fu per te un padrone indulgente. Lo è sempre, infatti, per coloro che lo servono. Per due giorni sedesti in alto con gli Sceriffi e godesti lo spettacolo di tuo padre nel banco degli imputati della corte criminale centrale. Al terzo giorno io presi il suo posto. Che cosa era accaduto? Nella vostra orrenda partita d'odio, entrambi avevate giocato a dadi la mia vita, e a te capitò di perdere. Ecco tutto. Vedi dunque che io devo scriverti la tua vita, e tu devi cercare di comprenderla. Ci conosciamo ormai da più di quattro anni. Metà di questo tempo siamo stati insieme, l'altra metà ho dovuto trascorrerla in prigione, in conseguenza della nostra amicizia. Non so dove riceverai questa lettera, se pure essa ti giungerà mai. Roma, Napoli, Parigi, Venezia; una bella città marina o fluviale senza dubbio ti trattiene. Sei circondato, se non dal lusso superfluo che avevi con me, almeno da tutto ciò che è gradito all'occhio, all'orecchio e al palato. La vita è molto bella per te. Eppure, se vuoi esser saggio e trovare la Vita di gran lunga più bella ancora, e bella in maniera differente, devi far si che l'aver letto questa lettera terribile - perché so che è tale - rappresenti una crisi e una svolta della tua vita, non meno decisiva di quanto sia per me lo scriverla. Il tuo volto pallido soleva arrossire facilmente, per il vino o per il piacere. Se, mentre leggi ciò che è scritto qui, esso, di quando in quando, arderà di vergogna come alla vampa di una fornace, sarà tanto meglio per te. Il vizio supremo è la superficialità. Tutto ciò che è compreso fino in fondo, è giusto. Sono arrivato fino alla casa di correzione, non è così? Dopo una notte passata in cella, vengo portato là nel furgone della polizia. Tu fosti molto assiduo e gentile. Quasi ogni pomeriggio,
se non addirittura ogni pomeriggio fino alla tua partenza per l'estero, ti prendesti la pena di venire a Holloway in carrozza per vedermi. Inoltre mi scrivesti delle carissime lettere. Però neppure per un istante ti balenò il pensiero che non fosse stato tuo padre a mettermi in prigione, ma tu stesso; che dal principio alla fine fossi tu il responsabile; che io fossi li per te,
per mezzo di te e per causa tua. Nemmeno il vedermi dietro le sbarre di una gabbia di legno poteva vivificare quella morta indole priva di immaginazione. Provavi la compassione sentimentale dello spettatore di un dramma un po' patetico. Non ti venne in mente di essere il vero autore di questa tragedia orrenda. Vedevo che non comprendevi nulla di ciò che avevi fatto. Non volli essere io a dirti ciò che avrebbe dovuto dirti il tuo cuore, ciò che infatti esso ti
avrebbe detto se tu non avessi lasciato che l'Odio lo indurisse e lo rendesse insensibile. Tutto deve giungere a noi dal profondo della nostra natura. Non serve a nulla dire ad una persona ciò che essa non sente e non può capire. Se ti scrivo adesso come faccio, è perché il tuo silenzio e la tua condotta durante là mia lunga prigionia l'hanno reso necessario. Inoltre, così come erano andate le cose, il colpo era caduto su me soltanto, e questo per me era un motivo di soddisfazione. Per molte ragioni ero rassegnato a soffrire, sebbene vi fosse sempre ai miei occhi, mentre ti osservavo, un che di spregevole nella tua completa e ostinata cecità. Ricordo che mi esibisti con vero e proprio orgoglio una lettera che avevi pubblicato a mio proposito su uno di quei giornali in vendita a mezzo penny. Era un testo molto prudente e moderato, per non dire assai banale. Ti appellavi al "senso inglese del fair play" o a qualche tediosa virtù di quel genere, in difesa di "un uomo caduto in basso". Era il genere di lettera che avresti potuto scrivere se fosse stata portata un'accusa infamante contro qualche persona rispettabile che tu conoscessi soltanto di fama. Ma a te sembrava una lettera ammirevole: la consideravi una manifestazione di cavalleria quasi donchisciottesca. Mi rendo conto che avevi mandato ad altri giornali altre lettere, che non furono pubblicate. Ma esse dicevano soltanto che tu odiavi tuo padre. A nessuno importava che lo odiassi o no. L'Odio, hai ancora da impararlo, è, dal punto di vista intellettuale, la Negazione Eterna. Dal punto di vista delle emozioni è una forma di Atrofia e uccide tutto fuorché se stesso. Scrivere ai giornali di odiare qualcuno è come scrivere di avere una malattia segreta e vergognosa: il fatto che l'uomo che odiavi fosse tuo padre e che i tuoi sentimenti fossero ricambiati in pieno, non rendeva affatto nobile e bello il tuo Odio; dimostrava, se mai, che si trattava di una malattia ereditaria. Ricordo ancora che, quando la casa mi venne messa sotto sequestro e libri e mobili furono confiscati e messi in vendita, e la bancarotta incombeva, io, naturalmente, ti scrissi per informartene. Non specificai come fosse, appunto per pagare alcuni regali che ti avevo fatto, che gli uscieri erano entrati nella casa dove avevi pranzato tanto spesso. Pensavo, a ragione o
a torto, che queste notizie ti avrebbero forse un poco addolorato. Ti dissi soltanto i fatti nudi e crudi: mi pareva giusto che tu ne venissi a conoscenza. Rispondesti da Boulogne con una lettera, di un tono di esultanza quasi lirica. Scrivevi che tuo padre era "a corto di denaro" e che era costretto a racimolare millecinquecento sterline per le spese del processo; che la mia bancarotta era in realtà "un punto importantissimo" a suo sfavore, dato che in questo modo
non avrebbe avuto la possibilità di rifarsi su di me per le spese processuali! Ti rendi conto adesso di quel che sia l'accecamento dell'Odio? Riconosci che quando l'ho descritto come un'Atrofia distruggitrice di ogni cosa, fuorché di se stessa, ho dato la definizione scientifica di un reale fenomeno psicologico? Che tutte le mie cose più belle fossero messe in vendita: i disegni di Burne-Jones; i disegni di Whistler; il mio Monticelli; il mio Simeon Solomons; le
porcellane; la biblioteca, con la raccolta di volumi dedicati a me da quasi tutti i poeti miei contemporanei, da Hugo a Whitman, da Swinburne a Mallarmé, da Morris a Verlaine; con le edizioni magnificamente rilegate delle opere di mio padre e di mia madre; il meraviglioso schieramento di premi universitari e scolastici; le sue éditions de luxe, e simili; per te questo non significava assolutamente nulla. Dicesti che era una grande seccatura: ecco tutto. In
realtà, scorgevi in questo unicamente la possibilità che tuo padre in definitiva venisse a perdere qualche centinaio di sterline, e quella meschina considerazione ti colmava di una gioia estatica. In quanto alle spese del processo, potrà interessarti sapere che tuo padre ha dichiarato apertamente all'Orleans Club che se gli fosse costato ventimila sterline l'avrebbe
ugualmente considerato denaro ben speso, tanta era la soddisfazione, il divertimento e il trionfo che ne aveva ricavato. Il fatto di essere riuscito non solo a mettermi in prigione per due anni, ma a tirarmene fuori per un pomeriggio e farmi fare pubblicamente bancarotta, aggiungeva al suo piacere un tocco finale che non aveva previsto. Era l'acme della mia umiliazione e della sua vittoria completa e perfetta. Se tuo padre non avesse avuto diritto di rifarsi su di me delle spese processuali, tu, lo so benissimo, saresti stato, per lo meno a parole, dispiaciutissimo della dispersione totale della mia biblioteca, perdita, questa, irreparabile per un uomo di lettere, la più dolorosa per me di tutte le perdite materiali. Ricordando le somme che avevo prodigato per te, e ricordando di essere vissuto per anni a mie spese, avresti almeno potuto prenderti la pena di riscattare una parte dei miei libri. I più belli furono
venduti per meno di centocinquanta sterline: circa la somma che spendevo per te in una settimana qualsiasi. Ma il basso e meschino piacere di pensare che tuo padre ci rimettesse pochi spiccioli ti impedì di darmi questa piccola consolazione. cosi lieve, cosi facile, così poco costosa, così ovvia, e così infinitamente gradita a me, se l'avessi ricevuta per opera tua. Non ho ragione di dire che l'Odio acceca? Lo vedi, adesso? Sforzati di vederlo, se ancora non
vi riesci. Non occorre adesso dire con quanta chiarezza lo vedessi io,allora come adesso. Ma dicevo a me stesso: "Ad ogni costo bisogna che l'Amore rimanga nel mio cuore. Se vado in prigione senza amore, che cosa accadrà della mia Anima?" Le lettere che ti scrissi in quel tempo da Holloway furono tentativi di mantenere l'Amore come nota dominante della mia natura. Se
l'avessi voluto, avrei potuto farti a pezzi con la forza dei miei amari rimproveri. Avrei potuto squarciarti con le mie maledizioni. Avrei potuto presentarti uno specchio e mostrarti una così orrenda immagine di te, che non l'avresti riconosciuta tua finché non l'avessi sorpresa a ripetere i tuoi gesti d'orrore, e allora avresti saputo di chi fosse e avresti odiata quella e te
stesso, per sempre. Io pagavo il fio dei peccati di un altro. Se l'avessi voluto, avrei potuto salvarmi a sue spese in entrambi i processi, non soltanto dall'infamia ma dal carcere. Se mi fosse piaciuto di rivelare che i testimoni di parte civile, i tre più importanti, erano stati accuratamente istruiti da tuo padre e dai suoi avvocati, non soltanto sul terreno delle reticenze, ma su quello delle asserzioni, istruiti nel riversare su di me, in maniera premeditata
e concertata, la condotta e le azioni di un altro, avrei ottenuto che il giudice li cacciasse dal banco dei testimoni più bruscamente ancora di quanto aveva fatto con quel disgraziato spergiuro di Atkins. Avrei potuto uscire dal tribunale fischiettando con le mani in tasca, libero come l'aria. Fui invitato a farlo con forti pressioni. Fui seriamente consigliato, pregato, supplicato di farlo da persone il cui solo interesse era il mio bene e il bene della mia famiglia.
Mi rifiutai. Non volli farlo. Mai per un momento ho rimpianto la mia decisione, neppure nei periodi più amari della mia permanenza in carcere. Una simile linea d'azione sarebbe stata indegna di me. I peccati della carne non sono nulla: sono malattie che tocca ai medici curare, se proprio debbono essere curati. Soltanto i peccati dell'anima sono vergognosi. Aver ottenuto la mia assoluzione con simili mezzi sarebbe stato per me il tormento di tutta la vita. Ma pensi davvero di esser stato degno dell'amore che ti dimostrai in quella circostanza, o pensi che io ti credessi tale? Pensi davvero d'esser stato degno dell'amore che ti mostravo, in qualsiasi altro periodo della nostra amicizia, o pensi che per un attimo solo io ti abbia ritenuto tale? Sapevo che non lo eri. Ma l'Amore non fa baratti da mercato, né usa la bilancia del merciaiolo. La sua
gioia, come la gioia dell'intelletto, è di sentirsi vivo. Il fine dell'Amore è amare; niente di più e niente di meno. Tu eri il nemico; nemico peggiore nessuno l'ha avuto mai. Ti avevo dato la mia vita, e tu per soddisfare la più bassa e spregevole di tutte le passioni umane, Odio e Vanità e Cupidigia, l'avevi gettata via. In meno di tre anni mi avevi completamente rovinato
sotto ogni punto di vista. Per il mio bene proprio non potevo far altro che amarti. Sapevo che se mi fossi lasciato andare a odiarti, nell'arido deserto dell'esistenza che ero costretto a traversare e che sto traversando tuttora, ogni roccia sarebbe rimasta priva d'ombra, ogni palma sarebbe seccata, ogni pozzo si sarebbe avvelenato alla sorgente. Incominci a capire un poco, adesso? La tua immaginazione incomincia a ridestarsi dal suo lungo letargo? Che cosa sia l'Odio lo sai già. Incomincia a balenarti che cosa sia l'Amore, e quale sia la natura dell'Amore? Non è troppo tardi perché tu lo impari, anche se per insegnartelo io ho dovuto entrare in una cella di prigione. Dopo la mia terribile condanna, quando ebbi indossato la divisa da carcerato e le mura della prigione mi si chiusero intorno, rimasi affranto tra le rovine della mia vita mirabile, schiacciato dall'angoscia, confuso di terrore, stordito di dolore. Ma non volli odiarti. Ogni giorno mi dicevo: "Bisogna che oggi l'Amore rimanga nel mio cuore: come farò altrimenti a vivere fino a stasera?" Mi dicevo che non avevi avuto intenzioni cattive, almeno nei miei riguardi; che avevi tirato l'arco a caso, e la freccia aveva trapassato un Re penetrando fra le giunture della corazza.' Pesarti sulla bilancia contro il più piccolo dei miei dolori, la più
meschina delle mie perdite, sarebbe stato ingiusto, lo sentivo. Decisi di considerare anche te come una vittima. Mi costrinsi a credere che finalmente la benda fosse caduta dai tuoi occhi tanto a lungo accecati. Solevo immaginare, soffrendone, l'orrore che dovevi aver provato alla vista della tua opera spaventosa. Perfino in quei giorni neri, i più neri di tutta la mia vita, vi
furono momenti in cui addirittura desiderai consolarti. Tanto certo ero che tu avessi compreso finalmente ciò che avevi fatto. Non mi venne in mente, allora, che tu potessi avere il vizio supremo della superficialità. Infatti fu un vero dolore per me doverti far sapere di essere obbligato a riservare a faccende di famiglia la mia prima occasione di ricevere una lettera; ma mio cognato mi aveva scritto per comunicarmi che mia moglie, se le avessi scritto anche una volta sola, per il mio bene e quello dei nostri figli avrebbe rinunciato a chiedere divorzio. A parte ogni altra considerazione, non potevo sopportare l'idea di venir separato da Cyril, quel mio bambino così bello, affettuoso e amabile, il mio amico migliore, il compagno superiore a tutti gli altri compagni, un solo capello del cui capino d'oro avrebbe dovuto essermi più caro e prezioso, non dirò soltanto di tutto te stesso da capo a piedi, ma dell'intero crisolito del mondo; e in realtà lo fu sempre, sebbene io l'abbia compreso troppo tardi. Due settimane dopo il tuo ricorso, ho notizie di te. Robert Sherard, la persona più coraggiosa, cavalleresca e brillante che vi sia al mondo, viene a trovarmi, e tra l'altro mi dice che tu stai per pubblicare un articolo su di me, con qualche esemplare delle mie lettere, su quel ridicolo
Mercure de France, che posa assurdamente a centro della corruzione letteraria. Egli mi domanda se ciò avvenga davvero per mio desiderio. Rimasi assai perplesso e molto seccato e diedi ordine che la pubblicazione fosse immediatamente vietata. Avevi lasciato in giro le mie lettere, esposte ad essere carpite dai tuoi amici ricattatori, rubate dalla servitù degli alberghi,
vendute dalle cameriere. Ciò non faceva che dimostrare la tua indifferenza per quanto ti avevo scritto. Ma che tu potessi sul serio proporti di pubblicare una scelta del rimanente, era per me quasi incredibile. E di quali delle mie lettere si trattava, poi? Non riuscii a saperlo. Questa fu la prima notizia che ebbi di te. Ne fui dispiaciuto La seconda seguì poco dopo. Gli avvocati di tuo padre erano comparsi nella prigione e mi avevano presentato una dichiarazione di bancarotta per la misera somma di settecento sterline, l'ammontare delle spese tassate. Fui giudicato debitore pubblico e ricevetti l'ordini di comparire in tribunale. Avevo la ferma convinzione e tuttora l'ho, e tornerò ancora su questo argomento che tali spese processuali avrebbero dovuto esser pagate dai tuoi. Ti eri preso personalmente la responsabilità di dichiarare che la tua famiglia l'avrebbe fatto. Appunto questo aveva persuaso l'avvocato ad assumersi la causa, come fece: tu ne fosti il responsabile assoluto. Anche a prescindere dal tuo impegno per conto dei tuoi, avresti dovuto almeno sentire che, dopo avermi rovinato così completamente, il meno che si potesse fare era di risparmiarmi la vergogna supplementare della bancarotta per una somma infima, meno di metà di ciò che avevo speso per te in tre brevi mesi d'estate, a Goring. Ma basta di ciò, per ora. E vero, e lo ammetto, che dal giovane di studio del tuo avvocato ricevetti un tuo messaggio a questo proposito, o almeno in questa occasione. Il giorno che egli venne a ricevere le mie deposizioni e dichiarazioni, si sporse attraverso il tavolo - il secondino era
presente - e dopo aver consultato un pezzetto di carta che aveva tratto di tasca mi disse a bassa voce: "Il principe Fiordaliso vi manda a salutare". Lo guardai senza capire. Egli ripeté la frase Non sapevo che cosa significasse. "Quel signore adesso è all'estero" egli aggiunse in tono di mistero. In un lampo vidi ogni cosa, e rammento che risi, per la prima e ultima volta
della mia prigionia. In quel riso era tutto il disprezzo del mondo. Il principe Fiordaliso! Vidi - e gli eventi futuri dovevano dimostrare che avevo visto giusto - che niente di ciò che era accaduto era riuscito a farti comprendere la benché minima cosa. Ai tuoi stessi occhi tu eri ancora il bel principe di una futile commedia, non il tetro personaggio di una tragedia. Tutto ciò che era accaduto non era per te nulla di più di una piuma sul berretto che copre una testa leggera, un fiore all'occhiello della giubba che copre un cuore caldo per l'Odio, e per l'Odio soltanto, gelido per l'Amore, e per l'Amore soltanto. Principe Fiordaliso! Facevi benissimo, non ne dubito, a comunicare con me sotto falso nome. Io stesso a quel tempo non avevo affatto un nome. Nella vasta prigione dove ero incarcerato, ero soltanto la cifra e la lettera di
una piccola cella di un lungo corridoio, ero uno dei mille numeri inanimati, di mille vite senza vita. Ma esistono, mi sembra, molti nomi della storia che ti si sarebbero adattati molto meglio, e sotto ai quali non avrei avuto difficoltà alcuna a riconoscerti subito. Non mi aspettavo di trovarti dietro i lustrini di una maschera di cartapesta argentata, adatta soltanto a una festa in domino. Ah, se la tua anima fosse stata, come avrebbe dovuto essere, anche
soltanto per la propria perfezione, ferita dal dolore, oppressa dal rimorso, umiliata dalla pena, non sarebbe stato questo il travestimento che avrebbe scelto per penetrare non vista nella Casa del Dolore! I grandi casi della vita sono ciò che appaiono; per questa ragione, potrà sembrarti strano, sono sovente di difficile interpretazione. Ma i piccoli casi della vita sono simboli, e per mezzo loro apprendiamo più facilmente le nostre amare lezioni. La tua scelta, apparentemente casuale, di un nome fittizio, era, e rimarrà simbolica. Essa ti rivela. Sei settimane più tardi mi arriva una terza notizia. Mi si fa uscire dall'infermeria, dove giaccio gravemente ammalato, per ricevere dal direttore del carcere un messaggio particolare da parte tua. Egli mi legge infatti una lettera indirizzatagli da te, in cui ti dichiari intenzionato a pubblicare un articolo "sul caso di Mr. Oscar Wilde" sul Mercure de France ("una rivista" aggiungevi, chissà per quale strana ragione "che corrisponde al nostro Fortnightly Review") e ansioso di ottenere il mio permesso di pubblicare una scelta di brani: da quali lettere? quelle che ti avevo scritto dal carcere di Holloway! quelle lettere che avrebbero dovuto essere per te cimeli sacri e segreti più di ogni altra cosa al mondo! Proprio queste erano le lettere che ti proponevi di pubblicare per lo scandalo di qualche stanco décadent, per l'avida curiosità del feuilletoniste e i commenti sciocchi e salaci dei piccoli dandies del Quartier Latin. Se nel tuo cuore stesso non si levò una voce di protesta contro un sacrilegio così volgare, avresti almeno dovuto ricordare il sonetto che scrisse chi vide con tanto dolore e disprezzo le lettere di John
Keats messe in vendita a Londra a mezzo di un'asta pubblica, e comprendere finalmente il vero significato dei miei versi: Non credo che ami l'Arte
chi spezza il cristallo di un cuore di poeta perché occhi miopi e meschini lo scrutino cupidi e torvi. Del resto, che cosa doveva dimostrare il tuo articolo? Che ti avevo voluto troppo bene? I gamins parigini ne erano già perfettamente al corrente: leggono tutti il giornale, e quasi tutti fanno del giornalismo. Che sono un uomo di genio? I francesi l'avevano già capito, e comprendevano la qualità particolare del mio genio molto meglio di te, o di quel che ci si potesse aspettare da te. Che il genio è accompagnato sovente da una strana perversione di passioni e desideri? Ammirevole acume; ma l'argomento rientra nelle competenze di Lombroso molto più che nelle tue. Inoltre, il fenomeno patologico in questione si trova pure tra individui privi di genio. Che nella tua guerra d'odio con tuo padre io ero insieme scudo e arma d'offesa per ciascuno di voi? Verissimo; ma mi informano che già Henry Bauer l'ha detto, e molto bene. E poi, per corroborare le sue opinioni, se la tua intenzione fosse stata
questa, non occorreva che tu pubblicassi le mie lettere; almeno, non quelle scritte dal carcere di Holloway. Dirai forse in risposta a queste domande, che in una mia lettera da Holloway io stesso ti avevo chiesto di tentare, per quanto ti era possibile, di riabilitarmi in qualche modo agli occhi di una piccola parte del mondo? è vero, l'avevo chiesto. Ricorda come e perché sono qui, in
questo stesso momento. Credi che sia qui a causa dei miei rapporti con i testimoni del processo? I miei rapporti, veri o supposti, con gente di quel genere, non offrivano motivi di interesse né al governo né alla società, che non ne sapevano nulla, e ancor meno se ne curavano. Sono qui per aver tentato di mandare in prigione tuo padre. Naturalmente il tentativo falli; i miei avvocati stessi rinunciarono all'incarico. Tuo padre rovesciò completamente la situazione a mio sfavore e mandò me in prigione, dove mi tiene ancora. Per questo mi si disprezza. Proprio per questo la gente mi spregia. Per questo debbo scontare la mia pena orrenda fino all'ultimo giorno, l'ultima ora, l'ultimo minuto; per questo i miei ricorsi sono stati respinti.
Tu eri l'unica persona che potesse, senza esporsi minimamente al disprezzo, al biasimo o al pericolo, dare un altro aspetto a tutta la faccenda, porla in una luce diversa e mostrare con un certo grado di approssimazione come le cose stessero in realtà. Naturalmente non mi sarei aspettato, né del resto avrei desiderato, che tu dichiarassi come e con quale scopo avessi cercato il mio aiuto nei tuoi guai di Oxford; o come, e con quale scopo, se uno scopo avevi
avuto, avevi vissuto con me praticamente senza mai lasciarmi per quasi tre anni. Non vi sarebbe stato bisogno di elencare con l'esattezza con cui sono stati descritti qui, i miei tentativi incessanti di troncare un'amicizia così rovinosa per me come artista, come uomo di posizione elevata, come membro della società. E nemmeno avrei preteso da te che descrivessi le scenate che eri solito farmi con periodicità quasi monotona, né che ristampassi la serie
stupefacente dei tuoi telegrammi con la loro strana mescolanza di sentimento e di interesse; né che citassi dalle tue lettere i passi più disgustosi e spietati, come sono stato costretto a fare. Pure, pensavo che sarebbe stato bene, sia per te che per me, se tu avessi elevato una protesta contro la versione che tuo padre aveva dato della nostra amicizia, una versione non meno grottesca che velenosa, e tanto assurda nei tuoi riguardi quanto disonorante nei miei. Quella versione è adesso passata di fatto alla storia; è ripetuta, creduta degna di fede, e messa per iscritto; il predicatore la prende per argomento del suo sermone e il moralista per suo arido tema; e io che parlavo per le età future ho dovuto accettare il mio verdetto da uno che è una scimmia e un buffone. Ho detto in questa lettera, e con molta amarezza, lo ammetto, che per l'ironia delle cose umane tuo padre avrebbe vissuto tanto da diventare l'eroe di una storiella edificante per il bollettino parrocchiale, che tu verresti messo alla pari con il fanciullo Samuele; e che il mio posto sarebbe stato tra Gilles de Retz e il marchese de Sade. Forse è meglio così. Non voglio lamentarmi. Una delle molte lezioni che si imparano in prigione è che le cose sono ciò che sono e saranno ciò che saranno. E non ho alcun dubbio che il
lebbroso medievale e l'autore di lustine si dimostreranno una compagnia più piacevole di Sandford e Merton.' Ma quando ti scrissi, io sentivo che, per il bene di entrambi sarebbe stata una cosa buona, una cosa ben fatta, una cosa giusta non accettare la versione dei fatti che tuo padre aveva avanzato per mezzo dei suoi avvocati, per l'edificazione di un mondo di imbecilli, ed ecco
perché ti chiesi di ideare e scrivere qualcosa di più vicino al vero. Se non altro sarebbe stato meglio di quei pettegolezzi sulla vita coniugale dei tuoi genitori che hai scribacchiato per i giornali francesi. Che cosa importava ai francesi che i tuoi genitori avessero avuto o no una felice vita coniugale? Non si può concepire un argomento che li lasci più freddi. Ciò che li interessava era di sapere come un artista della mia levatura, uno che, per mezzo della scuola
e del movimento di cui era l'incarnazione, ha esercitato un forte influsso sul corso del pensiero francese, potesse, avendo condotto una tale vita, aver promosso una simile azione legale. Se tu avessi proposto di pubblicare nel tuo articolo le lettere, temo innumerevoli, in cui ti parlavo della rovina a cui mi portavi, degli accessi d'ira folle da cui ti lasciavi dominare, a tuo danno come a danno mio, e del mio desiderio, anzi della mia decisione, di porre fine a
una amicizia così disastrosa per me da ogni punto di vista, io avrei potuto capirlo, per quanto non avrei ugualmente permesso che queste lettere venissero pubblicate; quando l'avvocato difensore di tuo padre, volendo cogliermi in contraddizione, improvvisamente mostrò in tribunale una mia lettera, scritta nel marzo del '93, in cui ti dicevo che piuttosto di sopportare
un rinnovarsi delle orrende scenate in cui tu sembravi trovare un gusto così terribile avrei acconsentito volentieri ad essere ricattato "da ogni pigionante di Londra", fu un dolore per me che questo aspetto della nostra amicizia venisse incidentalmente rivelato agli sguardi profani; ma che tu sia stato così cieco, così privo d'ogni sensibilità e così chiuso alla percezione di ciò
che è raro, delicato e bello, da proporre tu stesso di pubblicare le lettere nelle quali, .e per mezzo delle quali, io stavo tentando di tenere in vita lo spirito e l'anima dell'Amore perché vivesse nel mio corpo per tutti i lunghi anni della sua umiliazione: questo fu, ed è ancora per me, causa del più profondo dolore e della delusione più acuta. Perché tu l'abbia fatto, temo di saperlo anche troppo bene. Se l'Odio accecava i tuoi occhi, la Vanità cuciva insieme le tue
palpebre con una gugliata di ferro. Il tuo meschino egocentrismo aveva smussato la facoltà "per mezzo della quale soltanto possiamo comprendere gli altri nei loro rapporti reali non meno che in quelli ideali", e il lungo disuso l'aveva resa impotente. L'Immaginazione, come me, era in carcere. La Vanità aveva sbarrato le finestre, e il nome del secondino era Odio. Tutto questo accadeva nella prima metà di novembre di due anni fa. Un grande fiume di vita ti divide da questa data lontana. Riesci appena a vedere, o non vedi affatto, al di là di una fiumana così vasta. Ma a me questi fatti sembrano accaduti, non dico ieri, ma oggi. La sofferenza è un solo lunghissimo momento. Non possiamo dividerlo secondo le stagioni; possiamo soltanto registrarne i mutamenti e segnare volta a volta il loro ripetersi. Per noi, il
tempo non progredisce. Esso ruota su se stesso; sembra girare su un perno di dolore. L'immobilità paralizzante di una vita di cui ogni particolare è regolato da un piano immutabile, così che mangiamo e beviamo e ci corichiamo e preghiamo, o almeno ci inginocchiamo nell'atto di pregare, secondo le leggi inflessibili di una regola di ferro, questo carattere di immobilità che fa ogni singola orrenda giornata identica alla precedente fin nei minimi dettagli, sembra comunicarsi a quelle forze esterne la cui essenza stessa è invece un
continuo mutamento. Tempo di seminagione o di raccolta, mietitori chini sulle spighe o vendemmiatori tra filari di vigna, l'erba nel frutteto bianca di corolle sfogliate o sparsa di frutti caduti: di queste cose non sappiamo nulla, e nulla possiamo sapere. Per noi esiste una sola stagione, la stagione del Dolore. Anche il sole e la luna sembra ci siano stati tolti. Può essere, fuori, una giornata d'azzurro e d'oro, ma soltanto una luce grigia e avara filtra attraverso il vetro spesso del finestrino ad inferriata sotto al quale siedo. È un crepuscolo perpetuo nella cella, e una tenebra perpetua nel cuore. E nella sfera del pensiero, non meno che nella sfera del tempo, ogni moto è cessato. Ciò che tu personalmente hai dimenticato molto tempo fa, o puoi facilmente dimenticare, a me sta accadendo adesso, e domani mi accadrà di nuovo. Se ti rendi conto di questo capirai in piccola parte perché io ti stia scrivendo, e scrivendo in questo tono. Una settimana più tardi, mi trasferiscono qui. Passano altri tre mesi e mia madre muore. Nessuno meglio di te sa quanto profondamente l'amavo e la veneravo. La sua morte fu per me un colpo così terribile, che io, un tempo padrone e signore della lingua, non ho parole con
cui esprimere la mia angoscia e la mia vergogna. Mai, neppure nei giorni della mia più perfetta evoluzione artistica, avrei potuto trovare parole atte a reggere il peso di un significato così augusto, o a muovere con bastante armonia e maestà nel corteo luttuoso della mia incomunicabile angoscia. Lei e mio padre mi avevano trasmesso un nome reso da loro stessi nobile e onorato, non soltanto in letteratura, in arte, in archeologia e nelle scienze, ma nella storia politica del mio paese, nella sua evoluzione nazionale. Io avevo disonorato quel nome per l'eternità. Ne avevo fatto una turpe parola d'ordine fra gente turpe, l'avevo trascinato nel fango, l'avevo dato in pasto ai bruti, che ne facessero qualche cosa di brutale, e ai pazzi, che lo trasformassero in un sinonimo di pazzia. Ciò che soffersi allora, e soffro ancora, la penna non può scriverlo né la carta darne testimonianza. Mia moglie, a quel tempo buona e compassionevole con me, perché non dovessi apprendere la notizia da labbra indifferenti o estranee, affrontò, malata com'era, il viaggio da Genova all'Inghilterra per prepararmi lei stessa all'annuncio di una perdita cosi irreparabile, cosi irrimediabile. Messaggi di partecipazione al mio dolore mi giunsero da tutti coloro che avevano ancora dell'affetto per me. Perfino molti che non mi conoscevano personalmente, avendo appreso quale nuovo
dolore fosse entrato nella mia vita spezzata, scrissero chiedendo che mi venisse riferita qualche espressione delle loro condoglianze. Tu solo te ne sei stato da parte, non mi hai mandato una parola, non mi hai scritto una lettera. Di azioni simili, è meglio dire come Virgilio a Dante a proposito di coloro le cui vite sono state prive di nobili impulsi e superficiali nelle intenzioni: "Non ragioniam di lor, ma guarda, e passa." Trascorrono altri tre mesi. Il calendario su cui sono segnati il mio comportamento e i miei compiti quotidiani, appeso fuor dell'uscio della mia cella, con nome e condanna scritti in tutte lettere, mi dice che siamo in maggio. I miei amici tornano a vedermi. Domando di te, come faccio sempre. Mi dicono che sei nella tua villa di Napoli e stai per pubblicare un volume di poesie. Sul finire della visita mi vien detto incidentalmente che lo dedichi a me. Questa notizia mi diede una specie di nausea della vita. Non dissi niente, ma in silenzio tornai alla mia cella, con il disprezzo nel cuore. Come hai potuto sognarti di dedicarmi un volume di
versi senza prima domandare il mio permesso? Sognarti, dico? Come hai osato fare una cosa simile? Risponderai forse che nei giorni della mia grandezza e della mia fama avevo acconsentito a ricevere la dedica dei tuoi primi lavori? Certo l'ho accettata, cosi come avrei accettato l'omaggio di qualsiasi altro giovane agli inizi della difficile e bella disciplina letteraria. L'omaggio è sempre gradito all'artista, e due volte più dolce quando è la giovinezza
a porgerlo. L'alloro appassisce, colto dalla mano di un vecchio. Soltanto la giovinezza ha diritto di incoronare l'artista. Questo, se i giovani lo sapessero,è il vero privilegio dell'esser giovani. Ma i giorni dell'umiliazione e dell'infamia sono diversi da quelli della grandezza e della fama. Hai ancora da imparare che mentre la Prosperità, il Piacere e il Successo sono sovente di grana grossa e di fibra volgare, il Dolore è la più sensibile fra tutte le cose create. In un intero universo di pensiero o di movimento, nulla si muove senza che il Dolore vibri in corrispondenza con palpito terribile benché squisito. E insensitiva, a paragone, la sottile e tremula foglia d'oro battuto che segna la direzione di forze invisibili all'occhio umano. Una ferita che sanguina quando la tocca una mano che non sia la mano d'Amore, e anche allora sanguina, sebbene non di dolore. Sei stato capace di scrivere al direttore del carcere di Wandsworth per chiedermi il permesso di pubblicare le mie lettere sul Mercure de France, che corrisponde alla nostra Fortnightly Review". Non potevi scrivere al direttore del carcere di Reading per chiedermi il permesso di dedicare a me le tue poesie, libero del resto di darne qualsiasi descrizione fantasiosa tu
preferissi? Fu forse perché nel primo caso la rivista in questione aveva ricevuto da me la proibizione di pubblicare lettere i cui diritti legali, come sai benissimo, spettavano unicamente a me, mentre nel secondo pensavi di poter agire secondo il tuo capriccio senza che io ne sapessi nulla finché fosse troppo tardi per intervenire? Il solo fatto che io ero un uomo rovinato, in disgrazia, e carcerato, doveva, se desideravi scrivere il mio nome sul frontespizio della tua opera, fartelo mendicare da me come un favore, un onore, un privilegio. E questo il modo di avvicinare coloro che sono in pena e coperti di vergogna.
Dov'è il Dolore, là il suolo è sacro. Un giorno ti renderai conto di ciò che questo significa. Fino a quel giorno, non saprai nulla della vita. Robbie, e altre anime come la sua, sanno rendersene conto. Quando fui condotto dal mio carcere al tribunale per bancarotta, tra due poliziotti, Robbie pazientò nel lungo corridoio tetro per potersi levare gravemente il cappello mentre io passavo ammanettato e a capo chino, davanti alla folla che un atto così umano e semplice ridusse un momento al silenzio. C'è chi è andato in paradiso per molto meno. Fu con questo spirito e con questa forma d'amore che i santi si inginocchiavano a lavare i piedi ai poveri o baciavano il lebbroso sulla guancia. Io non gli ho mai detto una parola in proposito. Fino ad oggi non so se egli sia a conoscenza che mi ero accorto del suo gesto. Non è cosa di cui si possa ringraziare formalmente con parole formali. Io la serbo nel tesoro del mio cuore. Ve la tengo come un debito segreto, pensando con gioia che non potrò mai ripagarlo. È imbalsamato e tenuto in serbo con la mirra e la cassia di molte lacrime. Quando la Saggezza era per me senza profitto, la Filosofia sterile, e i proverbi e i detti di coloro che cercavano di consolarmi come polvere e cenere al mio palato, la memoria di quel piccolo, umile e
silenzioso atto d'Amore ha dissigillato per me tutte le fonti della pietà, ha fatto fiorire il deserto come una rosa e mi ha condotto dall'amarezza di un esilio solitario all'armonia col grande cuore ferito e spezzato del mondo. Quando sarai capace di capire, non soltanto come fu bello l'atto di Robbie, ma anche perché esso ebbe per me tanta importanza, e sempre ne avrà, capirai in quale maniera e con quale spirito dovevi avvicinarmi per domandare il permesso di dedicare a me i tuoi versi. E giusto però specificare che nemmeno in questo caso avrei accettato la dedica. Per quanto sia possibile che in altre circostanze questa richiesta poteva lusingarmi, io l'avrei rifiutata per il tuo bene, a prescindere dai miei propri sentimenti. Il primo volume di. versi che un giovane dà nella primavera della sua vita dovrebbe essere come una corolla o fiore di primavera, come il biancospino nel prato a Magdalen o le primule nei campi di Cumnor. Non dovrebbe essere gravato del carico di una tragedia terribile e ripugnante, di un terribile, ripugnante scandalo. Sarebbe stato un grave errore artistico consentire che il mio nome servisse da araldo a un simile libro. Avrebbe creato intorno al lavoro un'atmosfera sbagliata, e nell'arte
moderna l'atmosfera conta molto. La vita moderna è complessa e relativa; sono queste le due note che la distinguono. Per rendere la prima occorre l'atmosfera con la sua delicatezza di nuances, di suggestioni, di prospettive insolite; per la seconda si richiede lo sfondo. Ecco perché la scultura ha cessato di essere un'arte rappresentativa, e perché la musica è un'arte
rappresentativa, e perché la letteratura è, è stata, e sarà sempre, la suprema arte rappresentativa. Il tuo volumetto avrebbe dovuto evocare le brezze di Sicilia e d'Arcadia, non il tanfo del tribunale o l'aria chiusa e viziata di una cella. Del resto, una dedica come quella che proponevi di farmi non sarebbe stata solo un errore di gusto nel campo dell'arte; anche da altri punti di vista sarebbe stata del tutto sconveniente: sarebbe sembrata un insistere nella
linea di condotta tenuta da te prima e dopo il mio arresto; avrebbe dato l'impressione di una sciocca spavalderia, un esempio di quella forma inferiore di coraggio che si vende e si compra a poco prezzo nelle vie della vergogna. Per quanto riguarda la nostra amicizia, la Nemesi ci ha schiacciati entrambi come mosche. Dedicarmi poesie mentre ero in carcere sarebbe. sembrato una specie di insulso tentativo di aver l'ultima parola, un talento questo di
cui, ai tempi dei tuoi terribili sfoghi epistolari - tempi che, lo spero sinceramente per il tuo bene, non dovranno mai tornare - solevi inorgoglirti apertamente, e che ti compiacevi di vantare. Non avrebbe certo avuto quell'effetto serio e commovente che spero, anzi credo, tu intendessi. Se mi avessi consultato, ti avrei consigliato di rimandare la pubblicazione dei tuoi
versi per un poco, o, se questo ti fosse dispiaciuto, pubblicarli dapprima anonimi, e poi, quando la tua poesia ti avesse conquistato degli amici, i soli amici che vale davvero la pena di conquistare, potevi volgerti e dire al mondo: "I fiori che ammirate fui io a seminarli, e li offro adesso a uno che considerate un reietto e un paria, come tributo a ciò che venero e amo e ammiro in lui". Invece hai scelto il metodo e il momento sbagliato. Esiste una forma di tatto
in amore, e una forma di tatto in letteratura; tu non sei stato sensibile né all'una né all'altra. Ti ho parlato a lungo su questo punto in modo che tu possa afferrarne tutto il significato, e capire perché io abbia scritto subito a Robbie esprimendo tanto disprezzo per te, e abbia proibito categoricamente la dedica, e chiesto che ciò che avevo scritto di te venisse copiato parola per parola e ti fosse inviato. Sentivo che era venuto infine il tempo di costringerti a vedere, a riconoscere, a renderti conto in piccola parte di ciò che avevi fatto. La cecità può arrivare al punto di diventare grottesca, e una natura priva di immaginazione, se non si fa qualche cosa per ridestarla, impietrerà fino all'insensibilità perfetta, cosi che mentre il corpo mangia, e beve e gode i suoi piaceri, l'anima che esso alberga può, come l'anima di Branca d'Oria in Dante, essere morta del tutto. Pare che la mia lettera non sia giunta nemmeno un
attimo troppo presto. Ti piombò addosso, per quanto posso giudicare, come un colpo di fulmine. Ti rese, dici nella tua risposta a Robbie, "incapace di pensare e di esprimerti". E davvero sembra tu non abbia saputo pensare niente di meglio che lamentarti per lettera con tua madre. Lei naturalmente, con quella cecità nei riguardi del tuo vero bene che è stata la sua disgrazia e la tua, ti offre ogni consolazione di cui è capace e ti blandisce fino a farti ricadere, cosi suppongo almeno, nell'infausto e indegno stato d'animo di prima; mentre per quanto concerne me, fa sapere ai miei amici di essere "molto seccata" della severità delle mie osservazioni nei tuoi riguardi. Anzi, non è soltanto ai miei amici che rende noto questo sentimento, ma anche a coloro, (non occorre dirlo, molto più numerosi) che non sono miei amici; e mi viene riferito, da fonte molto ben disposta verso i tuoi e verso di te, che in
conseguenza di ciò ho perduto irrimediabilmente buona parte di quella simpatia che il mio genio singolare e le mie terribili sofferenze mi stavano acquistando gradatamente ma sicuramente. La gente dice: "Ah, prima ha cercato di mandare in prigione il padre, e non c'è riuscito; ora butta la colpa della cattiva riuscita sul figlio innocente. Avevamo proprio ragione di disprezzarlo! E' veramente degno di disprezzo!" A me sembra che quando viene fatto il mio nome davanti a tua madre, se ella non trova una parola di rincrescimento o di rammarico per la parte non piccola che ebbe nella rovina della mia casa, farebbe meglio a mantenere il silenzio. E in quanto a te, non ti sembra adesso che invece di scrivere a lei le tue lamentele avresti fatto meglio, sotto ogni punto di vista, a scrivere direttamente a me, e a trovare il
coraggio di dirmi tutto quel che avevi o credevi di avere da dire? È passato quasi un anno ormai da quando scrissi quella lettera. Non è possibile che in tutto quel tempo tu sia rimasto "incapace di pensare e di esprimerti". Perché non mi hai scritto? Hai visto dalla mia lettera quanto profondamente la tua condotta mi ferisse, quanto ne fossi indignato. Di più: hai visto l'intera amicizia con me esposta finalmente nella sua luce giusta e in maniera inequivocabile. Spesso nei tempi passati ti avevo detto che eri la rovina della mia vita. Ne avevi sempre riso. Quando, proprio agli inizi della nostra amicizia, Edwuin Levy, vedendo con quanta disinvoltura tu mi spingevi avanti a reggere il peso e le noie e perfino le spese di quel tuo infortunio di Oxford, se così dobbiamo chiamarlo, per cui avevamo cercato il suo consiglio e il suo aiuto, impiegò un'ora intera per dissuadermi dal diventare tuo amico; tu, quando a Braiknell ti descrissi il nostro lungo e serio colloquio, ne ridesti. Quando ti dissi che perfino quel disgraziato giovane, finito poi come me sul banco degli imputati, mi aveva avvertito più di una volta che tu mi avresti portato all'estrema rovina assai più fatalmente dei volgari ragazzotti che avevo la debolezza di frequentare, tu ridesti, sebbene assai meno divertito.
Quando i miei amici più prudenti o meno affezionati mi sconsigliavano la tua amicizia o mi abbandonavano se ne venivano messi al corrente, tu ridevi con d sguaiatamente quando, in occasione della prima lettera ingiuriosa che tuo padre ti scrisse a mio riguardo, io dissi che sapevo bene di essere soltanto il pretesto della vostra lite nefasta, e che fra voi due avrei fatto una brutta fine. Ma in quanto ai risultati, ogni cosa è accaduta come avevo detto che sarebbe accaduta. Non avevi scuse per non vedere come tutte le mie previsioni si fossero realizzate. Perché non mi hai scritto? Per vigliaccheria? Per durezza di
cuore? Che cosa fu? Il fatto che io fossi sdegnato con te e avessi espresso il mio sdegno, era una ragione di più per scrivere. Se la mia lettera ti sembrava giusta, dovevi scrivere. Se ti sembrava ingiusta, anche nel più piccolo particolare, dovevi scrivere. Io aspettavo una tua lettera. Ero certo che avresti finalmente capito che se l'antico affetto, l'amore mille volte dichiarato, i mille atti di generosità mal ricambiata che avevo riversato su di te, i mille debiti
non assolti di gratitudine che mi dovevi - che se tutto questo per te non fosse stato nulla, il dovere stesso, cioè il più arido dei legami tra un uomo e un altro, doveva bastare a farti scrivere. Non puoi dire d'aver creduto sul serio che mi fosse consentito ricevere soltanto comunicazioni di affari dalla mia famiglia. Sapevi benissimo che ogni dieci settimane Robbie mi manda un sommario di notizie del mondo letterario. In fatto di arguzia, di concisa
intelligenza critica, di leggerezza di tocco, non vi è nulla di più incantevole delle sue lettere; sono vere lettere; sono come una persona che mi parli; hanno il tono di una causerie intime francese; e nella delicata deferenza che egli mi dimostra, rivolgendosi ora al mio giudizio, ora al mio senso dell'umorismo, ora al mio istinto per la bellezza o alla mia cultura, e
rammentandomi in cento modi discreti come un tempo io fossi stato per molti arbitro di stile nell'Arte, e per alcuni l'arbitro supremo, egli dimostra di possedere il tatto dell'amore oltre che il tatto della letteratura. Le sue lettere sono state messaggere tra me e quel meraviglioso mondo irreale dove un tempo io fui Re, e dove sarei rimasto Re se non mi fossi lasciato attirare in un mondo imperfetto di rozze passioni incomplete, di appetiti indifferenziati, di
desideri illimitati e brame informi. Ma in fin dei conti dovresti pure essere stato in grado di capire, o almeno di concepire nella tua mente, che anche soltanto per normalissime ragioni di mera curiosità psicologica sarebbe stato assai più interessante per me ricever lettere tue che non venire informato del volume di versi che Alfred Austin stava per pubblicare, o delle critiche teatrali che Street scriveva sul Daily Chronicle, o del fatto che un letterato incapace
di pronunciare un elogio senza balbettare avesse proclamato Mrs. Meynell la nuova profetessa del bello stile. Ah, se fossi stato tu in carcere - non dico per colpa mia, perché non reggerei a questo pensiero terribile, ma per colpa tua, per errore tuo, per troppa fede in un amico indegno, per una caduta nel fango dei sensi, per fiducia mal riposta o amore mal prodigato, o per nessuna di queste cose, o per tutte quante insieme - credi forse che ti avrei lasciato a roderti il cuore nel buio e nella solitudine senza cercare in qualche modo, anche minimo, di aiutarti a reggere il peso amaro della tua vergogna? Credi che non ti avrei fatto sapere che se tu soffrivi, anch'io stavo soffrendo; che se piangevi, anche nei miei occhi c'erano lagrime; e che se tu languivi in carcere ed eri disprezzato dagli uomini, io delle mie pene stesse avevo fatto una casa in cui abitare fino al tuo ritorno, un forziere in cui tutto ciò che gli uomini ti avevano negato, moltiplicato cento volte, sarebbe stato serbato per guarirti? Se la triste necessità o la prudenza, per me, almeno, cosa ancora più triste, mi avessero impedito di starti vicino e derubato della gioia della tua presenza, anche vista al di là delle sbarre di una prigione e sotto l'aspetto della vergogna, io ti avrei scritto, a tempo e fuori tempo, nella speranza che una
frase, una parola isolata, anche solo un'eco confusa d'amore, potessero raggiungerti. Se ti fossi rifiutato di ricevere le mie lettere, nondimeno ti avrei scritto, in modo che tu potessi sapere che se non altro c'erano delle lettere in attesa di te. Molti l'hanno fatto con me. Ogni tre mesi molti mi scrivono o chiedono di potermi scrivere. Le loro lettere e comunicazioni mi sono tenute da parte. Mi verranno consegnate quando uscirò dal carcere. Io so che sono li,
conosco i nomi delle persone che le hanno scritte. So che sono piene di comprensione, di affetto e di gentilezza. Questo mi basta; non mi occorre sapere altro. Il tuo silenzio è stato orribile. E non è stato un silenzio di settimane o mesi soltanto, ma di anni; di anni, anche a contarli come li contano coloro che, come te, vivono felici, e riescono appena a scorgere gli
aurei piedi dei giorni che fuggono danzando, e inseguono ansando il piacere. E un silenzio per cui non esiste scusa; un silenzio senza attenuanti. Io lo sapevo che tu avevi i piedi di argilla. Chi lo sapeva meglio di me? Quando scrissi, in uno dei miei aforismi, che sono proprio i piedi d'argilla a rendere prezioso l'oro dell'idolo, era a te che pensavo. Ma non è un idolo d'oro con i piedi d'argilla quello che tu hai fatto di te stesso. Dalla polvere della strada
battuta che gli zoccoli degli armenti calpestano e riducono a fango, hai modellato la tua immagine perfetta perché io la contemplassi; e così, qualunque possa essere stato il mio desiderio segreto, mi è impossibile ormai provare per te altro sentimento che il disprezzo, e per me stesso, ancora il disprezzo. E lasciando da parte tutte le altre ragioni, la tua indifferenza, il tuo buon senso terra terra, la tua durezza, la tua prudenza, chiamala come vuoi, mi è stata due volte più amara a causa delle circostanze particolari che accompagnarono e seguirono la mia caduta. Altri infelici, una volta gettati in carcere, se sono privati della bellezza del mondo, sono almeno al sicuro fino a un certo punto dalle sue frombole più micidiali, dai suoi dardi più terribili. Possono nascondersi nell'oscurità delle loro celle e della vergogna stessa fare una specie di rifugio. Il mondo, avendo fatto di loro ciò che ha voluto, se ne va per la sua strada e li lascia soffrire indisturbati. Per me è stato diverso. Un dolore dopo l'altro è venuto a battere alle porte del carcere, in cerca di me. Hanno spalancato i cancelli e li hanno lasciati entrare. Quasi mai i miei amici hanno avuto il permesso di vedermi. Ma i miei nemici hanno sempre avuto piena libertà di accesso. Due volte comparso pubblicamente in tribunale per bancarotta, due volte pubblicamente trasferito da un carcere all'altro, sono stato esposto in condizioni indicibilmente umilianti allo sguardo e allo scherno degli uomini. L'araldo di Morte, consegnato il suo messaggio, se n'è andato per la sua strada, e in completa solitudine, isolato da tutto ciò che potrebbe darmi conforto o arrecarmi qualche sollievo, ho dovuto reggere il fardello intollerabile di infelicità e di rimorso che la memoria di mia madre mi imponeva e tuttora continua ad impormi. Il tempo comincia appena a rimarginare questa ferita, non a guarirla, quando mi giungono da mia moglie per mezzo dell'avvocato lettere violente, aspre e amare. Mi si schernisce per la mia povertà e insieme mi si minaccia una povertà peggiore. Questo posso sopportarlo. Posso adattarmi anche a peggio. Ma i miei due figli mi vengono
strappati da una sentenza legale. Questa per me è, e sempre rimarrà, una fonte di infinito affanno, di infinito strazio, di dolore senza fine e senza limiti. È orribile per me che la legge mi abbia dichiarato indegno di tenere i miei figli, e abbia anzi preso l'iniziativa di dichiararmi tale. La vergogna della prigione è nulla al confronto. Invidio gli altri uomini che marciano con me nel cortile del carcere. Sono certo che i loro figli li aspettano, sperano nel loro ritorno e saranno buoni con loro. I poveri sono più saggi, più caritatevoli, più umani, più sensibili di noi. Ai loro occhi, il carcere costituisce una tragedia nella vita di un uomo, una disgrazia, un infortunio, qualche cosa che richiama l'altrui compassione. Parlando di uno che è in prigione dicono semplicemente che è "nei guai". È la frase che usano sempre, e vi è la perfetta sapienza, dell'Amore in questa espressione. Per le persone del nostro rango la cosa è diversa. Per noi, il carcere fa dell'uomo un impuro. Io,e quelli come me, non abbiamo quasi diritto all'aria e al sole.La nostra presenza guasta i piaceri degli altri. Rivedere i bagliori della luna bon è cosa per noi. I nostri figli stessi ci sono tolti: quei dolci legami con l'umanità sono infranti. Siamo condannati alla solitudine, mentre abbiamo dei figli ancora in vita. Ci viene negato quell'unico bene che potrebbe guarirci e sostenerci, che potrebbe portare un balsamo al cuore
ferito e la pace all'anima tormentata. A tutto questo è venuto ad aggiungersi il piccolo fatto penoso che tu, con le tue azioni e il tuo silenzio, con ciò che hai fatto e ciò che hai omesso di fare, mi hai reso ancora più difficile da
vivere ogni giorno della mia lunga prigionia. Perfino il pane e l'acqua della razione sono cambiati per colpa della tua condotta. Mi hai reso amaro l'uno e torbida, l'altra. Il dolore che avresti dovuto condividere l'hai raddoppiato, le pene che dovevi tentare di alleggerire le hai acuite fino allo spasimo. Non ho alcun dubbio che tu l'abbia fatto senza intenzione. È stato semplicemente "quel tuo unico difetto veramente funesto, la tua completa mancanza di
immaginazione". E la conclusione finale di tutto ciò è che sono costretto a perdonarti. Devo perdonarti. Non scrivo questa lettera per far nascere l'amarezza nel tuo cuore, ma per eliminarla dal mio. Per il mio proprio bene debbo perdonarti. Non si può nutrire continuamente una vipera in seno, né
levarsi ogni notte per seminare triboli nel giardino della propria anima. Per me non sarà affatto difficile farlo, se mi aiuti un poco. Nei tempi andati, qualsiasi cosa tu mi facessi io la perdonavo subito senza difficoltà. Questo non ti giovava, allora. Soltanto chi vive una vita senza macchia può perdonare i peccati. Ma ora che giaccio nell'umiliazione e nella vergogna, la cosa è diversa. Ora il mio perdono dovrebbe significare molto per te: un giorno te ne
renderai conto. Che tu lo faccia presto o tardi, tra poco o mai, la mia strada è chiara. Non posso consentire che tu porti nel cuore per tutta la vita il peso della responsabilità di aver rovinato un uomo come me. Questo pensiero potrebbe renderti duro e indifferente, oppure morbosamente triste. Devo togliere il fardello dalle tue spalle e prenderlo sulle mie. Debbo dire a me stesso che né tu né tuo padre, moltiplicati mille volte, avrebbero potuto
rovinare un uomo come me; che mi sono rovinato da solo; e che nessuno, grande o piccolo, può rovinarsi eccetto che di propria mano. Sono prontissimo a dirlo. Sto cercando di dirlo qui, anche se al momento tu non riesci a immaginarlo. Se ho pronunciato contro di te questo atto spietato d'accusa, pensa quale accusa pronuncio spietatamente contro me stesso. Per terribile che sia ciò che mi hai fatto, ciò che feci a me stesso fu ben più terribile ancora. Io ero un uomo che stava in un rapporto simbolico con l'arte e la cultura della sua epoca. Di questo mi ero reso conto per me stesso all'alba della mia giovinezza,e in seguito avevo costretto la mia epoca a rendersene conto. Pochi uomini occupano in vita una tale posizione, e ottengono che venga loro riconosciuta; essa è per lo più percepita dallo storico o dal critico
molto tempo dopo che l'uomo e la sua epoca sono trapassati; oppure mai. Per me è stato diverso. La sentivo io stesso, e la feci sentire agli altri. Byron fu una figura simbolica, ma soltanto in rapporto alla passione della sua epoca e alla sua sazietà di passione. Io lo fui in rapporto a qualche cosa di più nobile, più permanente, di importanza più vitale, di apertura più vasta. Gli dèi mi avevano concesso quasi tutto. Avevo il genio, un nome illustre, un'alta posizione sociale, una mente brillante, un intelletto audace; facevo dell'arte una filosofia e della filosofia un'arte; mutavo la mente degli uomini e il colore delle cose; nulla di quel che io facevo o dicevo lasciava la gente indifferente. Presi il dramma, la più obbiettiva tra le forme artistiche, e ne feci un mezzo d'espressione altrettanto personale quanto la lirica o il sonetto; nel medesimo tempo ne allargai il raggio e ne arricchii la caratterizzazione. Dramma,
romanzo, poesia in prosa, poesia in rima, dialogo ingegnoso o fantastico, qualsiasi cosa io toccassi, la abbellivo di una bellezza nuova; alla verità stessa diedi in legittimo dominio ciò che è falso non meno di ciò che è vero, e mostrai che il falso e il vero non sono che forme di esistenza intellettuale. Trattai l'Arte come la suprema realtà e la vita come una forma di invenzione artistica; destai l'immaginazione della mia epoca così che essa creò intorno a me il mito e la leggenda. Seppi riassumere tutti i sistemi in una frase e l'esistenza intera in un epigramma. Insieme a queste qualità, avevo altri aspetti assai diversi. Mi lasciavo irretire da lunghi periodi di indolenza insensata e sensuale. Mi divertivo a posare a fianeur, a dandy e a damerino. Mi circondavo di nature basse e di menti meschine. Divenni scialacquatore del mio genio, e dilapidare una giovinezza eterna mi diede una strana gioia. Stanco delle altezze, nella ricerca di sensazioni nuove mi volsi deliberatamente alle bassezze. Ciò che il paradosso era per me nel campo del pensiero, la perversione lo divenne nel campo delle passioni. Alla fine, il desiderio diventò una malattia, o una pazzia, o ambedue le cose insieme. Divenni noncurante della vita altrui. Presi il piacere dovunque mi piaceva, e passai oltre. Dimenticai che ogni minima azione della vita quotidiana contribuisce a fare o disfare un carattere, e che di conseguenza ciò che si è fatto nel segreto di una stanza si è costretti un giorno a gridarlo sui tetti. Cessai di essere Signore di me stesso. Non ero più il Capitano della mia Anima, e non lo sapevo. Mi lasciai dominare da te e spaventare da tuo padre; finii in uno scandalo orribile. C'è una sola risorsa per me adesso, l'umiltà assoluta: così come c'è una sola risorsa per te, di nuovo l'assoluta umiltà. Faresti bene ad abbassarti nella polvere e impararla con me. Sono stato in prigione quasi due anni. Dalla mia natura è uscita una folle disperazione; un
abbandono al dolore che era pietoso anche a vedersi; ira terribile e impotente; amarezza e disprezzo; angoscia che singhiozzava apertamente, tormento che non trovava voce, pena che rimaneva muta. Sono passato attraverso ogni possibile forma di sofferenza. Meglio di Wordsworth stesso, so quel che egli intendeva quando scrisse:
La sofferenza è permanente, oscura e cupa e ha la natura dell'Infinità
Ma mentre vi sono state ore in cui mi sono rallegrato all'idea che le mie sofferenze dovessero essere infinite, non avrei potuto sopportare che esse fossero prive di significato. Ora trovo nascosto in fondo alla mia natura qualche cosa che mi dice che nel mondo intero niente è privo di significato, e tanto meno la sofferenza. Quel qualche cosa nascosto in fondo alla mia
natura, come un tesoro in un campo, è l'umiltà. E' l'ultima cosa che mi sia rimasta, e la migliore di tutte; la scoperta finale a cui sono giunto;
il punto di partenza per una evoluzione nuova. Mi è giunta dal fondo di me stesso, perciò so che è giunta al momento giusto. Non avrebbe potuto giungere prima, né più tardi. Se qualcuno me ne avesse parlato, l'avrei respinta; se mi fosse stata offerta, l'avrei rifiutata. Ma poiché l'ho trovata voglio tenerla, non posso fare altrimenti. E' l'unica cosa che abbia in sé gli
elementi della vita, di una nuova vita, di una Vita Nuova per me. Di tutte le cose è la più misteriosa. Non possiamo darla via, e gli altri non possono darla a noi. Non possiamo acquistarla, fuorché cedendo in cambio tutto ciò che abbiamo. Soltanto quando abbiamo perduto tutto, ci accorgiamo di possederla. Ora che mi accorgo che essa è in me vedo con assoluta chiarezza ciò che debbo fare, ciò che in realtà sono costretto a fare. Non occorre dirti che con questa espressione non alludo ad alcuna sanzione o comando esteriore. Non ne accetto alcuno. Sono molto più individualista di quanto sia stato mai. Mi sembra che solo ciò che esce da noi stessi possa avere un benché minimo valore. La mia natura sta cercando una nuova forma di realizzazione di sé. Questa è la sola cosa che mi concerne. E prima di tutto devo liberarmi da ogni possibile sentimento di amarezza contro di te. Sono senza casa e senza un soldo. Ma c'è di peggio a questo mondo. Sono del tutto sincero quando ti dico che piuttosto di uscire da questa prigione con il cuore amareggiato contro di te o contro il mondo, andrei volentieri di uscio in uscio mendicando il pane. Se non ottenessi nulla dalle case dei ricchi, dalle case dei poveri otterrei certo qualche cosa. Quelli che hanno molto sono spesso avari, quelli che hanno poco sono sempre pronti a spartire. Non mi dispiacerebbe affatto dormire d'estate sull'erba fresca, o quando venisse l'inverno ripararmi
contro la tiepida bica coperta di paglia o sotto la tettoia di un vasto fienile, purché ci fosse l'amore nel mio cuore. Le esteriorità della vita mi sembrano adesso del tutto prive di importanza. Vedi a quale intensità di individualismo sono arrivato o meglio sto arrivando, perché il cammino è lungo, e "dove io cammino nascono i triboli". Naturalmente so bene che la mia sorte non sarà di mendicare lungo la strada maestra e che se mai mi coricherò di notte nell'erba fresca sarà per scrivere sonetti alla Luna. Quando uscirò di prigione, Robbie sarà ad aspettarmi fuori della cancellata a borchie di ferro, e Robbie è il
simbolo non soltanto dell'affetto suo, ma anche dell'affetto di molti altri. Credo che avrò di che vivere per almeno diciotto mesi circa, così che, se non potrò scrivere dei bei libri, potrò almeno leggerli; e quale gioia è più grande di questa? Dopo, spero di riuscire a creare da capo la mia facoltà creativa. Ma se le cose stessero diversamente; se non mi restasse un amico al mondo; se dovessi accettare la bisaccia e il mantello stracciato dell'estrema miseria; pure, finché restassi scevro di risentimento, di durezza e di disprezzo, potrei affrontare la vita con più calma e fiducia che se il mio corpo fosse coperto di porpore e lini preziosi, e l'anima malata d'odio. E non proverò davvero alcuna difficoltà a perdonarti. Ma perché il perdono diventi gioia per me, devi sentire di volerlo. Quando davvero lo vorrai, lo troverai già in attesa di te. Non occorre dire che il mio compito non finisce qui. Se così fosse, sarebbe relativamente
facile. Mi aspettano ben altre difficoltà. Ho da scalare monti molto più ripidi, da traversare valli di gran lunga più oscure. E dovrò trarre tutto dal profondo di me stesso. Né Religione, né Morale, né Ragione possono essermi di minimo aiuto. La Morale non mi serve. Sono un antinomista nato. Sono uno di coloro che sono fatti per le eccezioni, non per le leggi generali. Ma mentre capisco che non vi è mai nulla di male in ciò che si fa, capisco anche che vi è qualche cosa di male in ciò che si diventa. È bene averlo imparato. La Religione non mi serve. La fede che altri dedicano all'invisibile, io la dedico a ciò che posso toccare e guardare. I miei dèi vivono in templi costruiti da mani umane, e nel cerchio dell'esperienza attuale la mia dottrina è perfetta e completa; anche troppo completa, forse, perché, come molti di coloro, o tutti coloro, che hanno posto su questa terra il loro Paradiso, ho trovato in essa non solo la bellezza del Paradiso ma anche l'orrore dell'Inferno. Quando mi accade di pensare alla Religione, sento che mi piacerebbe fondare un Ordine per quelli che sono incapaci di credere; si potrebbe chiamarla la Confraternita degli Orfani, sul cui altare spoglio di candele un prete nel cui cuore non alberga la pace celebri con pane non benedetto e calice vuoto di vino. Qualsiasi cosa per essere vera deve diventare una religione. E l'agnosticismo, non meno della fede, dovrebbe avere i suoi riti. Ha disseminato i suoi martiri, dovrebbe raccogliere i suoi santi, e lodare Iddio ogni giorno per essersi celato agli uomini.
Ma che sia fede o agnosticismo, per me non deve essere nulla di esteriore. I suoi simboli devono essere creati da me. Soltanto ciò che crea la propria forma è spirituale. Se non posso trovare il suo segreto dentro di me, non lo troverò mai. Se non lo possiedo già, mai esso verrà a me. La Ragione non mi serve. Essa mi dice che le leggi da cui sono stato condannato sono errate
e ingiuste, e il sistema sotto il quale ho sofferto, un sistema ingiusto ed errato. Ma in qualche modo devo renderli entrambi giusti e buoni per me. Come in arte ci concerne unicamente ciò che una cosa particolare è per noi in un particolare momento, precisamente così avviene nell'evoluzione etica del nostro carattere. Debbo far sì che tutto ciò che mi è accaduto sia un
bene per me. Il tavolaccio, il cibo ributtante, le dure funi da sfibrare in stoppa finché i polpastrelli diventano insensibili dal bruciore, i compiti umilianti con cui inizia e finisce ogni giornata, la divisa squallida che rende il dolore grottesco a vedersi, il silenzio, la solitudine, la vergogna, tutto questo io debbo trasformare in una esperienza spirituale. Non vi è una sola degradazione del corpo di cui io non debba tentare di fare una spiritualizzazione dell'anima. Voglio arrivare al punto di poter dire semplicemente e senza affettazione, che i due grandi momenti cruciali della mia vita sono stati quello in cui mio padre mi mandò a Oxford, e quello in cui la società mi mandò in prigione. Non dirò che sia stata la cosa migliore che
poteva accadermi, perché la frase suonerebbe troppo amara verso me stèsso. Preferirei dire, o che si dicesse di me, che fui così tipicamente figlio della mia epoca da finire, nella mia perversità, e per amore di quella stessa perversità, col volgere in male i beni della mia vita, e i mali della mia vita in bene. Ciò che si dice, tuttavia, da parte mia o di altri, importa poco.
Ciò che importa, ciò che ancora mi attende, ciò che ho da fare se non voglio rimanere mutilato, guasto e incompleto per il breve resto della mia vita, è di assorbire nella mia natura tutto quel che mi è stato fatto, farlo parte di me, accettarlo senza lamenti, paura o riluttanza. Il vizio supremo è la superficialità. Tutto ciò che è vissuto fino in fondo è giusto. Quando fui incarcerato alcuni mi consigliarono di cercare di dimenticare chi fossi. Era un
consiglio disastroso. Soltanto rendendomi conto di ciò che sono ho trovato qualche conforto. Ora altri mi consigliano di cercare, quando sarò scarcerato, di dimenticare d'esser mai stato in prigione. So che sarebbe ugualmente disastroso. Significherebbe per me esser sempre perseguitato da un senso intollerabile di vergogna; e le cose che sono destinate a me non meno che a chiunque altro - la bellezza del sole e della luna, il corso delle stagioni, la musica dell'alba o il silenzio delle notti, la pioggia tra le foglie o la rugiada sull'erba inargentata - per me si guasterebbero e perderebbero il loro potere taumaturgico e la capacità di comunicare la gioia. Respingere le nostre esperienze è arrestare il nostro sviluppo. Rinnegare le nostre esperienze è costringere la nostra vita alla menzogna. E niente di meno che rinnegare
l'Anima. Infatti, proprio come il corpo assorbe cibi di ogni genere, cibi comuni e impuri insieme ad altri purificati da un prete o da una visione, e li trasforma in velocità o in forza, in gioco di muscoli armoniosi o in perfetta modellatura di carni, in curve e colori di capelli, di
labbra, di occhi; così l'Anima a sua volta ha le proprie funzioni nutritive e può trasformare in nobili pensieri e alte passioni ciò che di per sé è basso, crudele e degradante; meglio ancora, può trovare proprio qui le sue manifestazioni più auguste, e spesso si rivela nella sua perfezione più assoluta proprio per mezzo di ciò che doveva sconsacrarla o distruggerla. Debbo accettare francamente il fatto di essere stato un comune carcerato di un carcere
comune, e per strano che possa sembrarti, una delle lezioni che dovrò imparare è di non vergognarmene. Devo accettarlo come un castigo, e se ci si vergogna di essere stati castigati, tanto varrebbe non esserlo stati affatto. È vero che mi hanno dichiarato colpevole di molte cose che non avevo commesso, ma d'altra parte molte di cui mi hanno incolpato le avevo
commesse davvero, e ancora più grande è il numero di quelle commesse di cui non sono stato nemmeno accusato. E in quanto a ciò che ho detto in questa lettera, che gli dèi sono misteriosi e ci puniscono per ciò che abbiamo in noi di buono e di umano non meno che per ciò che abbiamo di malvagio e di perverso, io devo accettare il fatto che siamo puniti per il bene non meno che per il male che facciamo. Non dubito che questo sia giusto. Ci aiuta, o ci
dovrebbe aiutare, a conoscerli a fondo entrambi, e a non essere troppo vanitosi né dell'uno né dell'altro. Se dunque come spero non mi vergognerò del mio castigo, potrò pensare, e camminare, e vivere in libertà. Molti, una volta scarcerati, portano il carcere con sé anche in libertà, lo nascondono nei loro
cuori come una segreta vergogna e infine come povere creature avvelenate si rintanano in qualche buco per morire. È orribile che debbano ridursi a questo, ed è ingiusto, terribilmente ingiusto che la società ve li costringa. La società si assume il diritto di infliggere all'individuo castighi spaventosi, ma ha il vizio supremo della superficialità, e non arriva a comprendere ciò che ha fatto. Quando il castigo è giunto al termine, essa lascia l'individuo a se stesso, cioè
lo abbandona nel momento in cui hanno principio nei riguardi di lui i suoi doveri più alti. Essa in realtà si vergogna del suo operato, ed evita coloro che ha punito, come la gente evita un creditore- a cui non può pagare il debito, o uno a cui abbia inflitto un irreparabile, un irredimibile danno. Per me, dichiaro che se io mi rendo conto di ciò che ho sofferto, la società dovrebbe rendersi conto di ciò che mi ha inflitto; e che né dalla mia parte né dalla sua
dovrebbe rimanere odio o amarezza. So naturalmente che da un particolare punto di vista le cose saranno più difficili per me che per altri, e devono essere tali per la natura stessa del mio caso. I poveri ladri e delinquenti che sono in carcere con me sono, sotto certi aspetti, più fortunati di quel che io non sia. Breve è il tratto di città grigia o di campagna verde che vide il loro peccato; per trovare chi non sa niente di ciò che commisero, non occorre andare più lontano di quanto un uccello possa volare tra il crepuscolo che precede l'alba e il sorgere dell'alba stessa; ma per me "il mondo si è ridotto a un palmo di larghezza"' e dovunque io mi volga il mio nome è scritto sulle rocce a caratteri di piombo. Io infatti non sono passato dall'oscurità alla momentanea notorietà del delitto, ma da una specie di eternità di fama a una
specie di eternità di infamia, e qualche volta sembro a me stesso una dimostrazione vivente, se pure occorreva dimostrarlo, di come tra la fama e l'infamia non vi sia che un passo, o meno ancora. Eppure io posso scorgere un bene nel fatto stesso che la gente mi riconoscerà dovunque vada e saprà tutto della mia vita, o almeno delle mie follie. Questo mi imporrà la necessità di
affermarmi un'altra volta come artista appena mi sarà possibile. Se riuscirò a produrre anche solo un'altra bella opera d'arte potrò privare la malignità del suo veleno, la viltà del suo ghigno, e strappare dalle radici la lingua della derisione. E se per me la vita è, come lo è, un problema, è anche vero che io sono un problema di Vita. La gente è costretta a scegliere un
atteggiamento nei miei confronti, e con ciò a giudicare se stessa mentre giudica me. Non occorre dire che non mi riferisco in particolare a questa o a quella persona. I soli che frequenterei volentieri sono adesso gli artisti, e coloro che hanno molto sofferto: quelli che conoscono la bellezza e quelli che conoscono il dolore; nessun altro mi interessa. E non esigo nulla dalla vita. Tutto ciò che ho detto riguarda semplicemente il mio atteggiamento mentale
verso la vita intera; e sento che non vergognarmi del mio castigo è uno dei primi stadi a cui debbo arrivare per il mio perfezionamento interiore, appunto perché sono tanto imperfetto. Poi debbo imparare ad essere felice. Un tempo lo sapevo, o credevo di saperlo, per istinto. Era sempre primavera, un tempo, nel mio cuore. Il mio temperamento inclinava alla felicità. Colmavo la mia vita fino all'orlo di piacere, come si colma fino all'orlo una coppa di vino.
Ora mi accosto alla vita da un punto di vista completamente nuovo, e anche soltanto concepire la felicità mi è spesso estremamente difficile. Ricordo di aver letto durante il mio primo trimestre a Oxford, nel Rinascimento di Pater, - un libro che ebbe un'influenza profonda sulla mia vita - come Dante ponga nei gironi più bassi dell'Inferno coloro che volontariamente vivono nella tristezza, e di essermi recato alla biblioteca universitaria a cercare quel passo della Divina Commedia in cui si dice di coloro che giacciono nella cupa palude dopo esser vissuti malinconici nella dolce aria del mondo, ripetendo fra i sospiri per
l'eternità: Tristi fummo nell'aer dolce che dal sol s'allegra. Sapevo che la Chiesa condanna l'accidia, ma a me questo appariva un concetto del tutto
irreale,, proprio il genere di peccato, pensavo; che può inventare un prete completamente ignaro della vera vita. E non riuscivo a capire come Dante, che parla "del buon dolor ch'a Dio ne rimarita" potesse esser stato così duro verso gli innamorati della malinconia, se davvero ne esistevano. Non avevo idea che un giorno questa sarebbe stata una delle tentazioni peggiori della mia vita.
Nel carcere di Wandsworth ero impaziente di morire. Era il mio unico desiderio. Quando, dopo due mesi d'infermeria, fui trasferito qui, e trovai che la mia salute fisica stava gradatamente migliorando, fui sopraffatto dall'ira. Decisi di suicidarmi il giorno stesso in cui avessi lasciato il carcere. Dopo qualche tempo questa fase infausta passò, e decisi di rassegnarmi a vivere, ma di assumere un aspetto cupo come un re assume la porpora; di non sorridere mai più; di far di ogni casa in cui mettessi piede una casa di lutto; di obbligare i miei amici ad accompagnare a passo lento la mia tristezza; di insegnar loro che la malinconia è il vero segreto della vita; di mutilarli con il mio tormento; di storpiarli con un dolore altrui. Ora i miei sentimenti sono molto diversi. Capisco che sarebbe ingratitudine e scortesia, quando i miei amici vengono a trovarmi, fare il viso triste cos da obbligarli ad assumere
espressioni ancora più, tristi per dimostrarmi la loro partecipazione al mio dolore; o se volessi offrir loro il pranzo, invitarli a sedere in silenzio a un pasto d'erbe amare e di cibi funerari. Devo imparare a stare sereno e di buon umore. Nelle ultime due occasioni in cui mi fu consentito di vedere qui i miei amici cercai di essere il più allegro possibile, e di mostrare il mio buon umore in modo di compensarli in piccola parte della noia di venire da Londra fino a qui per farmi visita. E' un compenso minimo, lo so, ma è quello, ne soffio sicuro, a cui essi tengono maggiormente. Ho visto Robbie sabato scorso per un'ora, e ho tentato di esprimere quanto più pienamente ho potuto la gioia sincera che provavo a vederlo. E che io sia nel giusto dando cosi forma per me stesso a questi progetti e a queste idee, lo dimostra il fatto che per la prima volta dal mio incarceramento provo un' vero desiderio di vivere. Ho davanti a me tante cose da fare che considererei una tragedia morire prima di riuscire a
compierne almeno una piccola parte. Prevedo nuovi sviluppi in Arte e nella Vita, ciascuno dei quali costituisce una nuova forma di perfezione. Voglio vivere per esplorare quello che è per me niente di meno che un mondo nuovo. Vuoi sapere che cosa sia questo nuovo mondo? Credo che tu possa indovinarlo. È il mondo in cui sono vissuto ultimamente. Il dolore, dunque, e tutto ciò che esso insegna, è il mio nuovo mondo. Io vivevo unicamente
per il piacere. Evitavo il dolore e le sofferenze di ogni genere. Li detestavo. Avevo risoluto di ignorarli fin dove era possibile, di trattarli cioè come forme di imperfezione. Non facevano parte del piano della mia vita, non avevano posto nella mia filosofia. Mia madre, che conosceva la vita nella sua completezza, soleva spesso citarmi i versi di Goethe, trascritti da Carlyle in un volume che questi le aveva dato molti anni prima, e credo addirittura tradotti da lui:
"Chi non mangiò mai il pane del dolore, chi non passò mai le ore della notte a piangere e a sospirare il mattino, quegli non vi conosce, o potenze celesti".
Erano i versi che la nobile regina di Prussia, che Napoleone trattò con brutalità cosi grossolana, soleva citare nell'umiliazione dell'esilio; erano versi che mia madre citava spesso negli affanni della sua età avanzata; io mi rifiutavo assolutamente di accettare o ammettere la sublime verità che si celava in essi. Ricordo bene come solevo dirle che non avevo nessuna intenzione di mangiare il pane del dolore, o passare anche una sola notte a piangere
nell'attesa di un'alba ancora più amara. Non avevo idea che proprio questa fosse la sorte che i Fati tenevano in serbo per me; che anzi per un anno intero della mia vita non avrei quasi fatto altro. Ma questa è la sorte che mi è stata assegnata; e durante questi ultimi mesi, dopo terribili lotte e difficoltà, sono riuscito a penetrare alcune delle lezioni nascoste nel cuore della sofferenza. I predicatori, e le persone che son solite ripetere sentenze a orecchio, parlano
talvolta della sofferenza come di un mistero. In realtà essa è una rivelazione. Si discerne ciò che non si è mai stati capaci a discernere. Si affronta l'intero corso della storia da un punto di vista differente. Ciò che sull'Arte sia sentito confusamente per mezzo dell'istinto, viene percepito intellettualmente ed emotivamente con perfetta chiarezza di visione e assoluta intensità di percezione. Ora capisco che il Dolore, essendo la suprema emozione di cui
l'uomo è capace, è insieme il modello e il banco di prova di tutta la grande Arte. L'artista è sempre alla ricerca di un modo di esistere in cui anima e corpo siano uniti e indivisibili; in cui l'esteriore sia espressione dell'interiore; in cui la Forma riveli l'Essenza. Di tali modi di esistere ve ne sono non pochi; la giovinezza e le arti che hanno per oggetto la giovinezza possono servirci a un dato momento da modello; in un altro momento preferiremo pensare
che, nella sua delicatezza e sensibilità di impressioni, nella sua capacità di evocare uno spirito che alberghi negli aspetti esteriori delle cose e si vesta ugualmente di terra o d'aria, di città o di nebbia, nella morbida fusione dei suoi umori, toni e colori, la moderna pittura paesaggistica stia realizzando per noi pittoricamente ciò che fu realizzato con tanta perfezione plastica dai Greci. La musica, in cui il contenuto è totalmente assorbito nell'espressione e non può esserne separato, è un esempio complesso di ciò che sto tentando
di dire; un fiore o un bambino ne sono un esempio semplice; ma il Dolore ne è il prototipo, nella vita come nell'Arte. Dietro alla Gioia e al Riso può esservi un temperamento rozzo, duro e insensibile. Ma dietro al Dolore vi è sempre il Dolore. La Sofferenza non porta maschera, al contrario del Piacere. La verità in Arte non è una corrispondenza tra l'idea essenziale e l'esistenza accidentale; non è la somiglianza tra forma e ombra, o tra il riflesso della forma nel cristallo e la forma stessa; non è l'eco rimandato dalla cavità del monte, né lo specchio d'acqua argentea che dalla valle mostra la Luna alla Luna e Narciso a Narciso. La verità nell'Arte è l'unità di un oggetto con se stesso; l'aspetto esteriore esprimente l'interiorità; l'anima incarnata, il corpo infuso di spirito. Per questa ragione nessuna verità è paragonabile al Dolore. Vi sono momenti in cui il Dolore mi appare come l'unica verità. Altre cose possono essere illusioni dell'occhio o degli appetiti, fatte per accecare quello o nauseare questi, ma dal Dolore sono stati creati i mondi, e alla nascita di un bimbo o di una stella assiste la sofferenza. Più ancora: c'è nel Dolore un'intensa, una straordinaria realtà. Ho detto che io fui un uomo unito in rapporto simbolico con l'arte e la cultura della sua epoca. Ma non vi è un infelice qui insieme a me in questo asilo di infelici, che non stia in rapporto simbolico con il segreto stesso della vita. Perché il segreto della vita è la sofferenza. Essa è ciò che si nasconde dietro ogni cosa. Quando incominciamo a vivere, il dolce è così dolce per noi e l'amaro così amaro, che inevitabilmente indirizziamo al piacere tutti i nostri desideri, e tentiamo non soltanto "di nutrirci del favo del miele per un mese o due", ma di non toccare altro cibo per tutti i nostri anni, ignorando che
nel frattempo la nostra anima soffre la fame. Ricordo di aver parlato una volta di questo argomento con una delle anime più elette che abbia mai conosciuto, una donna la cui comprensione e generosità nei miei riguardi, prima e
dopo la tragedia del mio incarceramento, sono state superiori a ogni possibilità d'encomio; una che, pur non sapendolo, mi ha aiutato in realtà più di chiunque altro al mondo a reggere il peso dei miei affanni; e questo, per il solo fatto di esistere; di essere ciò che è, in parte un ideale e in parte un influsso, un'ispirazione di ciò che si può diventare oltre che un aiuto per
diventarlo, un'anima che profuma l'aria e fa sembrare le cose dello spirito semplici e naturali come il mare o la luce del sole, una per cui Bellezza e Dolore camminano tenendosi per mano e dicono la medesima cosa. Nell'occasione a cui penso, rammento chiaramente di averle detto
che le sofferenze che si vedono in un vicoletto di Londra basterebbero da sole a dimostrare che Dio non ama gli uomini; e che dovunque vi sia un dolore, anche solo quello di un bimbo in lacrime in un giardinetto per una colpa commessa (o forse non commessa), la faccia del creato intero ne rimane completamente sfigurata. Avevo torto. Ella me lo disse, ma non potevo crederle. Non ero nella sfera di pensiero da cui questo concetto diventa raggiungibile. Adesso mi sembra che una qualunque forma di Amore sia la sola spiegazione possibile della massa enorme di sofferenza che esiste nel mondo. Sono convinto che non ve ne sia altra e che, se come ho detto, dal Dolore sono stati creati i mondi, ciò è avvenuto per mano d'Amore, perché in nessun altro modo l'anima dell'uomo, per il quale furono creati i mondi, poteva
raggiungere il grado massimo di perfezione. Il Piacere è per il bel corpo, ma la Sofferenza per la bella anima. Quando dico di esser convinto di tutto questo, parlo con troppo orgoglio. In lontananza, come una perla perfetta, si scorge la città di Dio. È così splendente e nitida da far pensare che un
bambino possa raggiungerla nel corso di una giornata estiva. E un bambino infatti lo potrebbe. Ma per me e per quelli simili a me, la cosa è diversa. Si può intuire una verità in un istante, ma la si perde di vista nelle lunghe ore che seguono a quello con i loro passi di piombo. È così difficile mantenersi alle "altezze che l'anima è capace di conquistare". Pensiamo nell'Eternità, ma ci spostiamo lentamente nel Tempo; e non occorre che ridica un'altra volta come passa lentamente il tempo per noi che siamo in prigione, né che parli della
stanchezza e della disperazione che tornano a strisciare nella nostra cella e nella cella del nostro cuore con tale strana insistenza, che si è costretti, per così dire, a spazzare e adornare la casa per la loro visita come per un ospite indesiderato, o per un padrone crudele, o per uno schiavo di cui per sorte o per volontà nostra si sia divenuti schiavi. E sebbene in questo momento ti sia forse difficile crederlo, è nondimeno vero che per te, vivendo come vivi in
libertà, nell'ozio e negli agi, è più facile imparare la lezione dell'Umiltà che non per me, che inizio la giornata lavando in ginocchio il pavimento della mia cella. Perché la vita del carcere, con le sue infinite privazioni e restrizioni, ci rende ribelli. Il suo aspetto più terribile non è che essa ci spezzi il cuore - i cuori sono fatti per essere spezzati, - ma che lo impietrisca. Si ha qualche volta il senso che soltanto con una fronte di bronzo e un ghigno sprezzante sulla bocca si riuscirà a reggere per tutta la giornata. E chi è in uno stato di
ribellione non può ricevere la Grazia, per usare la frase che la Chiesa ama tanto, e probabilmente ama con ragione; perché nella vita, come nell'Arte, lo spirito di rivolta occlude le vie dell'anima ed esclude le brezze del cielo. Eppure, se dovrò imparare questa lezione, è qui che debbo impararla, e debbo esser pieno di gioia se i miei piedi sono sul diritto cammino e il mio viso è volto verso la porta che è detta la Bella, anche se cadrò molte volte nel fango
e spesso nella nebbia perderò la strada. Questa vita nuova, come per amore di Dante mi piace qualche volta chiamarla, non è naturalmente affatto una nuova vita, ma semplicemente il seguito, per via di sviluppo e di evoluzione, della mia vita precedente. Ricordo, quando ero ad Oxford, di aver detto a un
amico - passeggiando per gli stretti viali di Magdalen frequentati da canori uccellini, una mattina del giugno precedente alla mia laurea, - di avergli detto che volevo assaggiare i frutti di tutti gli alberi del giardino del mondo, e che sarei andato per il mondo con quella passione nell'anima. E così è stato, e in questo modo sono vissuto. Il mio unico errore fu di limitarmi
esclusivamente agli alberi di quello che mi sembrava il lato soleggiato del giardino, evitando il lato opposto a causa dell'ombra e dell'oscurità. Il fallimento, la vergogna, la povertà, il dolore, la disperazione, la sofferenza, anche le lacrime, le parole rotte che lo strazio ci strappa di bocca, il rimorso che ci fa camminare sulle spine, la coscienza che condanna, il tormento che si copre il capo di cenere, l'angoscia che si veste di sacco e versa il fiele nella propria bevanda: di tutte queste cose io avevo paura. E poiché ero deciso a non conoscerle, fui costretto ad assaggiarle tutte l'una dopo l'altra, anzi, per un certo tempo, a non avere altro cibo. Nemmeno per un attimo mi pento di esser vissuto per il piacere. L'ho fatto fino in fondo, come si dovrebbe fare fino in fondo tutto ciò che si fa. Non vi fu piacere che io non provassi. Gettai la perla della mia anima in una coppa di vino; scesi il sentiero fiorito
accompagnandomi con la musica dei flauti; vissi dei favi del miele. Ma continuare così sarebbe stato un errore, perché avrebbe costituito un limite. Dovevo passare oltre. Anche l'altra metà del giardino mi riserbava i suoi segreti. Tutto ciò, naturalmente, è adombrato e prefigurato nella mia arte. Ce n'è qualcosa nel Principe Felice; qualche cosa ancora nel Giovane Re, particolarmente nel passo in cui il vescovo dice al ragazzo inginocchiato: "Non è Colui che fece l'infelicità più saggio di quel che sei tu?", una frase che quando la scrissi mi appariva poco più di una frase; molto ne è nascosto nel rintocco del Destino che percorre come un filo di porpora il tessuto aureo di
Dorian Gray; nel Critico come artista questo è esposto in mille colori; nell'Anima dell'uomo è scritto chiaro e semplice, in lettere troppo facili per essere lette; è uno dei ritornelli i cui motivi ricorrenti rendono Salomè tanto simile a una musica e ne collegano le parti come in una ballata: è incarnato nel poema in prosa dell'uomo che dal bronzo dell'effigie del "Piacere che vive un istante" deve trarre l'effigie del "Dolore che vive per sempre".' Non avrebbe
potuto essere altrimenti. In ogni singolo momento della nostra vita siamo ciò che saremo non meno di ciò che fummo. L'arte è un simbolo perché l'uomo è un simbolo. Essa è, se potrò attuarla completamente, la realizzazione suprema della vita artistica. Perché la vita artistica è semplicemente evoluzione interiore. L'umiltà dell'artista sta nel suo accettare francamente tutte le esperienze, così come l'Amore nell'artista è semplicemente quel
senso della Bellezza che si rivela corpo e anima al mondo. In Mario l'Epicureo, Pater cerca di conciliare la vita artistica con la vita di religione, nel senso profondo, dolce e austero di questa parola. Però Mario è poco più di uno spettatore; uno spettatore ideale, è vero, e uno a cui è dato "contemplare lo spettacolo della vita con emozioni appropriate", ciò che Wordsworth definisce il vero fine del poeta; ma uno spettatore soltanto, e forse un po' troppo
preoccupato della bellezza dei calici del santuario per accorgersi che è il santuario del Dolore quello che egli sta contemplando. Io vedo un legame molto più intimo e immediato tra la vera vita di Cristo e la vera vita
dell'artista, e provo una profonda soddisfazione se rifletto che molto tempo prima che il Dolore facesse delle mie giornate il suo dominio e mi legasse alla sua ruota, io avevo scritto nell'Anima dell'uomo che chi voglia vivere una vita simile a quella di Cristo deve essere interamente e assolutamente se stesso, e avevo preso come esempio non soltanto il pastore sul colle e il prigioniero nella cella, ma anche il pittore per cui il mondo è un trionfo di colori, e il
poeta per cui il mondo è una canzone. Rammento di aver detto una volta a André Gide, trovandoci insieme in un caffè di Parigi, che mentre la Metafisica aveva per me scarso interesse e la Morale assolutamente nessuno, non vi era invece nulla di ciò che Platone e Cristo avevano detto che non potesse essere trasferito immediatamente alla sfera dell'Arte, e non trovasse qui il suo compimento. Era una generalizzazione tanto profonda quanto nuova.
E non si tratta soltanto della possibilità di riconoscere nel Cristo quella stretta unione di personalità e di perfezione che forma la vera differenza tra Arte classica e Arte romantica, e che fa del Cristo il vero precursore del movimento romantico nella vita; il fondo stesso della sua natura era quello della natura dell'artista, un'immaginazione intensa come una fiamma. Egli realizzò in tutta la sfera dei rapporti umani quella simpatia immaginativa che nella sfera
dell'Arte è l'unico segreto della creazione. Egli comprese la lebbra del lebbroso, l'oscura notte del cieco, l'infelicità selvaggia di coloro che vivono per il piacere, la strana povertà dei ricchi. Capisci adesso, non è vero? che quando mi scrivesti in mezzo ai miei affanni: "quando non sei sul tuo piedistallo non sei interessante, la prossima volta che ti ammalerai me ne andrò subito", eri altrettanto lontano dal vero segreto dell'artista, quanto da ciò che Matthew Arnold chiama "il segreto di Gesù". Sia l'uno che l'altro ti avrebbero potuto insegnare che ciò che accade al prossimo accade a noi stessi; e se ti serve un motto da leggere all'alba e alla notte, per dolertene e per rallegrartene, scrivi sulla parete della tua casa in lettere che il sole indori e la luna inargenti: "Ciò che accade al prossimo accade a noi stessi"; e se qualcuno ti domanderà il significato di questa iscrizione, puoi rispondere che significa "il cuore di Cristo
Signore e la mente di Shakespeare". Il posto di Cristo è infatti tra i poeti. Tutto il suo concetto dell'umanità balzò dalla sua immaginazione, e soltanto per mezzo dell'immaginazione può essere concepito. Ciò che Dio era per i Panteisti, l'uomo era per lui. Egli fu il primo a concepire le razze divise come
un'unità. Prima del suo tempo vi erano stati uomini e dèi. Lui solo vide che a un livello superiore di realtà non c'è che Dio e Uomo, e sentendoli entrambi incarnati in sé col misticismo dell'amore, chiama se stesso Figlio dell'Uno e figlio dell'altro, a seconda dell'ispirazione del momento. più di chiunque altro in tutto il corso della storia, egli ridesta in noi quella inclinazione al meraviglioso che è sempre attratta dalla poesia. Vi è tuttavia per me
qualche cosa di quasi incredibile nell'idea che un giovane contadino di Galilea abbia immaginato di poter reggere sulle spalle il fardello dell'umanità intera; ciò che era già stato commesso e patito e ciò che era ancora da commettere e da patire; i peccati di Nerone, di Cesare Borgia, di Alessandro VI, e di colui che fu imperatore di Roma e sacerdote del Sole; i patimenti di coloro il cui nome è legione e la cui abitazione è fra i sepolcri; i nazionalismi oppressi, i bimbi sfruttati nelle fabbriche, i ladri, i prigionieri, i reietti, quelli che rimangono muti sotto l'oppressione e il cui silenzio è udito da Dio soltanto; e non solo l'abbia immaginato, ma ne abbia fatto una realtà, così che oggi chiunque venga in contatto con la sua personalità, anche se non si inchina ai suoi altari né piega il ginocchio davanti ai suoi sacerdoti, trova tuttavia che in qualche modo la macchia dei propri peccati è cancellata e gli è rivelata in cambio la bellezza del proprio dolore. Ho detto di lui che il suo posto è tra i poeti. È vero. Shelley e Sofocle appartengono alla sua schiera. Ma la sua vita stessa è il più stupendo dei poemi. Quanto a "pietà e terrore"' non esiste nulla che vi si avvicini nel'intero ciclo della tragedia Greca. L'assoluta purezza del protagonista eleva tutto il disegno della sua tragedia a un'altezza d'arte romantica da cui le disgrazie della stirpe di Pelope e di Tebe sono escluse per il loro orrore stesso, e dimostra come Aristotele sia lontano dal vero quando dice, nel suo trattato sul teatro, che sarebbe impossibile sopportare la vista di un innocente tormentato. E neppure in Eschilo o in Dante, severi maestri di dolcezza, né in Shakespeare, il più genuinamente umano dei grandi artisti, in tutto l'arco della mitologia celtica nella quale la bellezza del mondo si mostra attraverso una nebbia di lacrime e la vita di un uomo non è niente di più della vita di un fiore, vi è nulla che per pura semplicità di pathos, fusa e accoppiata con una sublimità di effetto tragico, possa uguagliare l'ultimo atto della passione di Cristo, o anche solo avvicinarvisi. La parca cena con gli amici, uno dei quali l'ha già venduto per danaro; l'agonia nell'uliveto silenzioso illuminato dalla luna; il falso amico che gli si accosta per tradirlo con un bacio; l'amico fino allora fedele sul quale, come su una roccia, egli aveva sperato di costruire una casa di rifugio per l'umanità, che lo rinnega mentre il canto del gallo annuncia l'alba vicina; la sua completa solitudine, la sua sottomissione, il
suo consenso totale; e insieme a tutto ciò, scene come quella in cui il gran sacerdote dell'Ortodossia si strappa le vesti per lo sdegno e il magistrato della giustizia civile chiede acqua nella vana speranza di lavarsi da quella macchia di sangue innocente che fa di lui la figura scarlatta della Storia; la cerimonia di incoronazione del Dolore, una delle scene più stupende nell'intero corso del tempo; la crocifissione dell'Innocente davanti agli occhi di sua
madre e del discepolo che amava; i soldati che gettano i dadi per tirare a sorte le sue vesti; la morte atroce per mezzo della quale egli diede al mondo il suo simbolo più duraturo; e infine il seppellimento nella tomba del ricco, avvolto di lini egiziani, con spezie rare e profumi come un figlio di re - quando si contempli tutto ciò anche solo dal punto di vista dell'Arte, non si può non essere grati del fatto che il supremo ufficio della Chiesa consista proprio nella
rappresentazione di questa tragedia, tolto lo spargimento di sangue; nella esposizione mistica della Passione del Signore per mezzo del dialogo e dei gesti e del costume; ed è sempre per me causa di piacere e di stupore ricordare che l'estrema sopravvivenza del Coro Greco, perduto altrimenti nell'arte, può trovarsi nel chierico che risponde al sacerdote nella Messa.
Pure, l'intera vita di Cristo - cosa totalmente Dolore e Bellezza possono fondersi nel significato e nelle manifestazioni - è in realtà un idillio, benché termini con il laceramento del velario del tempio e l'oscurità scesa sulla faccia della terra e il sepolcro chiuso dalla pietra. Si immagina sempre il Cristo come un giovane sposo con i suoi compagni, come del resto egli stesso si descrive in alcuni passi, o come un pastore che passi nella valle con le sue pecore, in
cerca di prati verdi o di freschi ruscelli; o come un aedo che voglia innalzare col canto le mura della città di Dio, o un amante per il cui amore il mondo intero sia stato troppo piccolo. I suoi miracoli mi appaiono squisiti come l'arrivo della primavera, e altrettanto naturali. Non provo alcuna difficoltà a credere che l'incanto della sua personalità fosse tale da dar la pace alle anime tormentate con la sua sola presenza; che coloro i quali toccavano le sue vesti o le sue mani dimenticassero il loro dolore; o che mentre passava per la via la gente che non aveva mai visto nulla dei misteri della vita d'un tratto li vedesse distintamente, e altri che erano stati sordi a ogni voce fuorché a quella del piacere udissero per la prima volta la voce dell'amore e la trovassero "melodiosa come il liuto d'Apollo"; o che le cattive passioni
fuggissero al suo avvicinarsi, e uomini la cui vita sorda e vuota di immaginazione era stata una forma di morte, si levassero per cosi dire dalla tomba alla sua chiamata; o che quando insegnava sulla montagna la moltitudine dimenticasse la fame e la sete e le cure di questo mondo, e che ai suoi amici che lo ascoltavano seduti a tavola con lui il rozzo cibo sembrasse
raffinato e l'acqua avesse il sapore di ottimo vino, e la casa intera profumasse della dolcezza del nardo. Renan nella sua Vie de Jésus - quel dolce quinto Vangelo, che si potrebbe intitolare il Vangelo secondo san Tommaso - dice che la grande conquista di Cristo fu di riuscire a farsi amare dopo la morte quanto era stato amato in vita. E davvero, se il suo posto è tra i poeti, egli è il
principe di tutti gli innamorati. Egli vide che l'amore era quel segreto che il mondo ha perduto e di cui i sapienti erano alla ricerca; e che solo grazie all'amore possiamo accostarci al cuore del lebbroso o ai piedi del trono di Dio.
E, soprattutto, Cristo è il supremo individualista. L'umiltà, come l'accettazione di ogni esperienza da parte dell'artista, non è che una forma del suo manifestarsi. E' l'anima dell'uomo che Cristo cerca. Egli chiama il Regno di Dio - .... - e la trova in ognuno. La paragona a piccole cose, a un seme minuscolo, a un pugno di lievito, a una perla. Questo, perché la realizzazione completa della nostra anima è possibile soltanto se ci si libera di ogni passione
estranea, di tutta la cultura acquisita, e di ogni possesso, buono o cattivo che sia. Io sopportai ogni cosa con volontà tenace, anche se la mia natura spesso vi si ribellava, finché non mi restò altro al mondo all'infuori di Cyril. Avevo perduto nome, posizione, felicità, libertà, ricchezza, ero un carcerato e un pezzente. Ma mi rimaneva ancora questo bene meraviglioso: il mio figliolo maggiore. D'improvviso la legge me lo tolse. Fu un colpo cosi spaventoso per me, che non seppi reagirvi: cosi mi buttai in ginocchio, e chinai il capo, e
piansi, e dissi: "Il corpo di un bimbo è come il corpo di Dio: non sono degno né dell'uno né dell'altro". Quel momento fu la mia salvezza. Vidi allora che la sola cosa da fare era di accettare ogni cosa. Da allora - per quanto strano possa sembrare - sono stato molto più felice. Ciò che avevo raggiunto, era naturalmente la mia anima nella sua essenza suprema. Per molti versi le ero stato nemico, ma la trovai ad attendermi come un amico. Quando si viene in
contatto con l'anima si diventa semplici come bambini; come ci avrebbe voluti Cristo. È tragico come siano pochi coloro che "posseggono le loro anime" prima di morire. "Niente" dice Emerson "è più raro in un uomo di un atto che sia suo". La maggior parte delle persone non sono se stesse, ma altri. I loro pensieri sono opinioni d'altri; le loro vite, una parodia, le loro passioni, una citazione. Cristo non fu soltanto il supremo individualista, fu anche il primo individualista della storia. Alcuni hanno tentato di fare di lui un semplice filantropo come i terribili filantropi del diciannovesimo secolo, o l'hanno catalogato come un altruista insieme agli ignoranti e ai sentimentali. Ma in realtà egli non era né l'uno né l'altro. Ha naturalmente compassione dei
poveri, di coloro che languono in carcere, degli umili, dei sofferenti: ma più ancora ha compassione dei ricchi, degli epicurei incalliti, di coloro che perdono la loro libertà facendosi schiavi delle cose, o che indossano morbide vesti e vivono nelle case dei re. Ricchezze e Piaceri gli sembravano disgrazie infinitamente peggiori che non la Miseria e il Dolore. Quanto all'altruismo, chi meglio di lui poteva sapere che è la vocazione, non la volontà, che ci determina e che non si può cogliere uva dai rovi, né fichi dai cardi?
Vivere per gli altri come scopo cosciente e definito non era il suo "credo", non era la base del suo credo. Quando egli dice "perdonate ai vostri nemici", non lo dice per i nemici, ma per la salvezza dell'anima nostra: e perché l'Amore è più bello dell'Odio. Nel consigliare al giovane ricco di vendere tutto ciò, che possiede e darlo ai poveri, non è alla condizione dei poveri che pensa, bensì all'anima del giovane, quell'anima che le ricchezze stanno contaminando. Egli
vede la vita da artista che sa come, in virtù dell'inevitabile legge dell'autoperfezionamento, il poeta debba cantare, lo scultore pensare col bronzo, e il pittore fare del mondo lo specchio dei suoi stati d'animo: allo stesso modo come il biancospino deve fiorire a primavera, il grano
farsi d'oro al tempo della mietitura, e la luna, nel suo peregrinare ordinario, mutarsi da scudo in falce e da falce in scudo. Ma, mentre Cristo non diceva agli uomini "Vivete per gli altri", egli insegnava loro che non vi era differenza alcuna tra la vita degli altri e la propria. In tal modo egli dava all'uomo una
personalità estesa, da Titano. Dalla venuta di Cristo la storia di ogni singolo individuo è - o può venir considerata - come la storia dell'umanità. Naturalmente, la Cultura ha incrementato la personalità dell'uomo: l'Arte ci ha dato una mente molteplice. Quelli che sono dotati di temperamento artistico vanno in esilio con Dante e imparano quanto sappia di sale il pane altrui, e quanto siano amare le altrui scale; essi assumono per un momento la calma serenità di Goethe, ma sanno anche troppo bene perché Baudelaire gridasse a Dio: O Seigneur, donnez-moi la torce et le courage de contempler mon corps et mon coeur sans dégout. Dai sonetti di Shakespeare essi imparano - forse a loro danno - il segreto del suo amore, e se ne impadroniscono: guardano con occhi nuovi alla vita moderna perché hanno ascoltato un notturno di Chopin o toccato cose di Grecia, o letto la storia dell'amore di un qualche uomo
morto per una qualche donna morta, i cui capelli erano come fili d'oro puro e la bocca simile a un melograno. Ma un temperamento artistico è naturalmente attratto da ciò che ha trovato la propria espressione. Con le parole o col colore, in musica come nel marmo, dietro le maschere dipinte di una tragedia di Eschilo o attraverso i giunchi forati ed intrecciati di un qualche pastore siciliano, deve rivelarsi l'uomo e il suo messaggio. Per l'artista, il solo modo di concepire la vita è l'espressione. Per lui, tutto ciò che è muto è morto. Ma per Cristo non era così. Con una vastità e una potenza di immaginazione che ci
riempie quasi di sgomento, egli fece il suo regno di tutto il mondo inarticolato, del muto mondo del dolore: e di se stesso fece il suo portavoce. Scelse per fratelli coloro di cui ho detto, coloro che sono muti sotto l'oppressione e "il cui silenzio è udito da Dio soltanto". Egli volle farsi occhi per il cieco, orecchie per il sordo, voce per le labbra di coloro cui era stata
legata la lingua. Per le miriadi che non avevano trovato espressione egli volle essere la tromba stessa con cui potessero gridare al Cielo. E poiché la sua era la natura artistica di colui per il quale Sofferenza e Dolore sono manifestazioni che gli consentono di esprimere il suo concetto del Bello, e sapeva che un'idea non ha valore finché non s'incarna e non si fa immagine, egli fece di se stesso l'immagine dell'Uomo dei Dolori; e come tale affascinò e influenzò l'Arte, come nessun dio greco era mai riuscito a fare. Perché gli dèi greci, malgrado il bianco e il rosa delle loro belle, agili membra, non erano in realtà quel che si davan l'aria di essere. La fronte convessa d'Apollo era come il disco del sole
che spunta all'alba dietro una collina, e i suoi piedi, come le ali del mattino: ma in realtà, egli era stato crudele con Marsia, e aveva privato Niobe dei suoi figli. Negli scudi d'acciaio che erano gli occhi di Minerva non c'era stata pietà per Aracne: la pompa e i pavoni di Giunone erano la sua sola nobiltà; e quanto al padre degli dèi, egli amava troppo le figlie degli uomini. Le due figure più profondamente suggestive della mitologia greca furono, per la religione, Demetra, dea della terra, non dell'Olimpo; e per le arti, Dionisio, figlio d'una donna mortale che mori nel darlo alla luce. Ma la vita stessa, nella sua sfera più umile e modesta, produsse qualcosa di più meraviglioso che non la madre di Proserpina o il figlio di Semele. Dalla bottega del falegname di Nazareth venne una personalità infinitamente più grande di quante fossero mai state create dal mito o dalla leggenda: e destinata, strano a dirsi, a rivelare al mondo il significato mistico del vino e la vera bellezza dei gigli del campo come nessuno, né sull'Etna né sul Citerone, aveva ancora fatto.
Il lamento d'Isaia: "Egli è disprezzato e reietto fra gli uomini, uomo di dolore, che ha conosciuto il dolore; e noi nasconderemo da lui le nostre facce" gli era sembrata una prefigurazione di se stesso: e la profezia si avverò in lui. Una simile frase non deve spaventarci. Ogni opera d'arte è l'avverarsi di una profezia. Ogni singolo essere umano dovrebbe essere la realizzazione di una profezia: perché ogni essere umano dovrebbe essere la realizzazione di un qualche ideale, sia esso nella mente di Dio che nella mente dell'uomo. Cristo ne fissò l'archetipo: e il sogno d'un poeta virgiliano, a Gerusalemme come a Babilonia, s'è incarnato durante il cammino dei secoli in Colui che il mondo aspettava. "Il suo sembiante era troppo sfigurato per un uomo, e la sua persona troppo diversa da quella dei figli dell'uomo": questi, i segni citati da Isaia per riconoscere il nuovo ideale: e non appena l'Arte ebbe compreso ciò che significava, eccola dischiudersi come un fiore alla presenza di colui nel quale il vero in Arte si era personificato come mai per il passato. Non è forse il vero in Arte, come ho detto, "ciò che fa dell'esteriore l'espressione dell'interiore; in cui l'anima è fatta carne; e il corpo è spirito e istinto; in cui la Forma si è rivelata"? Una delle cose che deploro maggiormente nella storia è che al vero rinascimento di Cristo, che produsse la cattedrale di Chartres, il ciclo di leggende di Re Artù, la vita di San Francesco d'Assisi, l'arte di Giotto e la Divina Commedia, non fosse concesso di svilupparsi con le sue proprie forze, ma venisse interrotto e guastato dal triste Rinascimento classico che
ci diede il Petrarca, gli affreschi di Raffaello, l'architettura palladiana, la tragedia francese formale, la cattedrale di San Paolo e la poesia di Pope; e tutto ciò che è fatto dal di fuori e con regole morte, e che non sgorga dal di dentro per mezzo d'un qualche soffio ispiratore. Ma ovunque si produca un movimento romantico in arte, lì, in qualche modo, e sotto una qualche
forma, è Cristo, o l'anima di Cristo. Egli è in Romeo e Giulietta, nel Racconto d'inverno, nella poesia provenzale, nella Ballata del vecchio marinaio, nella Belle Dame sans Merci, e nella Ballata della carità di Chatterton. Gli dobbiamo le cose e le persone più diverse. i miserabili di Hugo, i Fiori del male di
Baudelaire, la nota di pietà nei romanzi russi; i vetri istoriati e gli arazzi e i lavori quattrocenteschi di Burne-Jones e di Morris, Verlaine e le poesie di Verlaine gli appartengono, non meno del Campanile di Giotto, di Lancillotto e di Ginevra, del Tannhduser, dei tormentati marmi romantici di Michelangelo, dell'architettura gotica e dell'amore per i bimbi e per i fiori - a entrambi i quali, in effetti, l'arte classica accorda ben poco spazio: quel tanto che basta a farli crescere e giocare; e tuttavia, dal dodicesimo secolo in avanti essi non hanno cessato di fare la loro apparizione in arte sotto varie forme e in tempi
diversi, spuntando capricciosamente qua e là come fanno appunto fiori e bambini; e la primavera dà sempre l'idea che i fiori si siano nascosti e siano sbucati improvvisamente alla luce del sole per paura che gli adulti, stanchi di cercarli, vi abbiano rinunziato; mentre la vita di un bimbo non è altro che un giorno d'aprile in cui per i narcisi si alternino pioggia e sole. È il carattere immaginativo della natura di Cristo a fare di lui il cuore palpitante del
romanticismo. Gli strani personaggi del dramma poetico e della ballata sono creati dall'immaginazione di qualcuno: ma Gesù di Nazareth ha creato se stesso unicamente dalla propria immaginazione. Il lamento d'Isaia non aveva, in fondo, a che fare con la sua venuta più che il canto dell'usignolo non abbia a che fare col sorgere della luna: non di più, sebbene forse non di meno. Egli era insieme la negazione e la conferma della profezia. Per ogni aspettativa che egli realizzava, un'altra veniva distrutta. "In ogni forma di bellezza" dice
Bacone "vi è qualche anomalia di proporzione"; e di chiunque nasca dallo spirito, di chiunque, cioè, sia, come lui, forza dinamica, Cristo dice che è come il vento, che "soffia dove vuole, e nessuno può dire di dove venga o dove vada". Questa è la ragione del suo fascino sugli artisti. In lui è tutto il colore della vita: il mistero, la singolarità, la suggestività, l'estasi, l'amore. Egli attrae l'indole immaginativa, e crea lo stato d'animo adatto, attraverso il
quale soltanto può essere compreso. Ed è una gioia per me ricordare che, se egli è "intessuto di immaginazione", anche il mondo dev'essere fatto della medesima sostanza. Dissi in Dorian Gray che i grandi peccati vengono
consumati nel cervello; ma tutto avviene nel cervello. Noi sappiamo, ora, che non vediamo con gli occhi né udiamo con le orecchie. Questi non sono che veicoli, più o meno adeguati, che trasmettono le impressioni dei sensi. E nel cervello che il papavero è rosso; che la mela ha profumo; che l'allodola canta.
Da qualche tempo studio con diligenza i quattro poemi in prosa che riguardano il Cristo. A Natale sono riuscito a procurarmi una versione greca del Nuovo Testamento, e tutte le mattine, dopo aver pulito la mia cella e lustrato i miei pentolini, leggo qualche passo dei Vangeli, una dozzina di versetti presi a caso. E una maniera deliziosa di cominciare la giornata. Sarebbe un'ottima cosa se tu, nel mezzo della tua vita turbolenta e disordinata, facessi lo stesso. Ti farebbe un mondo di bene, e il greco è facilissimo. La ripetizione
incessante che ne vien fatta nel corso dell'anno, ha sciupato per noi la naiveté, la freschezza, l'incanto semplice e romantico dei Vangeli. Essi ci vengono letti troppo spesso e troppo male, e ogni forma di ripetizione è contraria allo spirito. Tornare al testo greco, è come entrare in un
giardino di gigli uscendo da una casa stretta e buia. Per me, poi, il piacere è raddoppiato dal pensiero che con tutta probabilità adoperiamo le stesse parole, gli ipsissima verba adoperati da Cristo. Si è sempre creduto che Cristo parlasse in aramaico, anche Renan lo credèva. Ma ora sappiamo che i contadini della Galilea, come i contadini irlandesi dei nostri giorni, erano bilingui, e che il greco era il linguaggio comunemente usato in Palestina, come del resto in tutto l'Oriente. Mi è sempre dispiaciuta l'idea che conoscessimo la parola di Cristo attraverso la traduzione di una traduzione. Mi piace invece pensare che, almeno per quanto riguarda la sua conversazione, Carmide avrebbe potuto ascoltarla, Socrate ragionare con lui, e Platone capirlo; che egli avesse detto realmente; che quando pensava ai gigli del campo, e a come essi non si affatichino né filino si esprimesse così e che la sua ultima parola, quando gridò "tutto è compiuto", fosse esattamente quella che ci dà San Giovanni, e nulla di più. Leggendo i Vangeli - e in particolare quello di San Giovanni, o del qualunque gnostico che abbia preso il suo nome e il suo mantello - vedo che l'immaginazione viene presentata come la base della vita spirituale e materiale; vedo anche che per Cristo l'immaginazione era
semplicemente una forma d'amore, e che per lui, l'amore era sovrano nel senso più esteso della parola. Circa sei settimane fa il medico mi diede il permesso di mangiare pane bianco invece del rozzo pane nero o bigio che passa il carcere. È una gran leccornia. Può sembrar strano che del pane secco possa apparirmi una leccornia. Per me lo è, al punto che alla fine di
ogni pasto mangio con cura tutte le briciole che restano sul mio piatto di stagno, o che sono cadute sul rozzo strofinaccio che adopero come tovaglia per non insudiciare il tavolo; e faccio questo non per farne - ho cibo a sufficienza - ma semplicemente perché niente di ciò che mi danno vada sprecato. Allo stesso modo andrebbe considerato l'amore. Cristo, come tutte le personalità dotate di fascino, aveva il potere non solo di dire lui delle
cose belle, ma di farle dire dagli altri. E amo la storia che ci racconta San Marco della donna greca - la ...............- alla quale, quando egli, per provare la sua fede, disse di non poterle dare il cibo dei figli d'Israele, rispose che i cagnolini - ............... cagnolini: cosa andrebbe detto - chi sono sotto la tavola del padrone, mangiano le briciole lasciate cadere dai bambini. La
maggior parte della gente vive avendo come fine l'amore e l'ammirazione; ma è per mezzo dell'amore e dell'ammirazione che dovremmo vivere. Se la sostanza di un amore ci venisse rivelata, dovremmo riconoscere di non esserne degni. Nessuno è degno di essere amato. Il fatto che Dio ami l'uomo ci dimostra che nell'ordine divino delle cose ideali è scritto che amore eterno verrà dato a chi ne è eternamente indegno. O, se questa frase può sembrarti
troppo amara, diciamo che tutti gli uomini sono degni d'amore, fuorché coloro che credono di esserlo. L'amore è un sacramento che andrebbe ricevuto in ginocchio, con Domine non sum dignus sulle labbra e sul cuore di chi lo riceve. Vorrei che tu pensassi a questo, ogni tanto: ti farebbe un gran bene. Se mai scriverò di nuovo, nel senso di produrre del lavoro artistico, vi sono due soggetti nei quali, e per mezzo dei quali, vorrei esprimermi: uno è "Cristo come precursore del movimento romantico nella vita"; l'altro "La vita artistica in relazione alla condotta". Il primo, naturalmente, è estremamente affascinante, perché vedo nel Cristo non solo il principio essenziale del tipo romantico supremo, ma tutti gli 'accidenti, la volubilità persino, del temperamento romantico. Egli fu il primo a dire alla gente di vivere "come i fiori"; e l'espressione rimase. Fece dei bimbi l'esempio di ciò che l'uomo dovrebbe cercare di diventare. Li additò come esempio agli adulti: e anch'io ho sempre pensato che questa doveva essere la funzione dei bambini, ammesso che ciò che è perfetto abbia una funzione. Dante ci descrive l'anima uscita dalle mani di Dio "piangendo e ridendo come un bambino"; e anche per Cristo l'anima di ciascuno di noi doveva essere "a guisa di fanciulla che piangendo e
ridendo pargoleggia". Egli sentiva che la vita era mutevole, fluida, attiva, e che costringerla ad urna forma stereotipata equivaleva a farla morire. Egli capiva che l'uomo non deve prendere troppo sul serio i volgari interessi materiali: che il distacco dalle cose pratiche era una bella cosa: e che non bisognava darsi troppo pensiero degli affari. "Non lo fanno gli uccelli, perché dovrebbe farlo l'uomo?". E' delizioso quando dice "Non datevi pensiero del
domani: non è forse l'anima più importante del cibo? e non è forse il corpo più importante dei vestiti?" Un greco forse avrebbe potuto adoperare quest'ultima frase: è piena di sentimento greco. Ma Cristo solo poteva dirle entrambe, e riassumere la vita per noi in modo tanto perfetto. La sua moralità era tutta comprensione partecipe, esattamente ciò che la vera moralità dovrebbe essere. Non avesse detto altro fuorché "I suoi peccati le saranno rimessi perché molto ha amato", valeva la pena di morire per aver detto questo. La sua giustizia era una giustizia poetica, esattamente ciò che dovrebbe essere la giustizia. Il mendicante va in paradiso perché ha sofferto: non posso trovare una ragione migliore. Gli operai che lavorarono per un'ora nella vigna, nel fresco della sera, ricevono la stessa retribuzione di quelli che vi hanno lavorato tutto il giorno sotto il sole cocente. Perché no? Probabilmente
nessuno meritava di essere retribuito. O forse erano gente diversa. Cristo non aveva indulgenza per í sistemi meccanici, inanimati e tristi, che trattano le persone alla stregua di cose, e quindi finiscono per trattare tutti allo stesso modo: per luí non esistevano leggi; c'erano solo eccezioni; come se nessun uomo, anzi a dire il vero, nessuna cosa, avesse al mondo chi gli rassomigliasse. Questa, che è la chiave di volta dell'arte romantica, per lui era
la base stessa della vita naturale. Non ne concepiva altra. E quando gli portarono una donna colta in flagrante adulterio, e gli mostrarono la sua condanna scritta nella Legge, chiedendogli cosa dovessero fare, egli scrisse col dito per terra come se non li avesse uditi, e disse: "Chi di voi non ha peccato scagli la prima pietra". Valeva la pena di vivere per aver detto questo.
Come tutte le nature poetiche, egli amava gli ignoranti. Sapeva che nell'anima di un ignorante c'è sempre posto per una grande idea. Ma non sopportava gli stupidi, specialmente quelli che sono diventati stupidi attraverso l'educazione: quelli che sono pieni d'opinioni d'accatto delle quali non capiscono niente: tipo, questo, stranamente moderno, che Cristo riassume descrivendolo come colui che ha la chiave del sapere, non sa usarla e non permette che altri ne usino, ancorché essa sia fatta per aprire le porte del Paradiso. Si può dire che la battaglia più acerrima, egli la combattè contro i filistei. Il filisteismo era la caratteristica dell'epoca e della comunità in cui Cristo viveva. Nella loro tetra inaccessibilità alle idee, nella loro opaca rispettabilità, nella loro tediosa ortodossia, nel loro culto per il volgare successo, nel loro preoccuparsi esclusivamente del lato grossolanamente materialistico della vita e nella loro
ridicola stima di se stessi e della propria importanza, i giudei di Gerusalemme al tempo di Cristo erano l'esatta contropartita del filisteo britannico del nostro tempo. Cristo scherniva i "sepolcri imbiancati" della rispettabilità, e l'espressione rimase. Egli aveva il più assoluto disprezzo per il successo mondano: esso non gli diceva niente. Per lui la ricchezza era d'impedimento all'uomo. Egli non concepiva che la vita potesse venir sacrificata a un sistema
di pensiero o di morale. Disse che il formalismo e le cerimonie eran fatte per l'uomo, non l'uomo per le cerimonie e il formalismo. Citava il culto del sabato come esempio di ciò che non andava fatto. La fredda filantropia, la carità ostentata in pubblico, i tediosi formalismi tanto cari alla mentalità della media borghesia, tutto questo egli denunciò con un disprezzo totale e spietato. Per noi, ciò che si dice ortodossia è solo acquiescenza passiva e priva di intelligenza: ma per costoro, nelle loro mani, era una tirannia terribile e paralizzante. Cristo la spazzò via. Disse che solo lo spirito aveva valore. Provò un acuto piacere nel mostrar loro che, per attenti che fossero nel leggere la Legge ed i profeti, non avevano la minima idea circa il loro significato. Si oppose al loro modo di spezzettare ogni singola giornata in un
orario prestabilito di doveri come si fa con la menta o con la ruta, predicando l'enorme importanza di vivere momento per momento. Quelli che volle salvi dal peccato, furono salvi solo per i bei momenti della loro vita. Maria
Maddalena, quando vede Cristo, rompe il ricco vaso d'alabastro donatole da uno dei suoi sette amanti, e versa l'unguento profumato sopra i suoi piedi stanchi e imbrattati di polvere: e in virtù di quel momento ella siede per sempre con Ruth e con Beatrice fra i petali della nivea Rosa del Paradiso.
Cristo ci insegna che ogni nostro momento deve esser bello: che l'anima deve esser sempre pronta per la venuta dello sposo, sempre in attesa della voce dell'amato; e che il filisteismo è solo un lato della natura umana non illuminato dalla luce dell'immaginazione. Per lui, ogni buona influenza della vita è una forma di Luce: la stessa immaginazione è il regno della luce, ..................... il mondo è fatto di questo, ma non lo sa, e non lo sa perché
l'immaginazione è pura manifestazione d'Amore, e ciò che distingue un essere umano dall'altro è l'amore, la capacità d'amare. Ma nel trattare coi Peccatori Cristo è più romantico, nel senso di ancora più vero. Il mondo ha sempre amato i santi in quanto più vicini alla perfezione divina. Cristo, grazie all'istinto divino che era in lui, ha amato il peccatore in quanto più vicino alla perfezione umana. Il suo desiderio primario non era né di convertire la gente, né di alleviarne le sofferenze. Non mirava a trasformare un ladro interessante in un galantuomo noioso, non avrebbe avuto molta simpatia per la Società di Soccorso ai Carcerati o per altre moderne imprese consimili. La conversione di un pubblicano in un fariseo non doveva sembrargli un'impresa di gran conto.
Ma in una maniera che il mondo ancora non comprende, egli considerava il peccato e la sofferenza come cose belle e sante in se stesse, e come forme di perfezione. Sembra un'idea molto pericolosa. Lo è: tutte le grandi idee sono pericolose. Ma che fosse il "credo" di Cristo, su questo non esistono dubbi. Che sia la vera dottrina, su questo nemmeno io ho dubbi. Naturalmente, il peccatore deve pentirsi. Perché? Perché altrimenti egli non sarebbe capace di
comprendere ciò che ha fatto. Il momento del pentimento è il momento dell'iniziazione. Non solo: è il mezzo col quale ci è dato di trasformare il nostro passato. I greci non credevano che ciò fosse possibile. Dicono spesso nei loro aforismi gnomici: "Nemmeno gli dèi possono disfare il passato". Cristo ci dimostra come il peccatore più comune sia invece in grado di farlo: come sia la sola cosa che è in grado di fare. Sono certo che se gliel'avessero chiesto,
Cristo avrebbe risposto che il momento in cui il Figliol Prodigo cadde in ginocchio e pianse, egli trasformò l'aver sperperato le sue sostanze con donne di malaffare, fatto il guardiano di porci ed essersi nutrito delle stesse ghiande mangiate dai suoi porci, nei momenti più belli e sacri della sua vita. A molta gente riesce difficile comprendere questo. Forse si deve finire in carcere per comprenderlo. In questo caso, forse vale la pena di finire in carcere. C'è qualcosa di così unico nel Cristo. Naturalmente, così come ci sono false aurore prima dell'aurora vera, e giorni d'inverno pieni di un sole cosi sfolgorante da ingannare il saggio colchico e fargli effondere il suo oro innanzi tempo e da indurre qualche sciocco uccello a dire alla propria compagna di approntare il nido sui rami spogli; così vi furono dei cristiani prima di Cristo. Bisogna essere grati di questo. Purtroppo, dopo di lui non ve ne furono altri. Faccio un'eccezione per San Francesco d'Assisi. Ma a lui Dio aveva dato, nascendo, l'anima di un poeta, e ancora giovanissimo, egli si era unito in mistico matrimonio con la povertà; e con l'anima di un poeta ed il corpo di un mendicante, il cammino della perfezione non gli fu difficile. Egli comprendeva Cristo, e si fece simile a lui. Non è necessario il Liber Conformitatum per insegnarci che la vita di San Francesco era la vera Imitatio Christi: un
poema di fronte al quale questo libro non è che prosa. Questo, a conti fatti è l'incanto di Cristo: l'essere lui stesso un'opera d'arte. Egli non insegna niente a nessuno: ma basta essere condotti in sua presenza per diventare qualcuno. E alla sua presenza, ognuno è predestinato. Almeno una volta nella vita ognuno di noi incontra Cristo a Emmaus. Quanto all'altro argomento, la vita artistica in relazione alla condotta, ti sembrerà certo strano che io l'abbia scelto. La gente addita il carcere di Reading e Di Fra Bartolomeo da Pisa: opera che metteva a confronto la vita di Cristo con quella di San Francesco. Dice: "Ecco dove conduce la vita artistica". Ebbene, potrebbe condurre in luoghi peggiori. La gente meccanica, quella per cui la vita è un'astuta speculazione basata su un attento calcolo di vie e di mezzi, sa sempre dove sta andando: e ci và. Parte con l'idea di diventare mazziere della parrocchia, e
in qualunque ambiente venga a trovarsi, riuscirà a diventare mazziere della parrocchia e nulla più. Colui che desidera essere qualcosa di diverso da quello che è, diventare un membro del Parlamento, o un droghiere arricchito, o un avvocato di grido, o un giudice, o qualcosa di altrettanto noioso, riesce immancabilmente a diventare quello che vuole. È il suo castigo. Chi vuole una maschera è costretto a portarla. Ma con le forze dinamiche della vita, e con coloro in cui quelle forze s'incarnano, è diverso. Coloro che ambiscono soltanto a realizzare se stessi non sanno mai dove stiano andando. Non possono saperlo. Si capisce che in un certo senso, conoscere se stessi, come diceva l'oracolo greco, è necessario: è anzi il primo passo del Sapere. Ma riconoscere che l'animo umano è inconoscibile, questo è il risultato supremo della sapienza. Il mistero finale risiede in noi. Quando si sia pesato il sole sulla bilancia, misurata la distanza dalla luna e disegnata stella per stella la pianta dei sette cieli, resta ancora da esplorare se stessi. Chi può calcolare l'orbita
della propria anima? Quando il figlio di Kish si mise a cercare gli asini del padre, non sapeva che un inviato di Dio lo stava aspettando con il crisma dell'incoronazione, e che la sua anima era già l'Anima di un re. Spero di vivere abbastanza a lungo per produrre un'opera di natura tale da farmi dire, alla fine
dei miei giorni: "Si, ecco dove può condurre la vita artistica". Due fra le vite più perfette di cui sono venuto a conoscenza sono le vite di Verlaine e del principe Kropotkin: uomini entrambi che passarono anni in prigione: il primo, l'unico poeta cristiano dopo Dante, l'altro, un uomo con l'animo di quel bel Cristo bianco che sembra pervenirci dalla Russia. E in questi ultimi sette o otto mesi, malgrado la serie di grossi guai che quasi ininterrottamente mi
vengono dal mondo esterno, mi sono trovato in diretto contatto col nuovo spirito che opera in questo carcere attraverso gli uomini e le cose, spirito che mi ha aiutato più di quanto non valgano a esprimerlo le mie parole: per cui, mentre durante il primo anno di prigionia non facevo altro - né ricordo d'aver fatto altro - che torcermi le mani, impotente e disperato, dicendo: "Che fine! che fine spaventosa!", ora tento di dirmi - e a volte, quando non mi sto
torturando, arrivo a dirmelo sinceramente -: "Quale principio! quale meraviglioso principio!". Può esserlo realmente. Può diventarlo. In questo caso, dovrò molto alla nuova personalità che ha trasformato l'esistenza di tutti in questo luogo. Le cose di per sé hanno poca importanza; anzi - e per una volta ringraziamo la Metafisica per averci insegnato qualcosa - non hanno nemmeno un'esistenza reale. Lo spirito solo conta. Un castigo può venir inflitto in modo tale non da ferire, ma da guarire: cosi come un'elemosina
può venir fatta in modo da trasformare il pane in un sasso nelle mani di chi la dà. E quale cambiamento sia avvenuto - non nel regolamento, perché questo è improntato a regole di ferro, - ma nello spirito con cui il regolamento viene applicato, lo capirai quando ti dico che, se fossi stato rilasciato lo scorso maggio, come avevo sperato di essere, avrei lasciato questo luogo detestandolo, e con esso detestando ogni suo funzionario, con una tale amarezza d'odio, da avvelenarmi la vita. Ho fatto un anno di galera in più, ma nel nostro carcere ha albergato un tale senso d'Umanità, che quando uscirò di qui ricorderò sempre le grandi gentilezze che ho ricevuto si può dire da tutti, e il giorno del mio rilascio dovrò ringraziare molte persone, e chiedere a molte altre di ricordarmi, come io mi ricorderò di loro. Il metodo della prigione è assolutamente e totalmente sbagliato. Non so cosa darei per poterlo cambiare quando uscirò di qui. Ma non vi è niente di così sbagliato che questo spirito
d'Umanità - che è lo spirito dell'Amore, lo spirito del Cristo che non si trova nelle chiese - non renda, non dico giusto, ma per lo meno tale da potersi sopportare senza troppa amarezza. So anche che fuori di qui mi aspettano molte cose deliziose, da quel che San Francesco d'Assisi chiama "frate vento" e "sorella pioggia" - incantevoli entrambi - alle vetrine dei negozi e ai tramonti nelle grandi città. Se facessi un elenco di queste cose, non so dove
finirei: perché davvero, Dio ha fatto il mondo non tanto per me, come per chiunque altro. Forse quando uscirò di qui possederò qualcosa che non avevo prima. Inutile dirti che per me le Riforme Morali sono altrettanto volgari e insignificanti delle Riforme Teologiche. Ma mentre il proponimento di diventare un uomo migliore è un atto empirico e ipocrita, diventare un uomo più profondo è il privilegio di chi ha sofferto; e tale credo sia il mio caso. Puoi
giudicare tu stesso. Se quando uscirò di qui un amico darà una festa e non mi inviterà, non vi troverò a ridire. Posso essere perfettamente felice solo con me stesso. Chi non sarebbe felice trovandosi libero, con dei libri, dei fiori, e la luna? D'altra parte, le feste non sono più cose per me. Ne ho date troppe per averne ancora voglia. Questo lato della vita è finito per me: per mia fortuna, oserei dire. Ma se, quando sarò uscito di qui, un amico avrà un dispiacere, e non me ne farà parte, ne avrei una profonda amarezza. Se egli mi chiudesse in faccia la porta della sua casa di lutto, io tornerei ancora e ancora supplicando che mi lasciasse entrare, per poter condividere ciò che è mio diritto condividere. Se mi considerasse incapace, e indegno, di piangere con lui, ne proverei un'umiliazione atroce: considererei il suo rifiuto come il modo più terribile di farmi sentire la mia disgrazia. Ma questo non accadrà. Ho diritto alla mia parte di Dolore: e chi guarda alla bellezza del mondo e ne condivide il dolore e comprende la bellezza di entrambi, colui è in contatto immediato con le cose divine e si è avvicinato al segreto di Dio meglio di chiunque altro.
Forse allora entrerà nella mia arte, come già nella mia vita, una nota ancora più profonda, di una maggiore unità di passione e sincerità d'impulso. Il vero scopo dell'Arte moderna non è la vastità, ma l'intensità. In arte, non dobbiamo più occuparci dei tipo, ma della eccezione. Naturalmente non potrò dare alle mie sofferenze la forma che ebbero. L'Arte comincia dove
finisce l'Imitazione. Ma qualcosa s'insinuerà nella mia opera, forse una maggior pienezza d'armonia verbale, o cadenze più ricche, effetti di colore più curiosi, un ordine architettonico più semplice, o comunque, una qualità estetica diversa. Quando Marsia fu strappato "della vagina delle membra sue", per usare una delle frasi di Dante che più lo avvicinano a Tacito, i Greci dissero che non poteva più cantare. Apollo aveva vinto. La lira aveva avuto la meglio sul flauto. Ma forse i Greci sbagliavano. Il canto di Marsia, io lo sento in gran parte dell'Arte moderna. È amaro in Baudelaire, dolce e lamentoso
in Lamartine, mistico in Verlaine. Esso è nelle soluzioni rinviate della musica di Chopin; nello scontento che ricorre, ossessivo, nei visi delle donne di Burne-Jones. Lo stesso Matthew Arnold ce lo fa sentire, benché nel suo canto di Callicle egli celebri "il trionfo della dolce e persuasiva lira" e la "famosa vittoria finale" con una nota di lirismo così bella e così chiara: ce lo fa sentire nell'inquieto murmure di dubbio che persiste nei suoi versi. Né gli furono
d'aiuto Goethe e Wordsworth, benché egli abbia seguito di volta in volta sia l'uno che l'altro; e quando vuole lamentarsi per "Tirsi" o celebrare lo "Zingaro studente", è al flauto che deve ricorrere per dar voce ai suoi accenti. Ma che il fauno frigio fosse o non fosse muto, io non posso esserlo. L'espressione mi è necessaria come la foglia e il fiore ai rami anneriti dell'albero che si affaccia al di sopra del muro del carcere e che si agitano in continuo nel vento. Fra la mia arte e il mondo s'è aperto ora un profondo varco: non così tra l'Arte e me;
almeno, lo spero. A ciascuno di noi è toccato in sorte un diverso destinò. A te sono toccati in sorte libertà, piaceri, divertimenti, una vita di agi; e tu non ne sei degno. A me è toccato un destino di pubblica infamia, una lunga prigionia, e infelicità, rovina, disonore; e di questo, nemmeno io sono degno; non ancora, per lo meno. Ricordo d'aver detto come mi ritenessi capace di
sopportare una tragedia reale purché rivestita del manto di porpora e della maschera di un nobile dolore; ma che l'orrore della modernità stava nel camuffare la Tragedia con le vesti della Commedia, facendo sembrar banali, o grotteschi, o mancanti di stile, le grandi realtà. Questo è verissimo della modernità. Probabilmente è sempre stato vero anche della vita reale. Si dice che tutti i martirii siano sembrati meschini a chi ne è stato spettatore. Il
diciannovesimo secolo non fa eccezione alla regola. Tutto nella mia tragedia è stato orribile, meschino, ripugnante, mancante di stile. I nostri
stessi abiti ci rendono grotteschi. Siamo i buffoni del dolore: i pagliacci dal cuore spezzato. Siamo espressamente designati per essere trasformati in bersagli umoristici. Il 13 novembre 1895 fui condotto da Londra a qui. Dalle due fino alle due e mezzo di quel pomeriggio dovetti restare sul marciapiede centralé della stazione di Clapham Junction vestito da carcerato e con le manette, perché il mondo potesse vedermi. Mi avevano prelevato dall'infermeria senza un minuto di preavviso. Ero quanto di più grottesco si potesse immaginare. Quando la gente mi vedeva si metteva a ridere. Ogni treno in arrivo ingrossava la cerchia degli spettatori. Non c'era per loro divertimento più grande. E questo, naturalmente, quando ancora non sapevano chi fossi. Quando lo seppero, risero ancora di più. Per mezz'ora restai li, sotto la pioggia grigia di novembre, circondato da una folla irridente.
Per un anno, dopo che mi fu fatto questo, piansi ogni giorno, alla stessa ora, e per lo stesso lasso di tempo. Non è una cosa cosi tragica come può apparirti. In prigione le lagrime fanno parte dell'esperienza quotidiana. Un giorno in prigione senza piangere è un giorno in cui si ha il cuore di pietra, non un giorno in cui si ha il cuore felice. Ebbene, ora comincio a provare maggior pietà per coloro che han riso, che non di me stesso. Certo, quando mi videro, non ero sul mio piedistallo; ero alla gogna. Ma solo una natura priva di immaginazione può curarsi della gente sul piedistallo. Un piedistallo può essere qualcosa di molto irreale. Una gogna è una terribile realtà. Inoltre, essi avrebbero dovuto saper meglio interpretare il dolore. Dissi una volta che dietro il Dolore c'è sempre il Dolore. Sarebbe stato più saggio dire che dietro il dolore c'è sempre un'anima. E deridere un'anima è cosa spaventevole; la vita di chi lo fa è senza bellezza. Nell'economia stranamente semplice del mondo, non si riceve che ciò che si dà, e a quelli che non hanno immaginazione
sufficiente per penetrare l'aspetto esteriore delle cose e provarne compassione, quale compassione può venir ricambiata, a loro volta, se non quella del disprezzo? Ti ho raccontato come fui condotto qui, solo perché tu potessi renderti conto di come sia stato difficile per me trarre dal mio castigo qualcosa d'altro che non amarezza e disperazione. Questo, tuttavia, io devo fare; e a volte ho momenti di sottomissione e di accettazione. Tutt'intera la primavera può essere racchiusa in un solo bocciolo, e il nido a fior di terra
dell'allodola può contenere la gioia che annuncerà la venuta di molte aurore rosee e rosse. Allo stesso modo, è probabile che quel poco di bellezza di vita che ancora mi è riservata, sia contenuta in qualche momento di abbandono, di degradazione e di umiltà. Non posso comunque che continuare a perseguire la mia evoluzione, e, con l'accettazione di quanto mi è accaduto, rendermene degno. La gente diceva che ero troppo individualista. Ora devo esserlo ancora di più. Devo cercare di trarre da me stesso molto più di quanto ho fatto per il passato. La mia rovina non dipese tanto dall'essere stato troppo individualista, quanto dall'esserlo stato troppo poco. La sola azione ignobile, imperdonabile, e per sempre deprecabile di tutta la mia vita, fu di lasciarmi
convincere ad appellarmi alla Società perché mi aiutasse e mi proteggesse contro tuo padre. Da un punto di vista individualista, un simile appello, fatto contro chiunque, sarebbe già stato abbastanza grave; ma quale scusa può esservi per averlo fatto contro una persona di tale natura ed aspetto?
Naturalmente, una volta messe in moto le forze della Società, la Società mi si è rivolta contro e ha detto: "Come, hai vissuto finora sfidando le mie leggi, ed ora ti appelli a quelle stesse leggi per essere protetto? Quelle leggi verranno applicate fino in fondo". Come risultato, sono in carcere. Ho sentito amaramente l'ironia e l'ignominia della mia posizione quando, nel corso
dei miei tre processi, e a cominciare dalla corte di Polizia, vedevo tuo padre che entrava e usciva, indaffarato, sperando di attirare su di sé l'attenzione del pubblico: come se fosse possibile non accorgersi, o dimenticarsi, di quel suo modo di camminare e di vestire da stalliere, delle sue gambe arcuate, del tic nervoso delle sue mani, del labbro inferiore pendulo, del suo sogghigno bestiale, quasi idiota. Anche quando egli non era lì, o io non lo vedevo, ero conscio della sua presenza, e le nude, squallide mura dell'aula del tribunale, la stessa aria, mi sembravano popolate di maschere che raffiguravano tutte quella stessa faccia scimmiesca. Certo nessun uomo è mai caduto tanto ignobilmente, e per mezzo di strumenti tanto ignobili, come è successo a me. In non so quale punto di Dorian Gray dico che "non si è mai abbastanza attenti nello scegliersi i propri nemici". Non pensavo che un paria avrebbe
fatto di me un paria. Questo tuo indurmi, questo tuo forzarmi ad appellarmi alla Società perché mi venisse in aiuto, è una delle cose per cui tanto ti disprezzo, e per cui tanto disprezzo me stesso per averti ascoltato. Che tu non mi apprezzassi come artista, è del tutto scusabile: era una questione di
temperamento; tu non potevi farci niente. Ma come Individualista, dovevi apprezzarmi. Per questo, non c'era bisogno di cultura. Ma non lo facesti, e portasti così un elemento di filisteismo in una vita che era stata una protesta continua contro il filisteismo; e sotto certi aspetti era riuscita a eliminarlo. L'elemento filisteo nella vita non è l'incapacità di comprendere l'Arte. Esseri deliziosi come pescatori, pastori, contadini, garzoni di stalla e consimili, non capiscono niente in fatto d'Arte, eppure sono il sale della terra. Il filisteo è
colui il quale sostiene ed aiuta le forze meccaniche, cieche, pesanti e massicce della società: e che non riesce a riconoscere la forza dinamica, sia che la incontri in un uomo che in un movimento. La gente trovava spaventoso che io mi intrattenessi a pranzo con i malvagi, e che trovassi piacere nella loro compagnia. Ma costoro, dal punto di vista dell'arte del vivere secondo il quale li avvicinavo, erano deliziosamente suggestivi e stimolanti. Era come banchettare con delle pantere. Metà del piacere era costituita dal pericolo. Mi sembrava di essere un incantatore di serpenti quando fa uscire il cobra dal fazzoletto colorato o dal cestino di giunco in cui è rinchiuso, e gli fa allargare il cappuccio a comando, e lo fa oscillare di qua e di là come una pianta che ondeggi dolcemente nell'acqua di un fiume. Costoro erano per me i più vividi serpenti dorati. Il loro veleno faceva parte della loro perfezione. Non sapevo che quando mi avrebbero colpito, l'avrebbero fatto al suono del tuo piffero, e col denaro di tuo padre. Non provo vergogna alcuna per averli conosciuti. Erano superlativamente interessanti. Ciò di cui mi vergogno, è dell'orribile atmosfera di imbecillità in cui mi hai introdotto. Come artista, avrei dovuto aver a che fare con Ariele. Tu mi hai fatto combattere contro Calibano.
Invece di fare belle cose piene di colore e di musica come Salomè, Una tragedia fiorentina e La sainte courtisane, sono stato costretto a scrivere lunghe lettere legali a tuo padre, e ridotto ad appellarmi a quelle stesse cose contro le quali mi ero sempre battuto. Clibborn e Atkinst erano splendidi, nella loro infame guerra alla vita. Intrattenersi con loro, costituiva un'avventura senza precedenti. Dumas père, Cellini, Goya, E. Allan Poe o Baudelaire
avrebbero fatto lo stesso. Quello che mi riesce odioso, è il ricordo delle interminabili visite che feci insieme a te all'avvocato Humphreys, e di quando, nella luce spaventosa di quella sordida stanza, tu ed io sedevamo con facce solenni e raccontavamo solenni bugie a un uomo calmo, fino a gemere e sbadigliare di ennui. Ecco drive mi sono ritrovato dopo due anni di
amicizia con te: in pieno filisteismo, lontano da tutto ciò che era bello, o brillante, o audace. Alla fine, e per causa tua, ho dovuto farmi avanti come paladino della Rispettabilità nella condotta, del Puritanesimo nella vita, e della Moralità in Arte. Voilà où mènent les mauvais chemins.
E quel che mi sembra strano, è che tu abbia cercato di imitare tuo padre nelle sue caratteristiche principali. Non riesco a capire come egli abbia potuto essere d'esempio per te, mentre avrebbe dovuto esserti di monito, se non per il fatto che quando due persone si odiano, viene a crearsi un legame tra loro, quasi una sorta di fraternità. Penso che, per qualche strana legge sull'antipatia tra simili, voi due vi detestavate non tanto perché
differivate su tante cose, quanto perché vi rassomigliavate in poche altre. Quando nel giugno 1893 tu lasciasti Oxford, senza laurea e pieno di debiti, poca cosa in se stessi, ma notevoli per le rendite di tuo padre, questi ti scrisse una lettera molto volgare, violenta ed offensiva. La lettera con la quale gli rispondesti, era sotto tutti gli aspetti peggiore; e naturalmente meno scusabile; e di conseguenza, tu te ne sentisti estremamente fiero. Ricordo benissimo come mi dicesti, con la tua aria più vanitosa, che eri capace di battere tuo padre "con le sue stesse armi". È proprio vero. Ma quali armi! E quale contesa! Ridevi di tuo padre, e lo schernivi per aver abbandonato la casa di tuo cugino presso il quale alloggiava, ed essersene andato nel
vicino albergo per scrivergli sconce lettere. Tu facevi lo stesso con me. Tu pranzavi con me al ristorante, mi facevi musi o scenate durante il pranzo, e poi te ne andavi ai White Club per scrivermi lettere della peggiore specie. La sola differenza fra te e tuo padre era che dopo avermi fatto recapitare la lettera da un fattorino, tu stesso ti presentavi poi qualche ora dopo al mio appartamento non per scusarti, ma per sapere se avevo ordinato la cena al Savoy, o, in caso contrario, perché non l'avessi fatto. Qualche volta sei arrivato addirittura prima che io avessi letto la tua lettera d'insulti. Ricordo che una volta mi chiedesti di invitare a colazione al Cafè Royal due amici tuoi, uno dei quali non avevo mai visto prima d'allora in vita mia. Lo feci, c a tua richiesta diedi ordine che venisse servita una colazione particolarmente raffinata. Ricordo che parlai direttamente con lo chef, e gli diedi precise istruzioni in merito ai vini. Invece di venire a colazione, tu mi mandasti al Cafè una lettera d'insulti, calcolata in modo che mi raggiungesse dopo che ti avessimo aspettato per mezz'ora. Compresi di cosa si trattava fin dalla prima riga, e mettendo la lettera in tasca spiegai ai tuoi amici che eri indisposto, e
che la tua lettera mi forniva alcuni particolari della tua indisposizione. In effetti, non lessi la lettera che la sera a Tite Street, mentre mi cambiavo per il pranzo. Mentre ero a metà strada in quel pantano e mi stavo chiedendo con infinita tristezza come potevi scrivere lettere che erano come la bava e la schiuma sulla bocca d'un epilettico, il mio domestico venne a dirmi che tu eri nell'ingresso e desideravi vedermi un momento. Subito mandai il domestico a dirti di salire. Arrivasti, con un'aria, devo ammetterlo, molto pallida e spaventata, per chiedere aiuto e consiglio, giacché avevi saputo che un tale di Lumley, l'avvocato, era venuto a cercare di te a Cadogan Piace, e avevi paura che i tuoi vecchi guai di Oxford, o qualche altro nuovo pericolo, ti minacciassero. Ti consolai, ti dissi, come poi risultò essere la realtà, che doveva trattarsi del conto di un qualche fornitore, e ti consentii di restare a pranzo da me e di trascorrere con me il resto della serata. Non facesti parola della tua odiosa lettera, e nemmeno io. La considerai semplicemente come uno sfortunato sintomo di un carattere disgraziato. Non vi tornammo mai sopra. Scrivermi una lettera disgustosa alle due e trenta del pomeriggio
e alle sette e un quarto dello stesso pomeriggio correre da me perché ti aiutassi e ti consolassi, questo rientrava nella norma della tua vita. In questo andavi molto al di là di tuo padre, e non in questo soltanto. Quando le sue lettere rivoltanti vennero lette pubblicamente in tribunale, egli naturalmente se ne vergognò, e finse di piangere. Se la sua difesa avesse letto le lettere che tu scrivevi a lui, la gente avrebbe provato uno sdegno ed una repulsione
molto maggiori. Tu non solo eri capace di "batterlo con le sue stesse armi", ma lo superavi di gran lunga come sistema di attacco. Tu ti servivi del pubblico telegramma e della cartolina aperta. Trovo che avresti fatto meglio a lasciare simili sistemi di disturbo a persone come Alfred Wood, per le quali essi sono la sola fonte di lucro. Non ti pare? Quel che per lui e per i suoi simili erano una professione, per te era un divertimento: un perverso divertimento. E
non hai rinunciato all'orribile abitudine di scrivermi lettere offensive, neppure dopo tutto quel che mi è successo per causa loro, e grazie ad esse. La consideri ancora adesso una tua specialità, e te ne servi coi miei amici, o con quelli che sono stati gentili con me in carcere, come Robert Sherard e altri. Questo è vergognoso da parte tua. Quando Robert Sherard seppe da me che io non desideravo che tu pubblicassi sul Mercure de France alcun articolo che mi
riguardasse, con o senza lettere, avresti dovuto essergli grato per averti impedito di infliggermi, forse senza volerlo, un nuovo dispiacere da aggiungere ai molti altri che già mi avevi arrecati. Devi ricordare che una lettera paternalistica e filistea sul "fair play" per "un uomo caduto in basso" è cosa che può andare per un giornale inglese. E nella vecchia tradizione del giornalismo inglese prendere un simile atteggiamento verso gli artisti. Ma in
Francia, un tono simile avrebbe coperto me di ridicolo, e te di disprezzo. Non avrei potuto permettere la pubblicazione di nessun articolo finché non ne avessi conosciuto lo scopo, il tenore, la maniera di entrare in argomento, eccetera. In arte, le buone intenzioni non contano minimamente. Tutta l'arte deteriore è il risultato di buone intenzioni. E Robert Sherard non è nemmeno il solo tra i miei amici al quale tu abbia scritto lettere astiose ed amare perché cercarono di sondare i miei desideri ed i miei sentimenti su cose che mi riguardavano, come la pubblicazione di articoli sul mio conto, la dedica a me di tue poesie, la restituzione delle mie lettere e dei miei regali, e via dicendo. Tu hai molestato, o cercato di recar molestia, anche ad altri. Non ti passa mai per la mente di pensare in quale orribile situazione sarei venuto a trovarmi
se negli ultimi due anni, cioè dopo la mia spaventosa condanna, io avessi dovuto dipendere dalla tua amicizia? Non pensi mai a questo? Non senti mai un briciolo di gratitudine verso coloro che, per gentilezza disinteressata, per una devozione che non conosce limiti, per un gioioso e allegro bisogno di dare, hanno alleggerito il mio nero fardello facendomi visita di quando in quando, scrivendomi lettere bellissime e piene di comprensione, curando i miei affari, disponendo della mia vita futura, sostenendomi mentre venivo calunniato, vilipeso, schernito apertamente, perfino insultato? Io rendo grazie a Dio ogni giorno per avermi dato altri amici all'infuori di te. A quegli amici, io devo tutto. Gli stessi libri che ho nella mia cella sono stati pagati col denaro di Robbie. E dalla stessa fonte mi vengono i vestiti che indosserò quando verrò rilasciato. Non mi vergogno di prendere ciò che è donato con affetto e con amore, ne vado anzi orgoglioso. Ma non pensi mai a quel che sono stati per me amici come More Adey, Robert Sherard, Frank Harris e Arthur Clifton, e all'aiuto, al conforto, all'affetto, alla comprensione che mi hanno dimostrato? Immagino che non ti venga nemmeno in mente di pensarci. Eppure - se tu avessi un briciolo di immaginazione - dovresti sapere che non ve n'è uno solo di loro - dal secondino che mi dà il buongiorno e la buonanotte, cosa che non
rientra nei suoi doveri - dai comuni poliziotti che con modi burberi cercarono di confortarmi durante i miei andirivieni dalla Corte dei Fallimenti, andirivieni da me compiuti in condizione di grande angoscia - dal povero ladro il quale, riconoscendomi mentre marciavamo nel cortile di Wansdworth, mi sussurrò con la grossa voce che viene ai detenuti per il lungo silenzio a cui sono costretti "Mi dispiace per voi: è più duro per quelli come voi che per noialtri"; non ve n'è uno solo di loro, dicevo, di fronte al quale tu non dovresti essere orgoglioso di inginocchiarti, e lasciare che ti permettessero di togliere il fango dalle loro
scarpe. Hai immaginazione sufficiente per renderti conto di quale spaventosa sciagura sia stata per me imbattermi nella tua famiglia? E quale enorme sciagura questo sarebbe stato per chiunque altro avesse avuto posizione, o nome, o qualsiasi altra cosa di prestigio o d'importanza da perdere? Non vi è uno fra i membri anziani della tua famiglia - fatta eccezione per Percy, che
è davvero un buon figliolo - che in qualche modo non abbia contribuito alla mia rovina. Ti ho parlato con una certa quale amarezza di tua madre, e ti consiglio di farle leggere questa lettera, per il tuo bene soprattutto. Se leggere un simile atto d'accusa contro uno dei suoi figli le darà pena, ricordale che mia madre, che intellettualmente era sullo stesso piano di Elizabeth Barrett Browning, e storicamente, di Madame Roland, mori di crepacuore perché il figlio del cui genio e della cui arte ella andava così fiera, e che aveva sempre considerato come il degno continuatore di un nome illustre, fu condannato a far andare la macina per due anni. Tu vorrai sapere in che modo tua madre abbia contribuito alla mia rovina. Te lo dirò. Così come tu hai tentato di addossarmi tutte le tue responsabilità morali, allo stesso modo tua
madre ha cercato di addossarmi tutte le sue responsabilità morali nei tuoi confronti. Invece di parlare direttamente con te della tua vita, come dovrebbe fare una mamma, lei ha sempre scritto a me in forma privata e pregandomi, con richieste formali e spaventate, di non farti mai sapere che mi aveva scritto. Vedi dunque in quale posizione venivo a trovarmi fra te e tua madre: una posizione altrettanto falsa, assurda e tragica, di quella in cui venni a trovarmi fra te e tuo padre. Nell'agosto del 1892 e l'8 novembre dello stesso anno, ebbi due lunghi colloqui con tua madre, di cui tu fosti l'oggetto. In entrambe le occasioni le chiesi perché non parlasse direttamente con te. Entrambe le volte mi diede la stessa risposta: "Ho paura: va talmente in collera quando gli si parla". La prima volta, ti conoscevo così poco, che non
capivo cosa intendesse dire. La seconda, ti conoscevo così bene che lo compresi perfettamente. (Nell'intervallo fra le due volte, tu avesti lui attacco d'itterizia, e il medico ti ordinò di andare a Bournemouth per una settimana, consigliandomi di accompagnarti perché non ti piaceva star solo.) Ma il primo dovere di una madre è di non aver paura di parlare seriamente all proprio figlio. Se tua madre ti avesse parlato seriamente del pasticcio in cui sapeva che tu eri venuto a trovarti nel luglio del 1892 e ti avesse costretto a confidarti con lei, sarebbe stato molto meglio per te, e in ultima analisi, per noi tutti. Quel nostro modo di comunicare clandestino e segreto, era sbagliato. Che senso aveva che tua madre mi mandasse continuamente dei bigliettini con la scritta "privato" sulla busta, pregandomi di non invitarti
a pranzo troppo spesso, e di non darti dei soldi, e terminando ogni lettera con l'ansioso poscritto: "Per nessuna ragione Alfred deve sapere che le ho scritto"? Che vantaggio ci si poteva aspettare da una simile corrispondenza? Hai forse mai aspettato che fossi io a invitarti a pranzo? Non una volta. Era scontato che tu prendessi i tuoi pasti con me. Se facevo qualche rimostranza, tu rispondevi invariabilmente: "Se non mangio con te, dove devo mangiare? non
penserai certo che voglia pranzare a casa mia?" Non c'era risposta a questo. E se io tassativamente mi rifiutavo di averti a pranzo, tu minacciavi sempre di fare qualche sciocchezza, e la facevi. Quale poteva essere il risultato di lettere come quelle scrittami da tua madre, salvo quello, fatale e sciocco, di scaricare le sue responsabilità morali sulle mie spalle? Non voglio dire di più sui molti dettagli nei quali la debolezza di tua madre e la sua mancanza di coraggio riuscì tanto dannosa sia a lei, come a te ed a me; ma certamente,
quando ella -seppe che tuo padre stava per venire a casa mia per farmi quell'esecrabile scenata e creare un pubblico scandalo, certo allora avrebbe dovuto capire che una grave crisi era imminente, e prendere serie misure per evitarla. Tutto quel che seppe escogitare invece fu di mandarmi il buon Giorgio Wundham con la sua lingua compiacente a dirmi - che cosa?: 'che io dovevo mollarti poco a poco!" Come se fosse stato possibile mollarti a poco a poco! Avevo cercato con ogni mezzo di porre fine alla nostra amicizia, ero persino arrivato al punto di lasciare l'Inghilterra, dando un falso indirizzo, nella speranza di troncare in un sol colpo un legame che mi era diventato pesante,
odioso, e deleterio. Credi che avrei potuto veramente "mollarti a poco a poco"? Credi che tuo padre si sarebbe accontentato di questo? Sai bene di no. Ciò che tuo padre voleva, non era la fine della nostra amicizia, bensì un pubblico scandalo. Questo, era ciò a cui mirava. Da anni il suo nome non appariva sui giornali. Egli vide la possibilità di mostrarsi al pubblico inglese
in una veste del tutto inedita: quella del padre amoroso. Il suo senso dell'umorismo ne fu solleticato. Se avessi rotto i rapporti con te, ne avrebbe provato una tremenda delusione: e la scarsa notorietà che gli avrebbe procurato una,seconda causa di divorzio, sarebbe stata per lui una ben magra consolazione. Ciò a cui egli mirava, era la popolarità: e potersi atteggiare a
quel che si dice paladino della purezza, è, stante la condizione attuale del pubblico britannico, il mezzo più sicuro per assumere momentaneamente la figura dell'eroe. Di questo pubblico, ho detto già in una delle mie commedie, che se per una metà dell'anno esso è Calibano, per l'altra metà è Tartufo; e tuo padre, che è, si può dire, l'incarnazione dei due personaggi, veniva in tal modo additato come il vero rappresentante del Puritanesimo nella sua forma più caratteristica e aggressiva. Mollarti poco a poco sarebbe stato inutile, oltre che impossibile. Non capisci ora che la sola cosa che tua madre avrebbe dovuto fare, sarebbe stato di convocarmi a casa sua, e alla presenza tua e di tuo fratello, dirmi in modo definitivo che la nostra amicizia doveva assolutamente cessare? Avrebbe trovato in me il più caldo sostenitore,
e con Drumlanrig e me presenti nella stanza, non avrebbe dovuto aver timore di parlarti. Invece non lo fece. Aveva paura delle proprie responsabilità, e cercava di scaricarle su di me. L'unica cosa che fece fu di scrivermi una lettera. Era brevissima, e mi si chiedeva di non mandare a tuo padre la lettera di diffida dell'avvocato perché la smettesse. Aveva perfettamente ragione: era ridicolo che io mi rivolgessi agli avvocati chiedendo il loro patrocinio. Ma ella annullò l'effetto che quella lettera avrebbe potuto produrre aggiungendo il
solito poscritto: "Per nessuna ragione Alfred deve sapere che io le ho scritto!".
Eri estasiato all'idea che anch'io, come te, inviassi a tuo padre lettere legali. Eri tu a suggerirmelo. Non potevo dirti che tua madre era fortemente contraria a questo, perché ella mi aveva vincolato solennemente con la promessa che non ti avrei mai parlato delle lettere che ella mi scriveva, e stupidamente fui fedele a tale promessa. Non vedi quanto era sbagliato da parte sua non volerti parlare direttamente? Quanto era sbagliato quel nostro incontrarci
sulle scale di servizio, e corrispondere in quel modo clandestino? Nessuno può scaricare sugli altri le proprie responsabilità: esse tornano invariabilmente al legittimo proprietario. La tua sola idea sulla vita, la tua sola filosofia - se ti si può fare il credito di avere una filosofia - era che, qualsiasi cosa tu facessi, toccava a un altro pagarla: e non intendo solo in senso finanziario - quella non era che l'applicazione pratica di questa tua filosofia spicciola - ma nel
senso più ampio e più pieno di trasferimento di responsabilità. Questo era il tuo "credo". E per quanto ne so, lo mettevi benissimo in pratica. Mi costringesti a inventare quell'azione legale perché sapevi che tuo padre non avrebbe in alcun modo attaccato te o la tua vita, e che io mi sarei assunto la difesa a oltranza di tutte e due, e avrei sopportato ogni accusa che mi
fosse rivolta. Avevi perfettamente ragione. Tuo padre ed io, naturalmente per motivi opposti, ci comportammo esattamente come tu avevi calcolato. Ma in qualche modo, e malgrado tutto, anche tu non ne sei uscito indenne. La "teoria di Samuele fanciullo", come si può chiamarla per amore di brevità, funziona molto bene finché si tratta del mondo in generale. A Londra potrà essere largamente schernita, e ad Oxford, leggermente derisa, ma questo solo perché in un posto come nell'altro c'è qualcuno che ti conosce e perché in un posto come nell'altro tu hai lasciato tracce del tuo passaggio. Al di fuori della piccola cerchia di queste due città, il mondo ti considera come il giovane che fu con ogni probabilità indotto a fare il male dal cattivo artista senza scrupoli, ma che fu salvato in tempo dal suo caro e affettuoso genitore. Tutto fila a perfezione. Eppure, tu sai di non essertela passata così liscia. Non mi riferisco alla sciocca domanda posta da uno sciocco giurato, che naturalmente fu trattato con disprezzo sia dal giudice che dal Pubblico Ministero: nessuno fece caso a quella domanda. Mi riferisco bensì, e soprattutto, a te stesso. Un giorno, di fronte a te stesso, dovrai giudicare il tuo operato: e non sarai, non potrai, essere soddisfatto di come si sono svolte le cose. Nel tuo intimo dovrai vergognarti profondamente di te stesso. Una faccia di bronzo è una gran cosa da mostrare al mondo, ma di tanto in tanto, quando sei solo e non hai pubblico intorno, devi, penso, toglierti la maschera, nient'altro che per respirare. Altrimenti, credo proprio che soffocheresti. E alla stessa maniera, tua madre deve pentirsi per aver cercato di riversare le sue gravi
responsabilità su qualcun altro, qualcuno che aveva già un fardello abbastanza pesante da portare. Tua madre aveva per te la funzione di entrambi i genitori. Adempì veramente ai doveri di entrambi? Se io sopportavo il tuo cattivo carattere e la tua villania e le tue scenate, anche lei avrebbe dovuto sopportarle. L'ultima volta che vidi mia moglie - sono ora passati quattordici mesi - le dissi che avrebbe dovuto fare da padre a Cyril oltre che da madre. Le
raccontai ogni particolare del modo di agire di tua madre nei tuoi confronti, così come ho fatto in questa lettera; anzi, naturalmente in modo più esteso. Le spiegai il perché delle infinite lettere con la dicitura "privato" sulla busta che essa era solita mandarmi a Tite Street, con una regolarità che faceva ridere mia moglie e le faceva dire che certo io e lei stavamo collaborando alla stesura di un romanzo, o qualcosa del genere. L'ho supplicata di non essere
per Cyril ciò che tua madre è stata per te. Le ho detto che doveva educarlo in modo che se mai egli avesse sparso del sangue innocente, andasse subito da lei a dirglielo, in modo che ella potesse per prima cosa lavargli le mani e poi insegnargli a pentirsene e ad espiare, per nettare la sua anima. Le ho detto che se non se la sentiva di assumersi la responsabilità di una vita altrui, anche se si trattava della vita di suo figlio, avrebbe dovuto farsi aiutare da un
tutore. Ciò che - sono lieto di dirlo - essa ha fatto. Ha scelto per questo scopo Adrian Hope, suo cugino, persona di buona famiglia, colto e di nobile carattere, che incontrasti una volta a Tite Street; e con lui, Cyril e Vyvyan hanno buone probabilità che il loro avvenire sia splendido. Tua madre, se aveva paura di parlarti seriamente, avrebbe potuto scegliere qualcuno fra i suoi parenti al quale potessi dar retta. Ma non avrebbe dovuto aver paura;
avrebbe dovuto affrontarti e parlarti a viso aperto. E comunque, guarda il risultato. Può esserne forse soddisfatta e contenta? So che ella dà la colpa a me. Lo so non da persone che ti conoscono, ma da persone che né ti
conoscono, né desiderano conoscerti, come sento ripetere spesso. Tua madre, per esempio, parla dell'influenza che un uomo più anziano può avere su uno più giovane. Questo è uno dei suoi atteggiamenti preferiti al riguardo, ed è sempre un motivo di facile presa sul pregiudizio e l'ignoranza popolare. Inutile ch'io ti chieda quale influenza ebbi mai su di te. Sai bene che non ne ebbi alcuna. Uno dei tuoi frequenti motivi di vanto - l'unico, ahimè, fondato - era
appunto ch'io non ne avevo alcuna. Cosa vi era in te, del resto, che io potessi influenzare? Il tuo cervello? Era sottosviluppato. La tua immaginazione? Era morta. Il tuo cuore? Non era ancora nato. Di tutte le persone che ho conosciuto nel corso della mia vita, tu sei stato il solo e l'unico che io non sia riuscito a orientare in alcuna direzione. Quando giacevo malato e
impotente, preda della febbre che mi ero presa per curare te, non avevo su di te nemmeno quel tanto d'autorità che potesse indurti a portarmi una tazza di latte, o a provvedere quelle minime cose necessarie nella camera di un malato, o a darti la pena di fare pochi metri in carrozza fino al più vicino libraio per procurarmi, a spese mie, un libro da leggere. Quando ero impegnato a scrivere e a stendere commedie che dovevano superare in brio quelle di Congreve, in filosofia quelle di Dumas fils, e penso, quelle di chiunque altro per ogni altra qualità, non avevo autorità sufficiente per ottenere che tu mi lasciassi in pace così come ogni artista dovrebbe essere lasciato in pace. La stanza dove scrivevo, dovunque essa fosse, era per te un salotto qualunque, un qualunque posto dove fumare e bere vino del Reno col seltz e chiacchierare di futilità. L'" influenza di un uomo più anziano su uno più giovane" è una teoria eccellente, finché essa non giunge alle mie orecchie. Allora essa diventa grottesca. Quando giunge alle tue orecchie, penso tu ne sorrida fra te stesso. E certo, è un tuo diritto. Sento anche raccontare quel che tua madre dice a proposito dei soldi. Essa dice, con assoluta esattezza, che mi supplicava in continuo di non darti denaro. Lo riconosco: le sue lettere
erano infinite, e in ognuna appariva il poscritto: "Per piacere non faccia sapere ad Alfred che le ho scritto". Ma non era un piacere per me dover pagare tutte le tue cose, a cominciare dalla rasatura del mattino fino alla carrozza con cui rincasavi a mezzanotte, era una tremenda seccatura. Me ne lagnavo con te di continuo. Ti dicevo - lo ricordi, non è vero? - come detestassi venir considerato da te una persona "utile"; perché nessun artista ama esser
considerato o trattato sotto questo aspetto: gli artisti, come l'arte stessa, sono per loro essenza del tutto inutili. Ti inquietavi terribilmente quando te lo dicevo. La verità ti faceva sempre andare in collera. La verità è, in realtà, qualcosa di altamente spiacevole da udirsi; e di ancora più spiacevole da dire. Ma questo non serviva a cambiare le tue opinioni o il tuo sistema di vita. Ogni giorno dovevo pagare per quello che tu facevi. Solo chi fosse, dotato di un
carattere buono fino all'assurdo, o di un'ineffabile follia, avrebbe potuto farlo. Io, purtroppo, ero la perfetta combinazione dell'uno e dell'altro. Quando ti facevo capire che tua madre avrebbe dovuto rifornirti del denaro che ti occorreva, tu avevi sempre pronta una risposta molto appropriata e graziosa. Dicevi che la rendita che tuo padre le passava - credo sulle 1.500 sterline l'anno - era assolutamente inadeguata a una signora del suo rango, e che tu non potevi chiederle più denaro di quanto ella già ti dava. Avevi perfettamente ragione col dire che la sua rendita non era adatta a una signora del suo rango e dei suoi gusti, ma questo non doveva servirti come scusa per essere mantenuto nel lusso da me; al contrario, questo doveva invitarti ad una maggior parsimonia per quel che riguardava la tua vita. Il fatto è che tu eri, e penso sia ancora, un tipico sentimentale. Perché un sentimentale non è altri se non colui che desidera il lusso d'un'emozione senza pagare per averla. Voler evitare delle spese a tua madre era bello. Farlo a spese mie era brutto. Tu pensi che sia possibile avere delle emozioni senza pagarle. Non è vero. Anche le emozioni più nobili ed altruistiche hanno un prezzo. Stranamente, anzi, è proprio questo che le nobilita. La vita intellettuale ed emotiva delle
persone comuni è una cosa assolutamente spregevole. Esse prendono in prestito le loro idee da una specie di biblioteca circolante del pensiero - lo Zeitgeist di una generazione senz'anima - e le restituiscono insudiciate alla fine della settimana; e allo stesso modo cercano di avere a credito le loro emozioni, e quando arriva il conto, si rifiutano di pagarlo. Dovresti aver superato questo concetto della vita. Quando dovrai pagare per un'emozione,
allora saprai ciò ch'essa vale, e il saperlo ti renderà migliore. E ricorda che in fondo al cuore il sentimentale è sempre un cinico. Il sentimentalismo è il festival del cinismo. E per piacevole che sia il cinismo dal punto di vista intellettuale, ora che esso ha lasciato la Botte per il Club,' non potrà essere niente di più della filosofia ideale per l'uomo senz'anima. Ha un suo valore sociale; e per un artista, ogni mezzo d'espressione è interessante; ma in se stesso è poca cosa, perché al vero cinico nulla viene rivelato. Penso che se ti guarderai indietro e considererai il tuo atteggiamento verso la rendita di tua
madre, e il tuo atteggiamento verso la mia, non avrai di che insuperbirti; e forse un giorno, se non mostrerai questa lettera a tua madre, potrai spiegarle come il tuo vivere alla mie spalle era una faccenda nella quale nemmeno per un istante i miei desideri erano stati tenuti in considerazione. Era semplicemente una forma particolare - e per me, particolarmente spiacevole - del tuo attaccamento per me. Dipendere da me per le piccole e le grandi somme ti restituiva ai tuoi occhi l'incanto della fanciullezza; e nella mia insistenza a pagarti tutti i piaceri, tu pensavi di aver trovato il segreto dell'eterna giovinezza. Ti confesso che mi addolora sentire gli apprezzamenti di tua madre sul mio conto, e sono sicuro che riflettendoci sarai d'accordo con me nel dire che se essa non trova una parola di rammarico o di dispiacere
per la rovina che la tua famiglia ha portato alla mia, sarebbe meglio che tacesse. Naturalmente non c'è motivo perché essa venga a conoscenza di quelle parti della mia lettera che trattano l'evoluzione mentale che ho attraversato, o il punto di partenza che spero di raggiungere. Queste cose non avrebbero alcun interesse per lei. Ma le parti che riguardano esclusivamente la tua vita, quelle, se fossi in te, gliele mostrerei. Se fossi in te, del resto, non vorrei essere amato sotto mentite spoglie. Non c'è ragione perché
un uomo racconti al mondo la sua vita; il mondo non capisce le cose. Ma con coloro dai quali si desidera l'affetto, è un altro discorso. Un mio grande amico - amico da oltre un decennio - venne a trovarmi qualche tempo fa, e mi disse che non credeva una sola parola di quel che era stato detto contro di me, e che desiderava io sapessi che egli mi considerava del tutto innocente, e vittima di un'orribile congiura architettata da tuo padre. Scoppiai in lagrime a
sentirlo, e gli dissi che mentre molte delle accuse di tuo padre erano false e mi erano state mosse per ignobile malvagità, pure la mia vita era stata piena di piaceri perversi e di passioni anormali, e che finché egli non avesse accettato questo fatto come parte di me, valutandone appieno la portata, io non avrei potuto esser suo amico, o accettarne la compagnia. Fu un colpo tremendo per lui, ma ora siamo amici, e non ho ottenuto la sua amicizia sotto mentite spoglie. Ti ho detto che dire la verità è una cosa penosa. Ma essere costretti a mentire, è qualcosa di peggio. Ricordo di aver ascoltato dal banco degli imputati, in occasione del mio ultimo processo, la spaventosa requisitoria che Lockwood fece di me, quasi un passo di Tacito, o di Dante, o una delle imputazioni fatte da Savonarola contro i Papi di Roma; e di come mi avesse rivoltato l'orrore di quel che sentivo. D'improvviso pensai: "Come sarebbe bello se fossi io a dire queste stesse cose di me!" Compresi di colpo che ciò che si dice d'un uomo non conta, conta chi lo dice. Il momento più sublime per un uomo è, senza dubbio, quello in cui cade in ginocchio nella polvere e si batte il petto confessando tutti i peccati della sua vita. Lo stesso
vale per te. Saresti molto più felice se tu facessi conoscere a tua madre una parte almeno della tua vita. Io gliene ho raccontato parecchio nel dicembre del 1893, ma naturalmente ero costretto a molte reticenze e generalizzazioni, e non mi parve che questo accrescesse il suo coraggio nei suoi rapporti con te: al contrario. Con la stessa pervicacia di sempre, essa evitava di guardare in faccia la realtà. Se questa verità fossi tu a dirgliela, sarebbe diverso. Le
mie parole possono a volte sembrarti troppo amare. Ma non si possono negare i fatti. Le cose stanno come ho detto io, e se tu hai dedicato a questa lettera l'attenzione che essa meritava, ti sarai trovato faccia a faccia con te stesso.
Ti ho scritto così a lungo perché tu potessi renderti conto di ciò che fosti per me prima della mia incarcerazione, in quei tre anni di fatale amicizia: di ciò che fosti per me durante la mia incarcerazione, al cui scadere mancano quasi due lune: e di ciò che io spero di diventare, per me stesso e per gli altri, quando la mia incarcerazione sarà giunta a termine. Non posso
ricostruire la mia lettera, o riscriverla. Dovrai prenderla com'è, macchiata in più punti dalle mie lagrime, coi segni, altrove, della passione e del dolore; e decifrarla come meglio potrai, macchie, correzioni e quanto altro compreso. Quanto alle correzioni ed agli errata, le ho fatte perché volevo che le mie parole fossero l'espressione fedele dei miei pensieri, e non li falsassero dicendo troppo, o troppo poco. La parola ha bisogno di essere accordata come un violino: troppe vibrazioni, o troppe poche, nella voce del cantante, o il tremolare della corda, possono falsare la nota: e così, troppe parole, o troppo poche, possono alterare il messaggio. Così com'è, la mia lettera ha un suo preciso significato in ogni sua frase. In essa non vi è niente di retorico. Quelle omissioni o sostituzioni che vi troverai, per minime o elaborate che siano, sono dovute al desiderio di rendere le mie impressioni reali e di trovare l'esatto equivalente al mio stato d'animo. Ciò che viene primo come sentimento è sempre ultimo come forma. Riconosco che è una lettera dura. Non ti ho risparmiato. In realtà tu potrai dire che, dopo aver riconosciuto che pesarti sulla bilancia contro il più piccolo dei miei dispiaceri, la più
meschina delle mie perdite, sarebbe stato farti realmente un'ingiustizia, tuttavia io l'ho fatto: grammo per grammo ho fatto della tua natura l'analisi più approfondita. Questo è vero. Ma devi ricordare che sei stato tu a metterti sul piatto della bilancia. Devi ricordare che, se a soppesarti contro un solo momento della mia prigionia il piatto della bilancia dove ti sei messo si solleva d'un balzo, è stata la Vanità a fartelo scegliere, ed è la Vanità a fartici restare. Ecco il grande errore psicologico della nostra amicizia: l'assoluta
mancanza di proporzione. Ti sei introdotto a forza in una vita troppo grande per te, la cui orbita trascendeva sia la tua visuale che il tuo potere di moto ciclico; i cui pensieri, passioni ed azioni erano di una portata larghissima, di un interesse grandissimo, anche troppo carico di conseguenze meravigliose o terribili. La tua piccola vita di piccoli capricci e di piccole emozioni era perfetta nella sua piccola sfera. Era perfetta a Oxford, dove il peggio che ti poteva capitare era una romanzina del preside o una predica del rettore, e dove le massime emozioni erano che Magdalen vincesse la gara di canottaggio e si celebrasse l'augusto evento con un falò nel quadrato. In quella sfera avrebbe dovuto restare dopo che lasciasti Oxford. Per quel che ti riguarda, eri a posto. Eri un esemplare completo di un tipo molto moderno. Solo in rapporto a me eri sbagliato. La tua sconfinata prodigalità non era un delitto: la gioventù è sempre prodiga. Vergognoso era che tu costringessi me a pagare per la tua
prodigalità. Il tuo desiderio di avere un amico col quale passare il tuo tempo dal mattino alla sera era delizioso; era idilliaco, addirittura. Ma l'amico al quale ti eri legato non doveva essere un uomo di lettere, un artista, uno al quale la tua presenza ininterrotta finiva per distruggere totalmente il suo bel lavoro e per paralizzarne la facoltà creativa. Non c'era niente
di male nel fatto che tu pensassi che il modo migliore di trascorrere una serata fosse un pranzo al Savoy a base di champagne, poi un palco al Music Hall e infine una cena con champagne da Willies per la bonne-bouche. Molti simpatici giovanotti di Londra sono della stessa idea. Non è neppure un'eccentricità: è la qualifica per diventare socio di White. Ma tu non avevi il diritto di pretendere che fossi io a procurarti questi piaceri. Da qui appare la tua mancanza di reale valutazione del mio genio. Il tuo litigio coli tuo padre, poi, per male che uno possa pensare di lui, avrebbe dovuto restare una questione strettamente personale tra te e lui: così avviene di solito di simili litigi; era in un cortile che avreste dovuto vedervela insieme. Il tuo errore fu di insistere perché la lite fosse recitata sul palcoscenico della Storia come tragicommedia, con il mondo intero per spettatore, e me stesso come premio offerto al vincitore di questa spregevole contesa. Il fatto che tuo padre ti odiasse e che tu odiassi tuo padre, non era cosa che poteva interessare il pubblico inglese. Sentimenti consimili sono molto comuni nella vita familiare degli inglesi, e dovrebbero restare nei limiti del luogo di cui sono la caratteristica, cioè, la famiglia. Fuori dell'ambito familiare sono del tutto fuori
posto; trasferirli altrove è un insulto. La vita familiare non è un drappo rosso da sbandierare per le strade o una tromba entro cui emettere rauchi suoni dai tetti. Tu hai tolto l'amore per il folclore domestico dalla propria sfera. E quelli che lasciano la propria sfera cambiano ambiente, non carattere; non acquistano i pensieri o le passioni "proprie dell'ambiente in cui si trasferiscono: a loro, questo è impossibile. Come dico nelle Intenzioni, le forme emotive sono altrettanto limitate per durata ed estensione quanto quelle dell'energia fisica. La piccola coppa che è fatta per contenere una
certa quantità di liquido, può contenerne quel tanto e non di più, e non importa che le rosse botti di Borgogna siano piene di vino fino all'orlo, e che nelle vigne pietrose di Spagna i vendemmiatori sprofondino nell'uva vendemmiata fino al ginocchio. Uno degli errori più comuni è di credere che coloro che sono le cause o le occasioni delle grandi tragedie condividano le sensazioni che si addicono alla tragedia: aspettarsi questo, è un errore fatale. Il martire nella sua "veste di fiamma" può vedere il volto di Dio, ma per colui che accatasta la legna o dirada i ceppi per attirare il rogo, la scena non ha
più significato di quanto non ne abbia per un macellaio macellare un bue, per un boscaiolo abbattere un albero, o per chi falcia l'erba in giardino recidere un fiore. Le grandi passioni sono per chi ha l'animo grande, e i grandi eventi possono essere contemplati solo da chi è alla loro altezza. Non conosco niente, nel teatro drammatico, che da un punto di vista artistico possa
paragonarsi alla creazione fatta da Shakespeare di Rosencrantz e Guildenstern: niente che sia più suggestivo per sottigliezza d'osservazione. Costoro sono i compagni di studio di Amleto, sono stati suoi camerati, portano con sé il ricordo dei lieti giorni trascorsi assieme. Al momento in cui s'incontrano, nel dramma, Amleto vacilla sotto il peso di un fardello
intollerabile per un uomo del suo temperamento. I morti sono usciti in armi dalle loro tombe per affidargli un incarico che è insieme troppo grande e troppo meschino per lui. Egli è un sognatore, e gli si chiede di agire, ha la natura del poeta, e gli si chiede di misurarsi con la doppia complessità della causa e dell'effetto; con la vita nella sua realizzazione pratica di cui egli non sa nulla, non con la vita nella sua essenza ideale, di cui invece sa molto. Non ha la minima idea di ciò che dovrebbe fare: e la sua follia è di fingere la follia. Bruto usò la follia come un mantello per celare la spada del suo, proposito, il pugnale della sua volontà: ma la follia di Amleto è solo una maschera per nascondere la propria debolezza. Nella celia e nello scherzo egli vede la possibilità di procrastinare, egli scherza con l'azione come l'artista con
una teoria, egli fa di se stesso la spia delle proprie azioni, e ascoltando le proprie parole egli sa che esse altro non sono che "parole, parole, parole". Invece di far di se stesso il protagonista della propria storia, egli vuoi farsi lo spettatore in se stesso: eppure i suoi dubbi non lo aiutano, perché non nascono da scetticismo, bensì da una volontà in disaccordo con se
stessa. Di tutto ciò, Guildenstern e Rosencrantz non si rendono conto. Essi s'inchinano, fanno smorfie e sorrisi, e quel che l'uno dice, l'altro ripete ancor più scioccamente. Quando infine, con l'espediente del dramma nel dramma e della schermaglia delle marionette, Amleto "sorprende la coscienza" del re, e scaccia il disgraziato pieno di terrore dal suo trono, Guildenstern e Rosencrantz vedono in questo solo una deplorevole infrazione all'etichetta di
corte. Questo è il massimo a cui possono arrivare nella "contemplazione dello spettacolo della vita con emozioni appropriate". Essi sono vicinissimi al segreto di Amleto, e non lo sanno. Né servirebbe dirglielo. Essi sono le piccole coppe incapaci di contenere più di quel tanto. Verso la fine, vien lasciato capire che, presi in una ben congegnata trappola destinata a qualcun altro, pervengono - o perverranno - ad una morte improvvisa e violenta. Ma una fine
così tragica, benché toccata dallo spirito di Amleto con una certa qual sorpresa e giustizia scenica, non si addice loro. Essi non muoiono mai. Orazio, che per "difendere Amleto e la sua causa di fronte ai malcontenti": lo allontana ancora un poco dalla felicità ed in quest'aspro mondo trae il suo respiro nel dolore,
muore, anche se non in pubblico, e non lascia fratelli. Ma Guildenstern e Rosencrantz sono immortali come Angelo e Tartufo, e dovrebbero esser
posti assieme a loro. Essi sono il contributo della vita moderna all'antico ideale dell'amicizia. Chi scriverà un nuovo De Amicitia dovrà trovare un posticino per loro e tesserne le lodi in prosa tuscolana. Il loro tipo è valido per ogni tempo: biasimarli significherebbe mancare di valutazione. Essi sono semplicemente fuori della loro sfera: questo è tutto. La sublimità d'animo non è contagiosa, i grandi pensieri e le grandi emozioni vengono isolate dalla loro
stessa esistenza. Ciò che la stessa Ofelia non capiva, certo non potevano capirlo "Guildenstern e il dolce Rosencrantz" o "Rosencrantz e il dolce Guildenstern". Naturalmente non è mia intenzione paragonarti a loro. Fra loro e te, c'è un'enorme differenza. Quello che in loro è fortuito, in te è voluto. Tu ti immettesti nella mia sfera deliberatamente e senza ch'io ti avessi invitato; usurpasti un posto per il quale non avevi diritto né qualifica alcuna, ed
essendo riuscito con singolare tenacia, e col fare della tua presenza parte d'ogni singola giornata, ad assorbire tutt'intera la mia vita, quella vita, non hai poi trovato di meglio che farla a pezzi. Per strano che ciò possa sembrarti, era naturale che tu facessi così. Se si dà a un bambino un giocattolo troppo ingegnoso per la sua piccola mente e troppo bello per il suo occhio appena addestrato, egli, se è capriccioso romperà il giocattolo, se è indifferente lo
lascerà cadere e tornerà ai suoi compagni. Così hai fatto tu. Ti sei impadronito della mia vita, ma non hai saputo cosa farne. Non potevi saperlo, era una cosa troppo meravigliosa nelle tue mani. Avresti dovuto lasciarla cadere e tornartene ai tuoi giochi e ai tuoi compagni. Ma sfortunatamente eri capriccioso, e la rompesti. In ultima analisi, questo, forse, è il segreto di
quanto è accaduto: i segreti sono sempre più piccoli delle loro manifestazioni. Il mondo può tremare per lo spostamento di un atomo. E per dimostrarti come non risparmio te, ma nemmeno me stesso, aggiungerò che, per pericoloso che fosse stato per me incontrarti, quest'incontro fu reso fatale dal particolare momento in cui avvenne. Tu eri infatti in quella fase della vita di un uomo in cui non si fa altro che spargere il seme: io invece, in quella in cui lo si raccoglie. Vi sono ancora alcune cose di cui voglio parlarti. La prima riguarda la mia bancarotta. Ho sentito qualche tempo fa, con mio grande disappunto, devo dire, che è troppo tardi perché la tua famiglia possa risarcire tuo padre, che ciò sarebbe illegale e che io debbo restarmene in questa scomoda posizione non so per quanto tempo ancora. Questo è duro per me, perché so
da fonti autorevoli e legali che non posso nemmeno pubblicare un libro senza il permesso del Curatore fallimentare, al quale devono essere presentati tutti i conti. Non posso fare un contratto con un impresario teatrale né mettere in scena una commedia, senza che gli incassi vadano a tuo padre ed agli altri miei creditori. Penso che riconoscerai tu stesso che questo sistema di "avere la meglio" su tuo padre, lasciando che egli mi facesse far bancarotta, non è
poi il brillante successo che ti aspettavi. Certamente non per me; e si sarebbe dovuto tener conto del mio dolore e della mia umiliazione al trovarmi così in miseria, piuttosto che del tuo senso d'umorismo, per caustico o imprevedibile che esso sia. Anzi, quel che è stato in realtà, sia permettendo la mia bancarotta che istigandomi al primo processo, dimostra che tu eri manovrato dalle mani di tuo padre per fare esattamente il gioco di lui. Solo e senza appoggio, egli sarebbe stato nell'impossibilità di nuocere fin dal principio. In te - per quanto tu non intendessi prestarti a una simile orrenda funzione - egli ha trovato il suo principale alleato. More Adey mi dice nella sua lettera che la scorsa estate hai espresso più d'una volta il desiderio di risarcirmi "in parte" per quello che ho speso per te. Gli ho risposto che disgraziatamente ho speso per te la mia arte, la mia vita, il mio nome, il mio posto nella storia, e se la tua famiglia disponesse di tutte le meraviglie del mondo o di tutto ciò che il
mondo chiama meraviglia, genio, bellezza, ricchezza, posizione sociale e via dicendo, e le ponesse ai miei piedi, questo non potrebbe ripagare la decima parte delle più piccole cose che mi sono state tolte, o una sola delle molte lagrime che ho versato. Tuttavia, è naturale che si debba pagare per quello che si fa, e questo vale anche per ciò che riguarda la bancarotta. Mi sembra che tu abbia l'impressione che la bancarotta sia un comodo sistema per passare un colpo di spugna sui propri debiti, un modo, quasi, "di aver la meglio sui propri creditori". In realtà è esattamente l'opposto. E' il sistema per cui i creditori "hanno la meglio" su di te, per continuare ad usare una frase che ti è cara, e grazie al quale la legge, confiscandoti tutto quanto possiedi, ti costringe a pagare fino all'ultimo dei tuoi debiti, e, non riuscendovi, ti lascia senza un soldo come un mendicante che sta sotto un portone o si trascina lungo le strade tendendo la mano per quella elemosina che, in Inghilterra almeno, ha paura di chiedere. La Legge mi ha tolto non solo tutto ciò che posseggo, libri, mobili, quadri, diritti sulle mie opere pubblicate, diritti sulle mie commedie, tutto, insomma, dal Principe Felice e Il ventaglio di Lady Windermere alla passatoia delle scale e al nettapiedi sulla porta d'ingresso; ma anche tutto ciò che potrò mai possedere. La mia parte di dote, per esempio, è stata venduta. Fortunatamente ho potuto ricomprarla per mezzo di alcuni amici: altrimenti, in , caso di morte di mia moglie, i miei due bambini sarebbero rimasti, finché fossi stato vivo io, squattrinati come me. La mia parte nella tenuta in Irlanda che mi fu lasciata da mio padre sarà, temo, la prima cosa a dover essere venduta. Provo una grande amarezza a questo
pensiero, ma devo rassegnarmi. Sul mio cammino vi sono i settecento "pence" - o sono sterline? - di tuo padre, e devo rifonderglieli. Anche se fossi privato di tutto quanto posseggo, o che mai possederò, e fossi rilasciato come un debitore irrimediabilmente "insolvente", avrei ancora dei debiti da pagare. I pranzi al Savoy - il limpido brodo di tartaruga, i succulenti ortolani avvolti nelle rugose foglie di vite siciliana, il denso champagne dal colore - e persino dal sapore - dell'ambra - credo che la tua annata preferita fosse il Dagonet 1880, non è vero? - tutto questo deve essere ancora pagato. Le cene da Willie, la cuvée speciale di Perrier-Jouet tenuta in serbo espressamente per noi, i meravigliosi pàtés fatti arrivare direttamente da Strasburgo, il
magnifico fine champagne servito sempre nel fondo di quei grandi bicchieri a campana perché il suo bouquet venisse meglio assaporato dai veri buongustai delle cose veramente squisite della vita - tutto questo non può non venir pagato, come se fossero i brutti debiti di un cliente disonesto. Persino i graziosi bottoni da polsino - quattro pietre lunari a forma di cuore, d'un argento nebbioso, incastonate con un rubino alternato a un brillante, che io stesso disegnai e feci fare per te da Henry Lewis quale regaletto speciale per celebrare il successo della mia seconda commedia - perfino quelli - benché creda tu li abbia venduti per una canzone pochi mesi dopo - devono esser pagati. Non posso permettere che sia il gioielliere a andarci di mezzo per dei regali che ho fatto a te. Cosi, anche se verrò rilasciato, avrò sempre
dei debiti da pagare. E quel che è vero di una bancarotta è vero per tutti, nella vita. Per qualsiasi cosa si faccia, c'è qualcuno che deve pagare. Perfino tu: tu, col tuo bisogno di sentirti libero da ogni dovere, tu con la tua ostinazione a farti dare tutto dagli altri, tu, col tuo tentativo di respingere ogni pretesa sul tuo affetto, o la tua gratitudine, o il tuo rispetto - persino tu, un giorno, dovrai cominciare a riflettere seriamente su quel che hai fatto, e a cercare, per quanto a malincuore, di tentare un'ammenda. Non riuscirvi, farà parte del tuo castigo. Non puoi lavarti le mani delle tue responsabilità e con una scrollata di spalle e un sorriso passare oltre, recandoti a una nuova tavola imbandita con un nuovo amico. Non puoi considerare quello che mi hai fatto
come un ricordo sentimentale da rievocare qualche volta assieme alle sigarette e ai liqueurs, sfondo pittoresco a una nuova vita di piaceri, come un vecchio arazzo appeso in una rozza bettola. Per un momento questo può avere l'attrattiva di una nuova salsa o di un nuovo vino; ma i resti del banchetto finiscono per diventare stantii, e la feccia della bottiglia è amara. Oggi, domani o un altro giorno dovrai renderti conto di quel che è stato. Altrimenti potrai morire senza rendertene conto, e quale vita meschina, priva di nutrimento e d'immaginazione avresti vissuto allora! Nella mia lettera a More suggerivo un punto di vista dal quale ti sarebbe convenuto affrontare
l'argomento al più presto possibile. Lui ti dirà di che cosa si tratta. Occorrerà che tu affini la tua immaginazione per comprenderlo. Ma ricorda che l'immaginazione è la qualità che consente di vedere cose e persone nei loro rapporti reali e ideali. Se non ce la farai a capirlo da solo, parlane con altri. Io ho dovuto guardare in faccia il mio passato. Guardalo in faccia anche tu. Mettiti seduto per un momento, e riflettici. Il vizio supremo è la superficialità. Tutto ciò che è vissuto fino in fondo è giusto. Parla di questo a tuo fratello. Anzi, la vera persona con cui faresti bene a parlarne è proprio Percy. Fagli leggere questa lettera, e raccontagli le circostanze della nostra amicizia. Nessun giudizio potrà essere migliore del suo, una volta che gli vengano esposte le cose con chiarezza. Quanta vergogna e quanti dispiaceri mi
sarebbero stati risparmiati, se gli avessimo detto la verità! Ricorderai che ti avevo invitato a farlo, la sera che tu venisti a Londra di ritorno da Algeri. Tu non ne volesti sapere. Così, quando egli arrivò, dopo cena, dovemmo recitare la commedia della alienazione mentale di tuo padre e delle assurde, immotivate manie da cui era affetto. Fu una commedia spassosa finché durò, tanto più che Percy prese tutto talmente sul serio. Sfortunatamente fini in
maniera rivoltante. Uno dei suoi risultati costituisce l'oggetto di questa lettera; e se ti avrà annoiato, ti prego di non dimenticare quale profonda umiliazione essa ha significato per me; eppure devo subirla. Non ho altra scelta. Neppure tu ce l'hai. La seconda cosa di cui voglio parlarti, riguarda le condizioni, le circostanze ed il luogo del nostro incontro quando il termine della mia prigionia sarà scaduto. Da alcuni estratti delle tue lettere a Robbie, scritte i primi dell'estate dell'anno scorso, sento che hai fatto due pacchetti sigillati delle mie lettere e dei regali che ti feci - o per lo meno, di ciò che resta di entrambi - e che desideri consegnarmeli personalmente. È infatti necessario che essi mi siano restituiti. Tu non capivi perché ti scrivessi lettere bellissime, né perché ti facessi bellissimi regali. Non potevi capire che le prime non erano scritte perché venissero pubblicate, così come i secondi non erano destinati a essere impegnati al Monte di Pietà. D'altra parte, essi fanno parte d'una vita che è finita da un pezzo, d'un'amicizia che in qualche modo tu non fosti in grado di valutare secondo il suo giusto valore. Ora ripenserai con meraviglia ai giorni in cui avevi la mia vita tutt'intera nelle tue mani. Anch'io ripenso a quei giorni con meraviglia e con altre, ben diverse emozioni. Se tutto va bene, verrò rilasciato entro la fine di maggio e spero di partir subito per qualche piccolo villaggio marino all'estero, con Robbie e More Adey. Il mare, come dice Euripide in una delle sue tragedie su Ifigenia, lava le macchie e le ferite del mondo. Spero di stare un mese coi miei amici, e, grazie alla loro compagnia salutare e affettuosa, ritrovare la pace e l'equilibrio, un cuore meno tormentato e una disposizione d'animo più serena. Ho uno strano desiderio delle grandi cose semplici e primordiali, come il Mare, che sento per me madre come la Terra. Mi sembra che tutti noi si guardi molto alla Natura, ma che non le si viva abbastanza vicini. Trovo una grande saggezza nell'atteggiamento dei greci. Loro non parlavano mai di tramonti, né discettavano sul fatto che le ombre sull'erba fossero lilla o meno, ma capivano che il mare era fatto per nuotare, e la sabbia per corrervi sopra. Amavano gli alberi per l'ombra che fanno, e le foreste per il loro silenzio nell'ora del
meriggio. Il vignaiolo intrecciava edera nei suoi capelli perché i raggi del sole non lo colpissero mentre era chino sui giovani virgulti; e per l'artista e per l'atleta, i due esemplari tipici che la Grecia ci ha dato, intrecciavano ghirlande di lauro amaro e di petrosella, che non sarebbero stati altrimenti di alcuna utilità per l'uomo. Noi chiamiamo la nostra un'epoca utilitaria, e non conosciamo l'uso delle cose più semplici. Abbiamo dimenticato che l'Acqua può lavare, e il Fuoco purificare, e che la Terra è madre di noi tutti. Ne consegue che la nostra Arte è come la Luna, e scherza con le ombre, mentre l'arte greca è come il Sole, e tratta con le cose direttamente. Io sono sicuro che vi sia una
catarsi nelle forze elementari, e voglio tornare a quelle, e vivere in loro presenza. Certo per un uomo moderno e enfant de mon siècle come sono, anche solo contemplare il mondo sarà un eterno piacere. Tremo di gioia quando penso che il giorno stesso in cui uscirò di prigione, pomello ed il lillà saranno in fiore nei giardini e che vedrò il vento agitare con fremente
bellezza l'oro mobile dell'uno e piegare il pennacchio viola pallido dell'altra; così come avrò per me tutti i profumi dell'Arabia. Linneo cadde in ginocchio e pianse di gioia quando vide per la prima volta la vasta brughiera di non so quale parte della collina inglese ingiallita daifiori fulvi ed aromatici della comune ginestra; e quanto a me, che sono posseduto dal desiderio dei fiori, so che mi aspettano lagrime nei petali di qualche rosa. Così è stato sempre
per me, fin da quando ero ragazzo. Non vi è colore racchiuso nel calice di un fiore, non vi è curva di conchiglia, alla quale per qualche oscura affinità con l'anima stessa delle cose, la mia natura non corrisponda. Come Gautier, sono sempre stato di quelli pour qui le monde visible existe. Tuttavia sento ora che dietro questa Bellezza, per soddisfacente che sia, si nasconde uno
Spirito di cui le forme e i contorni dipinti non sono che modi di una manifestazione; e proprio con questo Spirito intendo entrare in contatto. Mi sono stancato delle espressioni articolate dell'uomo e delle cose. Il Misticismo in Arte, il Misticismo nella Vita, il Misticismo nella Natura: questo cerco. E' assolutamente necessario per me che io lo trovi. Ogni processo cui si è sottoposti è un processo alla propria vita, così come ogni condanna è una condanna a morte; e io sono stato processato tre volte. La prima volta, lasciai il banco degli accusati per essere tratto in arresto; la seconda, per essere ricondotto alla casa di correzione; la terza, per essere incarcerato per due mesi. Nella società, così come noi l'abbiamo costituita, non v'è posto per me, né vi potrà mai essere; ma la Natura, le cui dolci piogge bagnano indistintamente il giusto come il peccatore, avrà anfratti nelle rocce entro cui
potrò nascondermi, e valli segrete nel cui silenzio potrò piangere indisturbato. Essa appenderà stelle alla volta del cielo perché io possa camminare nelle tenebre senza inciampare; e farà soffiare il vento perché cancelli le mie impronte e io non venga inseguito e braccato a morte. Essa mi laverà con i suoi grandi fiumi, e le sue erbe amare mi guariranno. Tra un mese, quando le rose di giugno saranno nel pieno della loro impudica opulenza, cercherò, se mi è possibile, di combinare attraverso Robbie di incontrarmi con te in qualche
tranquilla cittadina straniera, come Bruges, le cui case grigie, i verdi canali e le piccole strade tranquille ebbero una grande attrattiva per me alcuni anni orsono. In tale occasione tu dovrai cambiare il tuo nome. Se vorrai vedere me, dovrai rinunziare al piccolo titolo di cui andavi così fiero - e difatti, esso dava al tuo nome il suono di un fiore - e anch'io, a mia volta, dovrò abbandonare il mio nome, che in bocca alla Fama aveva un suono così melodioso. Come
questo nostro secolo è angusto e meschino e inadeguato ai suoi carichi! Può dare al Successo un palazzo di porfido, ma al Dolore e alla Vergogna non riserba neppure una capanna di canniccio; tutto quel che fa per me, è ordinarmi di cambiare il mio nome in un altro, mentre persino il medioevo mi avrebbe offerto il cappuccio di un monaco o il panno che copre il viso
del lebbroso, dietro ai quali sarei stato in pace. Spero che il nostro incontro sarà ciò che un incontro fra me e te - dopo quanto è successo - dovrebbe essere. C'è sempre stato un enorme abisso tra noi due negli anni scorsi, l'abisso tra l'Arte realizzata e la cultura acquisita; c'è oggi un abisso ancora più profondo, l'abisso del Dolore: ma niente è impossibile all'Umiltà, e all'Amore tutto è facile. Per quel che riguarda la tua risposta a questa mia, puoi farla come credi, lunga o breve. Indirizza il plico al Direttore del Carcere di S.M., Reading; e dentro, in un'altra busta, aperta, metti la tua lettera per me. Se la carta è sottile, non scrivere sulle due facciate, perché ciò ne
rende difficile la lettura. Io ti ho scritto in piena libertà; anche tu devi fare altrettanto. Ciò che desidero, è che tu mi dica perché non hai mai cercato di scrivermi dal momento che, fin dall'agosto di due anni fa, e specialmente dopo, cioè nel maggio dello scorso anno, undici mesi fa, sapevi - ed ammettevi con gli altri - quanto dolore mi avessi dato; e come io ne fossi
consapevole. Ho aspettato per mesi che tu ti facessi vivo. Anche se non ti avessi aspettato, ma ti avessi chiuso tutte le porte in faccia, avresti dovuto ricordare che nessuno può continuare a chiudere le porte in faccia all'Amore. Il giudice ingiusto dei Vangeli si alza alla fine, ed emette un verdetto giusto, perché la Giustizia bussava giornalmente alla sua porta; e l'amico
nel cui cuore non esiste amicizia cede, la sera, all'amico "per la sua insistenza". Non vi è prigione al mondo in cui l'Amore non possa aprirsi un varco. Se non comprendi questo, non capisci niente dell'Amore. Infine, fammi sapere tutto del tuo articolo su di me sul Mercure de France. Lo conosco in parte. Farai bene a trascrivermene degli estratti; so che è in bozze. E
fammi anche conoscere i termini esatti della dedica che mi hai fatto delle tue poesie. Se è in prosa, trascrivimela; se no, trascrivi i versi. Non dubito che vi saranno in essa cose belle. Scrivimi di te in tutta franchezza: della tua vita. dei tuoi amici, delle tue occupazioni, dei tuoi libri. Dimmi del tuo volume di poesie, e di come è stato accolto. Tutto quel che hai da dirmi, dillo senza timore. Non scrivere ciò che non senti: se vi sarà qualcosa di falso o di artefatto nella tua lettera, me ne accorgerò subito dal tono. Non per niente, né a caso, nel culto per la letteratura che ho avuto tutta la vita, mi sono fatto avaro di suono e di sillabe come Mida delle sue monete. Ricorda che mi resta ancora da conoscerti. Forse a entrambi, ci resta da conoscerci a vicenda.
Quanto a te, non ho che quest'ultima cosa da dirti. Non aver paura del passato. Se qualcuno ti dirà che esso è irrevocabile, non credergli. Passato, presente e futuro non sono che un attimo della visione di Dio, al cui cospetto dovremmo cercare di vivere. Tempo e spazio, successione ed estensione, sono soltanto condizioni accidentali del Pensiero: l'Immaginazione può trascenderle e portarle in una libera sfera di esistenze ideali. Anche le cose sono, nella
loro essenza, ciò che vogliamo che esse siano: una cosa è in quanto noi la guardiamo. "Dove gli altri" dice Blake "non vedono che l'Alba che risale il monte, io vedo i figli di Dio che gridano di gioia". Ciò che a me e al mondo sembrava essere il mio futuro, io lo perdetti quando mi lasciai istigare a intentare causa a tuo padre: forse, anzi, l'avevo perduto molto prima. Ciò che ho davanti a me adesso, è il mio passato. Devo indurmi a guardarlo con altri
occhi: devo indurre Iddio a guardarlo con altri occhi. E questo, non posso fare ignorandolo, o designandolo, o lodandolo, o rinnegandolo: posso farlo solo accettandolo, come una parte inevitabile dell'evoluzione della mia vita e del mio carattere: chinando il capo di fronte a tutto ciò che ho sofferto. Quanto io sia lontano dalla vera indole dell'anima mia, lo dimostra molto chiaramente questa lettera, coi suoi umori incerti e mutevoli, il suo sdegno; la sua amarezza, le sue aspirazioni, e la sua incapacità di realizzarle: ma non dimenticare in quale terribile scuola io sieda al mio compito; e per incompleto e imperfetto che io sia, tu, da me, hai ancora molto da imparare. Venisti a me per imparare il Piacere della Vita e il Piacere dell'Arte.
Forse sono stato scelto per insegnarti qualcosa di più splendido: il significato del Dolore, e la sua
bellezza.
Il tuo affezionato amico
OSCAR WILDE
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