Nel giugno 1890, in appendice del Lippincott's Monthly Magazine, appare per la prima volta "Il Ritratto di Dorian Gray" di Oscar Wilde. Il romanzo viene accolto all'epoca da scandalo e polemiche per il suo presunto immoralismo. Wilde risponde agli attacchi con lettere ad alcuni giornali, sostenendo l'indipendenza dell'arte dal moralismo. Nello Scots Observer scrive: " Ognuno vede il proprio peccato in Dorian Gray. Quale fu il peccato di Dorian Gray nessuno lo dice e nessuno lo sa. Chi lo scopre l'ha commesso."
Successivamente il libro diventerà addirittura vero e proprio corpo del reato nel processo del 1895 a carico dello scrittore irlandese .
Capolavoro della letteratura inglese, "Il Ritratto di Dorian Gray" è la celebrazione del culto della bellezza che Wilde perseguirà nella sua esistenza attraverso la sua produzione artistica.
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L'artista è il creatore di cose belle.
Rivelare l'arte e nascondere l'artista è il fine dell'arte.
Il critico è colui che può tradurre in diversa forma o in nuova sostanza la sua impressione delle cose belle.
Tanto le più elevate quanto le più infime forme di critica sono una sorta di autobiografia.
Coloro che scorgono brutti significati nelle cose belle sono corrotti senza essere affascinanti. Questo è un errore.
Coloro che scorgono bei significati nelle cose belle sono le persone colte. Per loro c'è speranza.
Essi sono gli eletti: per loro le cose belle significano solo bellezza.
Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male. Questo è tutto.
L'avversione del diciannovesimo secolo per il realismo è la rabbia di Calibano che vede il proprio volto riflesso nello specchio.
L'avversione del diciannovesimo secolo per il romanticismo è la rabbia di Calibano che non vede il proprio volto riflesso nello specchio.
La vita morale dell'uomo è parte della materia dell'artista, ma la moralità dell'arte consiste nell'uso perfetto di un mezzo imperfetto. L'artista non desidera dimostrare nulla. Persino le cose vere possono essere dimostrate.
Nessun artista ha intenti morali. In un artista un intento morale è un imperdonabile manierismo stilistico.
Nessun artista è mai morboso. L'artista può esprimere qualsiasi cosa.
Il pensiero e il linguaggio sono per un artista strumenti di un'arte.
Il vizio e la virtù sono per un artista materiali di un'arte.
Dal punto di vista formale il modello di tutte le arti è l'arte del musicista. Dal punto di vista del sentimento il modello è l'arte dell'attore.
Ogni arte è insieme superficie e simbolo.
Coloro che scendono sotto la superficie lo fanno a loro rischio.
L'arte rispecchia lo spettatore, non la vita.
La diversità di opinioni intorno a un'opera d'arte dimostra che l'opera è nuova, complessa e vitale.
Possiamo perdonare a un uomo l'aver fatto una cosa utile se non l'ammira. L'unica scusa per aver fatto una cosa inutile è di ammirarla intensamente.
Tutta l'arte è completamente inutile.
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I
Lo studio era pervaso dall'odore intenso delle rose e, quando tra gli alberi del giardino spirava la leggera brezza estiva, dalla porta spalancata entrava l'intenso odore dei lillà, o il più delicato profumo dei fiori rosa dell'eglantina.
Dall'angolo del divano di coperte da sella persiane, sul quale era sdraiato, fumando com'era sua abitudine innumerevoli sigarette, Lord Henry Wotton coglieva lo splendore dei fiori di liburno del colore e della dolcezza del miele, i cui tremuli rami parevano appena sopportare il peso della loro fiammeggiante bellezza. Ogni tanto, l'ombra fantastica di un uccello in volo saettava, con un fuggevole effetto giapponese, sulle lunghe tende di seta grezza tese dinanzi all'enorme finestra ricordandogli quei pittori di Tokio dal viso di pallida giada che, con i mezzi di un'arte necessariamente immobile, cercano di rendere il senso della velocità e del moto. Il cupo ronzio delle api che vagavano tra le alte erbe non falciate o roteavano con monotona insistenza intorno agli stami coperti di polvere dorata degli sparsi caprifogli sembrava rendere ancora più opprimente la sensazione di immobilità. Il rombo sommesso della città di Londra ricordava le note basse di un organo lontano.
In mezzo alla stanza, fissato a un cavalletto, stava il ritratto a figura intera di un giovane di straordinaria bellezza e di fronte, poco lontano, sedeva l'autore, Basil Hallward, la cui improvvisa scomparsa alcuni anni prima aveva suscitato tanto scalpore e fatto sorgere tante strane congetture.
Mentre il pittore guardava la forma bella e piena di grazia che con tanta abilità artistica aveva raffigurato, un sorriso di compiacimento gli attraversò il volto e parve volervisi fermare. Ma, improvvisamente, si alzò e chiudendo gli occhi posò le dita sulle palpebre, come se volesse tener prigioniero nella mente uno strano sogno da cui temeva ridestarsi.
"È la tua opera migliore, Basil, la più bella cosa che hai mai fatto," disse languido Lord Henry. "Devi assolutamente esporla al Grosvenor. L'Accademia è troppo grande e troppo volgare. Ogni volta che ci sono andato c'era tanta di quella gente che non sono riuscito a vedere i quadri, il che è tremendo, oppure tanti di quei quadri che non sono riuscito a vedere la gente, il che è anche peggio. Davvero, il Grosvenor è l'unico posto possibile."
"Penso che non lo esporrò in nessun posto," rispose il pittore gettando all'indietro il capo in quello strano modo che provocava le risate dei suoi compagni di Oxford. "No, non lo esporrò in nessun posto."
Lord Henry inarcò le sopracciglia e lo guardò stupito attraverso le sottili spire di fumo che salivano in fantastici arabeschi dalla sigaretta grevemente oppiata. "Non vuoi esporlo? Perché, mio caro amico? C'è qualche motivo? Che strani tipi siete, voi pittori! Fate qualunque cosa per ottenere una reputazione, poi non appena l'avete raggiunta pare che la vogliate gettare via. È una sciocchezza, perché al mondo c'è una sola cosa peggiore del far parlare di sé ed è il non far parlare di sé. Un ritratto come questo ti porrebbe più in alto di tutti i giovani inglesi e ti farebbe invidiare dai vecchi, posto che i vecchi siano in grado di provare emozioni."
"So che riderai di me," rispose il pittore, "ma non posso davvero esporlo. Vi ho messo dentro troppo di me."
Lord Henry si allungò sul divano ridendo.
"Sì, sapevo che avresti riso; comunque è proprio vero."
"Troppo di te! Parola mia, Basil, non ti credevo così vanitoso; e non riesco proprio a trovare nessuna rassomiglianza tra te, con quel tuo viso forte e marcato e i capelli neri come il carbone, e questo giovane Adone che pare fatto di avorio e petali di rosa. Infatti, mio caro Basil, lui è un Narciso e tu... ecco, naturalmente hai un'espressione intelligente e tutto il resto, ma la bellezza, la vera bellezza, finisce dove inizia l'espressione intelligente. L'intelletto è di per se stesso una sorta di eccesso e in qualunque volto distrugge l'armonia. Non appena uno comincia a pensare, diventa tutto naso o tutta fronte, oppure qualcosa di orrendo. Guarda quelli che hanno avuto successo nelle professioni intellettuali. Sono assolutamente disgustosi. Eccetto, naturalmente, gli uomini di chiesa. Ma, del resto, gli uomini di chiesa non pensano. A ottant'anni un vescovo continua a ripetere quello che gli è stato insegnato a diciotto e, come naturale conseguenza, ha sempre un aspetto delizioso. Questo tuo misterioso amico di cui non mi hai mai detto il nome, ma il cui ritratto trovo davvero affascinante, non pensa mai. Ne sono assolutamente sicuro. È una creatura bella e priva di cervello, una creatura che si dovrebbe avere sempre vicina d'inverno, quando non ci sono fiori da ammirare e d'estate, quando si sente il bisogno di qualcosa che rinfreschi l'intelligenza. Non illuderti, Basil, non gli assomigli minimamente."
"Non mi hai capito, Harry," replicò l'artista. "Naturalmente non gli assomiglio. Lo so perfettamente. In realtà mi dispiacerebbe assomigliargli. Scuoti le spalle? No, dico la verità. In ogni genere di distinzione, sia intellettuale che fisica, c'è una fatalità, quel genere di fatalità che, nella storia, pare in agguato sui passi incerti dei re. È meglio non essere diversi dal nostro prossimo. I brutti e gli stupidi hanno la parte migliore del mondo. Possono mettersi seduti a loro agio e godersi lo spettacolo. Se della vittoria non sanno nulla, gli viene perlomeno risparmiata la consapevolezza della sconfitta. Vivono come tutti dovremmo vivere: senza turbamenti, indifferenti e senza preoccupazioni. Non fanno male agli altri e non ricevono male da mani altrui. La tua nobiltà e la tua ricchezza, Harry, la mia intelligenza, per quel che può essere, la mia arte per quel che può valere, la bellezza di Dorian Gray: tutti soffriremo di ciò che gli dei ci hanno donato, ne soffriremo terribilmente tutti."
"Dorian Gray? Si chiama così?" domandò Lord Henry, muovendosi verso Basil Hallward.
"Sì, si chiama così. Non volevo dirtelo."
"Perché no?"
"Oh, non saprei spiegartelo. Quando una persona mi piace moltissimo, non dico mai a nessuno il suo nome. È come cederne una parte. Sono giunto ad amare la segretezza. Pare essere l'unica cosa che può renderci piena di meraviglia e di mistero la vita moderna. Basta nasconderla, e la più banale delle cose diventa deliziosa. Quando parto da Londra, non dico mai ai miei dove vado. Se lo dicessi, perderei ogni piacere. È una stupida abitudine, certo, ma in un certo qual modo pare che porti una grossa dose di romanticismo nella nostra vita. Immagino che mi riterrai tremendamente stupido."
"Niente affatto," rispose Lord Henry, "niente affatto. Forse dimentichi che sono sposato e l'unico elemento di fascino del matrimonio sta nella necessità di una vita di inganni tra i coniugi. Io non so mai dov'è mia moglie e lei non sa mai che cosa sto facendo. Quando ci incontriamo, succede qualche volta, se usciamo insieme a cena o andiamo dal duca, ci raccontiamo con l'espressione più seria le cose più assurde. In questo mia moglie è molto brava, molto più brava di me. Non confonde mai i suoi appuntamenti, mentre a me capita regolarmente. Ma quando mi coglie in fallo, non mi fa scenate. A volte vorrei che me le facesse, ma lei si limita a prendermi in giro."
"Non sopporto il modo che hai di parlare della tua vita matrimoniale, Harry," disse Basil Hallward, dirigendosi verso la porta che dava sul giardino. "Ritengo che tu sia un ottimo marito, ma che ti vergogni moltissimo delle tue virtù. Sei un tipo straordinario. Non dici mai una sola parola morale e non fai mai una cosa sbagliata. Il tuo cinismo è semplicemente una posa."
"La naturalezza è semplicemente una posa, e la più irritante che conosca," esclamò Lord Henry ridendo. I due uomini uscirono insieme nel giardino e si accomodarono su un lungo sedile di bambù all'ombra di un alto cespuglio di alloro. Il sole scivolava sulle foglie lucide, bianche margherite fremevano nell'erba.
Dopo una pausa, Lord Henry estrasse l'orologio. "Mi dispiace, Basil, ma devo andare," mormorò, "e prima di andarmene vorrei che tu rispondessi a una domanda che ti ho fatto poco fa."
"Quale domanda?" domandò il pittore, tenendo gli occhi fissi a terra.
"Lo sai benissimo."
"Non lo so, Harry."
"Bene, te la ripeterò. Voglio che tu mi spieghi perché non vuoi esporre il ritratto di Dorian Gray. Voglio sapere il vero motivo."
"Te l'ho detto."
"No. Hai detto che non volevi, perché in esso c'era troppo di te. Ora, questo è infantile."
"Harry," disse Basil Hallward, guardandolo negli occhi, "ogni ritratto dipinto con sentimento è un ritratto dell'artista, non del modello. Il modello è solamente un accidente, l'occasione. Non è lui quello che viene rivelato dal pittore; è piuttosto il pittore che sulla tela dipinta rivela se stesso. Il motivo per cui non esporrò questo quadro è che ho il timore di avervi messo in evidenza il segreto della mia anima."
Lord Henry rise. "E qual è questo segreto?"
"Te lo dirò," disse Hallward, ma sul viso gli apparve un'espressione perplessa.
"Sono impaziente, Basil," insistette l'amico lanciandogli un'occhiata.
"Oh, c'è davvero molto poco da dire, Harry," rispose il pittore, "e temo che ti sarà difficile capirlo. Forse non lo crederai nemmeno."
Lord Henry sorrise, si chinò a raccogliere nell'erba una margherita dai petali rosati e la esaminò. "Sono sicuro che ti capirò," replicò fissando attentamente il minuscolo disco d'oro piumato di bianco, "e per quanto riguarda il credere, posso credere a qualunque cosa purché sia del tutto incredibile."
Il vento fece cadere alcuni boccioli dagli alberi e i pesanti lillà con i loro grappoli di stelle oscillarono nell'aria languida. Accanto al muro una cavalletta iniziò a emettere il suo lieve stridio e una lunga e sottile libellula fluttuò nell'aria come un filo azzurro sulle ali di seta bruna. Lord Henry aveva l'impressione di percepire il palpito del cuore di Basil Hallward. Si chiese che cosa stesse avvenendo.
"La storia è semplicemente questa," disse il pittore dopo qualche attimo. "Due mesi fa andai a un ricevimento da Lady Brandon. Sai che noi poveri artisti di tanto in tanto ci dobbiamo far vedere in società, solo per ricordare al pubblico che non siamo selvaggi. Sei stato tu una volta a dirmi che, con un abito da sera e una cravatta bianca, chiunque, persino un agente di cambio, può guadagnarsi la reputazione di creatura civile. Bene, mi trovavo nella stanza da una decina di minuti e stavo parlando con enormi matrone troppo vestite e con noiosi accademici, quando improvvisamente mi resi conto che qualcuno mi stava guardando. Mi girai a metà e per la prima volta vidi Dorian Gray. Quando i nostri occhi si incontrarono mi sentii impallidire. Fui preso da una strana sensazione di terrore. Mi rendevo conto di trovarmi di fronte a un uomo il cui semplice fascino personale era tale che, se mi fossi lasciato andare, se glielo avessi permesso, avrebbe assorbito in sé la mia vera natura, la mia vera anima, persino la mia arte. Non voglio influenze esterne nella mia vita. Tu stesso, Harry, sai quanto io sia indipendente di natura. Sono sempre stato padrone di me stesso o almeno lo sono stato finché non ho incontrato Dorian Gray. Allora... ma non so come spiegartelo. Qualcosa pareva dirmi che ero sull'orlo di una terribile crisi. Avevo la strana sensazione che il destino avesse in serbo per me gioie squisite e squisite tristezze. Ebbi paura e mi voltai per lasciare la stanza. Non era la coscienza che mi spingeva a farlo, quanto piuttosto una sorta di viltà. Non mi vanto di aver cercato di fuggire."
"La coscienza e la viltà sono esattamente la stessa cosa, Basil. La coscienza è semplicemente il marchio di fabbrica della ditta: tutto qui."
"Non credo, Harry, e non credo nemmeno che tu ne sia convinto. In ogni modo, qualunque fosse il motivo, può anche darsi che fosse l'orgoglio, dato che sono molto orgoglioso, è certo che mi diressi decisamente verso la porta. E qui, naturalmente, inciampai in Lady Brandon. "Non intenderà lasciarci così presto, signor Hallward?" gridò. La conosci quella sua voce stranamente stridula."
"Sì, assomiglia in tutto a un pavone, fuorché nella bellezza," disse Lord Henry, facendo a pezzi la margherita con le lunghe dita nervose.
"Non riuscii a liberarmi di lei. Mi portò dalle Altezze Reali, da gente con Stelle e Giarrettiere, da vecchie dame con diademi giganteschi e nasi da pappagallo. Parlava di me come se fossi il suo più caro amico. In precedenza l'avevo incontrata solo una volta, ma si era messa in testa di esibirmi. Mi pare che in quel periodo uno dei miei quadri avesse riscosso un grande successo, o perlomeno se ne era parlato sui quotidiani popolari che nel diciannovesimo secolo rappresentano il sigillo dell'immortalità. E, improvvisamente, mi trovai faccia a faccia con il giovane la cui personalità mi aveva così stranamente turbato. Eravamo vicinissimi, quasi ci toccavamo. I nostri occhi si incontrarono una volta ancora. Fu un atto incauto da parte mia, ma chiesi a Lady Brandon di presentarmelo. Forse, dopotutto, non fu un atto così incauto: era semplicemente inevitabile. Ci saremmo parlati anche senza nessuna presentazione, ne sono certo. In seguito Dorian me lo disse. Anche lui aveva avuto la sensazione che fossimo destinati a conoscerci."
"E che cosa ti disse Lady Brandon di questo meraviglioso giovane?" domandò l'amico. "So che si dedica sempre a esporre un breve précis di tutti i suoi ospiti. Ricordo che una volta mi presentò a un vecchio gentiluomo dall'aria truculenta e dal volto scarlatto tutto coperto di nastri e decorazioni, sussurrandomi all'orecchio in un tragico bisbiglio, che probabilmente fu udito da tutti nella stanza, particolari stupefacenti. Semplicemente, scappai. Mi piace scoprire la gente da solo. Ma Lady Brandon tratta i suoi ospiti esattamente come un banditore tratta la sua merce: o li presenta in forma completamente sbagliata, oppure dice sul loro conto tutto, salvo quello che uno desidera sapere."
"Povera Lady Brandon! Sei duro con lei!" disse Hallward distrattamente.
"Mio caro, ha cercato di mettere in piedi un salon ed è riuscita solo ad aprire un ristorante. Come potrei ammirarla? Ma, dimmi, che cosa ti ha detto del signor Dorian Gray?"
"Oh, qualcosa come "Un ragazzo affascinante... la sua povera madre e io eravamo davvero inseparabili. Non ricordo assolutamente che cosa faccia... temo che... non faccia nulla... oh, sì, suona il pianoforte... o il violino, signor Gray?" Scoppiammo a ridere tutti e due e diventammo subito amici."
"Il ridere non è un brutto modo per iniziare un'amicizia, ed è senz'altro il migliore per terminarla," disse il giovane Lord, cogliendo un'altra margherita.
Hallward scosse il capo. "Tu non sai che cosa sia l'amicizia, Harry," mormorò, "né che cosa sia l'inimicizia, del resto. A te piace chiunque, il che equivale a dire che tutti ti sono indifferenti."
"Sei terribilmente ingiusto!" esclamò Lord Henry spingendo all'indietro il cappello e alzando lo sguardo verso le piccole nubi che, come intricate matasse di lucente seta bianca, veleggiavano nel cavo turchese del cielo estivo. "Sì, sei terribilmente ingiusto. Io faccio molta differenza tra le persone. Scelgo gli amici per la bellezza, i conoscenti per il buon carattere e i nemici per l'intelligenza. Non si è mai abbastanza attenti nella scelta dei propri nemici. Io non ne ho nemmeno uno che sia stupido. Sono tutti persone dalle notevoli capacità intellettuali e, di conseguenza, mi apprezzano. È una manifestazione di vanità da parte mia? Io penso di sì."
"Pare anche a me, Harry. Ma, secondo questa classificazione, io sono soltanto un conoscente."
"Vecchio mio, tu sei molto più di un conoscente."
"E molto meno di un amico. Una specie di fratello, immagino."
"Oh, i fratelli! Non mi interessano i fratelli! Mio fratello maggiore non vuol morire, e i miei fratelli più giovani pare che non facciano altro."
"Harry!" esclamò Hallward, aggrottando le sopracciglia.
"Caro amico, non dico sul serio. Ma non posso fare a meno di detestare i miei parenti. Immagino che sia dovuto al fatto che nessuno può sopportare chi possiede gli stessi suoi difetti. Ho molta simpatia per la rabbia che la democrazia inglese nutre nei confronti di quelli che chiamano i vizi delle classi superiori. Le masse pensano che l'ubriachezza, la stupidità e l'immoralità debbano essere una loro speciale prerogativa e che, se qualcuno di noi si comporta da deficiente, va a caccia nelle loro riserve. Quando il povero Southwark si presentò di fronte al tribunale dei divorzi, la loro indignazione fu spettacolare. E tuttavia non penso che il dieci per cento del proletariato viva nell'onestà."
"Non sono d'accordo su una sola parola di ciò che hai detto, Harry, e quel che è di più sono sicuro che nemmeno tu lo sei."
Lord Henry si lisciò la bruna barba appuntita e assestò un colpetto alla scarpa di vernice con il fiocco del bastone di ebano. "Come sei inglese, Basil! È la seconda volta che fai questa osservazione. Quando si espone un'idea a un vero inglese, il che è sempre un atto temerario, costui non si sogna nemmeno di valutare se l'idea è giusta o sbagliata. L'importante per lui è sapere se chi l'ha esposta ne è convinto o meno. Ora, il valore di un'idea non ha nulla a che vedere con la sincerità di chi la espone. In realtà, la cosa più probabile è che quanto meno uno è sincero tanto più intellettualmente pura sia l'idea perché non sarà inquinata né dai suoi difetti, né dai suoi desideri o dai suoi pregiudizi. Tuttavia non intendo discutere di politica, di sociologia o di metafisica con te. Mi piacciono le persone più dei principi e più di qualunque altra cosa mi piacciono le persone senza principi. Parlami ancora del signor Dorian Gray. Lo vedi spesso?"
"Ogni giorno. Non sarei contento se non lo vedessi ogni giorno. Mi è assolutamente necessario."
"Straordinario! Pensavo che ti interessasse solo la tua arte."
"In questo momento lui rappresenta per me tutta la mia arte," disse gravemente il pittore. "Harry, a volte penso che nella storia del mondo ci siano solo due momenti importanti. Il primo è quando appare un nuovo mezzo artistico, il secondo quando appare una nuova personalità artistica. Quello che per i veneziani fu l'invenzione dei colori ad olio, fu per la tarda scultura greca il volto di Antinoo e un giorno sarà per me il volto di Dorian Gray. Non solo perché dipingo, disegno, schizzo prendendolo come modello. Naturalmente ho fatto tutte queste cose, ma Dorian è per me molto più di un modello o di un soggetto. Non ti dirò che non sono soddisfatto di quel che ho tratto da lui, né che la sua bellezza è tale che l'arte non è in grado di esprimerla. Non c'è nulla che l'arte non possa esprimere e so che ciò che ho fatto da quando ho conosciuto Dorian è un buon lavoro, il miglior lavoro della mia vita. Ma in qualche strano modo, spero che mi capirai, la sua personalità mi ha suggerito uno stile e una forma artistica completamente nuovi. Vedo diversamente le cose e le penso diversamente. Adesso sono in grado di ricreare la vita in una forma che prima mi era preclusa. "Un sogno di forma in giorni di pensiero": chi l'ha detto? Me ne sono dimenticato ma proprio questo Dorian Gray ha rappresentato per me. La sola presenza di questo ragazzo, perché mi sembra un ragazzo, anche se ha più di vent'anni, la sua sola presenza... ah! Mi chiedo se ti puoi rendere conto di che cosa tutto questo significhi. Inconsciamente lui mi delinea una nuova scuola, una scuola che dovrà avere in sé tutta la passione dello spirito romantico e tutta la perfezione dello spirito greco. L'armonia di anima e corpo... che cosa grande! Nella nostra follia noi li separiamo e abbiamo inventato un realismo che è volgare e un idealismo che è vuoto. Henry, se tu appena sapessi che cosa rappresenta per me Dorian Gray! Ricordi quel mio paesaggio che Agnew si era offerto di comperare per una somma altissima, ma dal quale non ho voluto separarmi? È una delle cose migliori che ho mai dipinto. E perché? Perché, mentre lo dipingevo, Dorian Gray era seduto accanto a me. Qualche sottile influenza passava da lui a me e, per la prima volta in vita mia, ho visto in una boscaglia la meraviglia che avevo sempre cercato e sempre mancato."
"È straordinario, Basil. Devo vedere Dorian Gray."
Hallward si alzò e fece qualche passo avanti e indietro nel giardino. Dopo qualche momento ritornò. "Harry," disse, "per me Dorian Gray è un semplice spunto artistico. In lui tu potresti non vedere nulla, mentre io ci vedo tutto. Non è mai tanto presente nella mia opera come quando in essa non appare nulla di lui. Come ti ho detto, Dorian ha ispirato il mio nuovo stile: lo ritrovo in certe linee, nella dolcezza e nell'elusività di certi colori. Solo questo."
"E allora perché non vuoi esporre il suo ritratto?" domandò Lord Henry.
"Perché, senza averne l'intenzione, vi ho inserito qualche manifestazione di questa strana idolatria artistica di cui, naturalmente, non mi sono mai curato di parlargli. Lui non ne sa nulla. E non ne saprà mai nulla. Ma il mondo potrebbe intuirlo e io non metterò a nudo la mia anima sotto i suoi occhi superficiali e curiosi. Non metterò mai il mio cuore sotto il microscopio del mondo. In quel ritratto c'è troppo di me, Harry... davvero troppo!"
"I poeti non hanno i vostri scrupoli. Sanno quanto la passione sia utile per pubblicare. Oggi, un cuore spezzato lo si stampa in molte edizioni."
"Li odio proprio per questo," esclamò Hallward. "Un artista dovrebbe creare cose belle, ma non dovrebbe inserirvi nulla della propria vita. Viviamo in un'epoca in cui gli uomini ritengono che l'arte sia una specie di autobiografia. Abbiamo perduto il senso della bellezza astratta. Un giorno mostrerò al mondo che cosa sia, e proprio per questo il mondo non vedrà mai il mio ritratto di Dorian Gray."
"Secondo me hai torto, Basil, ma non voglio discutere con te. Discute continuamente solo chi ha esaurito l'intelligenza. Dimmi, Dorian Gray prova un affetto intenso per te?"
Il pittore rifletté un poco. "Gli piaccio," rispose dopo qualche attimo; "so che gli piaccio. Naturalmente io lo adulo spaventosamente. Provo uno strano piacere a dirgli cose che so benissimo poi mi pentirò di avergli detto. Di regola è molto gentile con me, sediamo insieme nello studio e parliamo di una quantità di cose. Ogni tanto, però, si dimostra terribilmente irriflessivo e pare che si diverta davvero a farmi soffrire. Allora, Harry, ho la sensazione di aver ceduto la mia anima a qualcuno che la tratta come se fosse un fiore da mettere all'occhiello, una piccola decorazione per appagare la sua vanità, l'ornamento di un giorno d'estate."
"I giorni d'estate, Basil, favoriscono gli indugi," mormorò Lord Henry. "Forse ti stancherai prima di lui. È triste pensarlo, ma senza dubbio il genio è più duraturo della bellezza. Questo spiega perché noi tutti ci diamo tanta pena per istruirci all'eccesso. Nella lotta selvaggia per l'esistenza, cerchiamo di avere qualcosa di durevole e perciò ci riempiamo la mente di cose inutili e di fatti, sperando stupidamente di mantenere la nostra posizione. L'uomo che sa tutto: ecco l'ideale moderno. E la mente dell'uomo che sa tutto è una cosa terribile. È come un negozio di cianfrusaglie, pieno di polvere e di mostruosità, dove ogni cosa ha un prezzo superiore di quel che vale. Comunque, penso che sarai il primo a stancarti. Un giorno guarderai il tuo amico e ti sembrerà un po' sfuocato, oppure non ti piacerà il tono del suo colore o qualche cosa di simile. Dentro di te, lo rimprovererai con durezza e penserai seriamente che si è comportato molto male nei tuoi confronti. Quando si farà nuovamente vivo, sarai assolutamente freddo e indifferente. Sarà un grosso peccato, perché questo produrrà in te un cambiamento. Quello che mi hai raccontato è un vero romanzo, lo si potrebbe chiamare un romanzo d'arte e la cosa peggiore che capita quando si vive un romanzo di qualunque tipo è che ci lascia completamente privi di sentimenti romantici."
"Non parlare in questo modo, Harry. La personalità di Dorian Gray mi dominerà finché vivrò. Non puoi sentire quello che sento io. Sei troppo incostante."
"Ah, mio caro Basil, proprio per questo posso sentirlo. Quelli che sono fedeli conoscono solo il lato banale dell'amore: sono gli infedeli che ne conoscono le tragedie." Lord Henry accese un fiammifero strofinandolo su una squisita scatoletta d'argento e iniziò a fumare una sigaretta con un'aria a un tempo soddisfatta e imbarazzata, come se, in una sola affermazione, avesse riassunto l'essenza del mondo. Tra le verdi foglie di lacca dell'edera si sentiva uno stormire di passeri cinguettanti, sull'erba le ombre azzurrine delle nubi si inseguivano come rondini. Come si stava bene nel giardino! E quant'erano piacevoli le emozioni degli altri!... molto più piacevoli delle loro idee, gli sembrava. La propria anima e le passioni di un amico: queste erano le cose affascinanti dell'esistenza. Con silenzioso piacere si raffigurò il pasto noioso che aveva mancato per rimanere tanto a lungo con Basil Hallward. Se fosse andato da sua zia, avrebbe incontrato di certo Lord Goodbody e si sarebbe parlato solo di come nutrire i poveri e della necessità di dormitori modello. Ciascuna classe avrebbe predicato l'importanza di quelle virtù che nella propria vita non erano necessarie. I ricchi avrebbero magnificato il valore della parsimonia e i pigri avrebbero parlato con eloquenza della dignità del lavoro. Per fortuna a tutto questo era sfuggito! E, mentre stava pensando a sua zia, un'idea parve colpirlo. Rivolgendosi a Hallward, disse: "Caro amico, adesso ricordo."
"Che cosa ricordi, Harry?"
"Dove ho già sentito il nome di Dorian Gray."
"E dove?" domandò Hallward, leggermente accigliato.
"Non fare quella faccia arrabbiata, Basil. È stato da mia zia, da Lady Agatha. Mi ha detto che aveva scoperto un meraviglioso giovanotto che l'avrebbe aiutata nell'East End e che si chiamava Dorian Gray. Devo riconoscere che non mi ha parlato della sua bellezza. Le donne non apprezzano la bellezza, le brave donne almeno. Disse che era molto onesto e che aveva un ottimo carattere. Immaginai immediatamente un tipo dai capelli lunghi, con gli occhiali, tutto coperto di lentiggini e barcollante su un paio di piedi enormi. Vorrei aver saputo che si trattava del tuo amico."
"Sono molto contento che tu non l'abbia saputo, Harry."
"Perché?"
"Perché non voglio che tu lo conosca."
"Non vuoi che lo conosca?"
"No."
"Il signor Dorian Gray è nello studio, signore," disse il maggiordomo scendendo in giardino.
"Adesso dovrai presentarmi," esclamò Lord Henry, ridendo.
Il pittore si rivolse al domestico che, immobile, socchiudeva gli occhi nel sole. "Preghi il signor Gray di attendere, Parker. Rientrerò tra qualche istante." L'uomo si inchinò e risalì lungo il vialetto.
Hallward si rivolse a Lord Henry. "Dorian Gray è il mio più caro amico," disse. "Ha una natura semplice e bella. Quello che ti ha detto tua zia è assolutamente vero. Non lo guastare. Non cercare di influenzarlo: la tua sarebbe una cattiva influenza. Il mondo è grande e in esso ci sono moltissime persone straordinarie. Non allontanare da me l'unica persona che dà alla mia arte tutto il suo fascino; la mia vita come artista dipende da lui. Ricorda, Harry, mi fido di te." Parlava lentamente e le parole parevano uscirgli contro la sua volontà.
"Che stupidaggini stai dicendo!" disse Lord Henry con un sorriso e, prendendolo a braccetto, quasi lo trascinò in casa.
II
Appena entrati, videro Dorian Gray. Sedeva di fronte al piano voltando loro le spalle e sfogliava le pagine di un fascicolo delle "Scene della foresta" di Schumann. "Me li devi prestare, Basil," esclamò. "Voglio studiarli. Sono proprio meravigliosi."
"Dipende da come poserai oggi, Dorian."
"Oh, sono stufo di posare, non ho nessuna voglia di avere un mio ritratto a grandezza naturale," rispose il giovane, girandosi sullo sgabello con un'espressione di arrogante petulanza. Vide Lord Henry e un accenno di rossore gli colorò le guance per un attimo; si alzò in piedi. "Ti prego di scusarmi, Basil. Non sapevo che ci fosse qualcuno con te."
"Questo è Lord Henry Wotton, Dorian, un mio vecchio amico di Oxford. Gli avevo appena detto che eri un modello eccezionale e ora hai guastato tutto."
"Non ha guastato il piacere che provo nel conoscerla, signor Gray," disse Lord Henry, facendosi avanti e tendendogli la mano. "Mia zia mi ha parlato spesso di lei: è uno dei suoi favoriti e, temo, una delle sue vittime."
"In questo momento sono sul libro nero di zia Agatha," rispose Dorian Gray, con una buffa espressione pentita. "Le avevo promesso di accompagnarla in un club di Whitechapel martedì scorso e me ne sono completamente dimenticato. Avremmo dovuto suonare un pezzo a quattro mani... tre pezzi, mi pare. Non so che cosa mi dirà. Sono troppo spaventato per farmi vivo."
"Oh, le farò far pace con la zia. Le vuole molto bene. E non credo che la sua assenza abbia avuto conseguenze di rilievo. Probabilmente il pubblico avrà pensato ugualmente di ascoltare un pezzo a quattro mani. Quando zia Agatha si mette al piano, fa abbastanza rumore per due."
"Questo è terribile verso la zia Agatha e non molto gentile verso di me," rispose Dorian ridendo.
Lord Henry lo osservò. Sì, era davvero meravigliosamente bello con quelle labbra rosse ben disegnate, i franchi occhi azzurri e i riccioli biondi. C'era nel suo volto qualcosa che ispirava immediatamente fiducia: tutto il candore della gioventù e, insieme, della gioventù l'appassionata purezza. Si avvertiva che non si era lasciato segnare dal mondo. Nessuna meraviglia che Basil Hallward lo adorasse.
"Lei è troppo affascinante per dedicarsi alla filantropia, signor Gray, davvero troppo affascinante." Lord Henry si lasciò cadere sul divano e aprì il portasigarette.
Il pittore era intento a mescolare i colori e a preparare i pennelli. Sembrava preoccupato e, nell'udire l'ultimo commento di Lord Henry, gli lanciò un'occhiata, esitò, poi disse: "Harry, vorrei finire il quadro oggi. Ti sembrerei troppo scortese se ti chiedessi di lasciarci?"
Lord Henry sorrise e guardò Dorian Gray. "Devo andarmene, signor Gray?" domandò.
"Oh, la prego, non se ne vada Lord Henry. Vedo che Basil ha uno dei suoi accessi di cattivo umore e quando è così non lo posso sopportare. D'altra parte, voglio che lei mi dica perché non devo dedicarmi alla filantropia."
"Non credo che glielo dirò, signor Gray. È un argomento così noioso che bisognerebbe parlarne seriamente. Ma ora che mi ha chiesto di rimanere, non scapperò via di certo. Non ti dispiace vero, Basil? Mi hai detto tante volte che sei contento se i tuoi modelli hanno qualcuno con cui chiacchierare."
Hallward si morse un labbro. "Se Dorian lo desidera, puoi rimanere, ovviamente. I suoi capricci sono legge per chiunque, tranne che per lui."
Lord Henry prese i guanti e il cappello. "Sei molto insistente, Basil, ma devo andare, mi dispiace. Ho promesso di incontrare una persona all'Orléans. Arrivederci, signor Gray. Venga a trovarmi qualche pomeriggio in Curzon Street. Alle cinque sono quasi sempre in casa. Mi scriva quando verrà. Mi dispiacerebbe molto che non mi trovasse."
"Basil," esclamò Dorian Gray, "se Lord Henry se ne va, me ne vado anch'io. Quando dipingi non dici una parola ed è terribilmente noioso stare immobile su un piedistallo cercando di assumere un'aria piacevole. Chiedigli di restare. Insisto."
"Resta, Harry, per fare un piacere a Dorian e per farlo a me," disse Hallward fissando attentamente il quadro. "È vero, quando lavoro non parlo mai e non ascolto: deve essere una cosa mortalmente noiosa per i miei disgraziati modelli. Ti prego di rimanere."
"Ma quella persona che devo incontrare all'Orléans?"
Il pittore rise. "Non credo che ci saranno difficoltà. Ritorna a sedere, Harry. E adesso, Dorian, sali sul piedistallo, non muoverti troppo e non badare a quello che ti dirà Lord Henry: ha una pessima influenza su tutti i suoi amici. Io sono l'unica eccezione."
Dorian Gray salì sulla piattaforma con l'aria di un giovane martire greco e rivolse una leggera moue di disappunto a Lord Henry per il quale provava già un notevole interesse. Era così diverso da Basil. Insieme, formavano un piacevole contrasto. E aveva una voce così bella. Dopo un momento gli disse: "Ha davvero una così cattiva influenza, Lord Henry? Cattiva come sostiene Basil?"
"Le buone influenze non esistono, signor Gray. Tutte le influenze sono immorali... immorali dal punto di vista scientifico."
"Perché?"
"Perché influenzare qualcuno significa dargli la propria anima: non pensa più con i suoi pensieri spontanei, né arde delle sue passioni spontanee. Non ha virtù proprie. I suoi peccati, se cose come i peccati esistono, sono presi a prestito. Diventa l'eco della musica suonata da un altro, l'interprete di una parte che non è stata scritta per lui. Lo scopo della vita è lo sviluppo di noi stessi. La perfetta realizzazione della nostra natura: questa è la ragione della nostra esistenza. Oggi l'uomo ha paura di sé. Ha dimenticato il più elevato di tutti i doveri, il dovere che ciascuno di noi ha nei confronti di se stesso. Naturalmente è caritatevole, dà da mangiare agli affamati e veste i mendicanti, ma la sua anima langue ed è nuda. Il coraggio ha abbandonato la nostra specie, o forse non lo abbiamo mai realmente avuto. Il timore della società, che è il fondamento della morale, il terrore di Dio, che è il segreto della religione, sono le due cose che ci governano. E tuttavia..."
"Dorian, volta la testa leggermente verso destra, da bravo," disse il pittore, immerso nel suo lavoro e conscio solo del fatto che nel viso del giovane era apparsa un'espressione che non aveva mai visto prima.
"E tuttavia," proseguì Lord Henry con la sua voce bassa e musicale e con quell'elegante ondeggiare della mano che era stato una sua caratteristica fin dai tempi di Eton, "credo che se ognuno dovesse vivere pienamente la sua vita, se desse concretezza a ogni sua sensazione, espressione a ogni pensiero, realtà a ogni sogno, credo che il mondo ne riceverebbe un così fresco impulso di gioia che dimenticheremmo tutti i malanni del medievalismo e ritorneremmo all'ideale ellenico e forse a qualcosa di più bello e più ricco dell'ideale ellenico. Ma il più coraggioso di noi ha paura di se stesso. Le mutilazioni dei selvaggi sopravvivono tragicamente nella repressione del proprio io che deturpa la nostra vita. Siamo puniti per i nostri rifiuti. Ogni impulso che cerchiamo di soffocare fermenta nella nostra mente e ci avvelena. Il corpo pecca una sola volta e supera subito il peccato, perché l'azione è un modo di purificarsi. Allora non rimane più nulla, salvo il ricordo del piacere, o il lusso di un rimpianto. L'unico modo di liberarsi di una tentazione è abbandonarvisi. Resisti, e la tua anima si ammalerà del desiderio delle cose che si è proibite, di passione per ciò che le sue stesse mostruose leggi hanno reso mostruoso e illegale. Si è detto che i grandi avvenimenti dell'umanità si sviluppano nel cervello. Ed è anche nel cervello che si verificano i grandi peccati dell'umanità. Lei, signor Gray, lei stesso durante la sua purpurea gioventù, durante la sua candida adolescenza, ha avuto passioni che l'hanno spaventata, pensieri che l'hanno riempita di terrore, sogni e fantasticherie il cui semplice ricordo dovrebbe farla arrossire di vergogna..."
"Basta!" balbettò Dorian Gray, "basta! Lei mi sconvolge. Non so che cosa risponderle: c'è una risposta ma non la trovo. Non parli, mi lasci pensare. O, meglio, lasci che provi a non pensare."
Rimase immobile per una diecina di minuti, le labbra semiaperte, gli occhi stranamente luminosi. Era oscuramente conscio che in lui agivano forze completamente nuove. E tuttavia gli pareva davvero, che provenissero dal suo intimo. Le poche parole che l'amico di Basil gli aveva detto, parole senza dubbio casuali e volutamente paradossali, avevano toccato qualche corda segreta che non era mai stata toccata prima, ma che ora sentiva vibrare e sussultare di uno strano fremito.
Nell'identico modo l'aveva colpito la musica: ne era stato molte volte sconvolto, ma la musica non è articolata, non crea in noi un nuovo mondo, quanto piuttosto un nuovo caos. Parole! Semplici parole! Quant'erano terribili! Quant'erano chiare, vivide, crudeli! Ad esse non si poteva sfuggire. E tuttavia quale sottile magia contenevano. Sembravano capaci di dare forma plastica a cose informi, sembravano possedere una musica loro, propria, dolce come quella della viola o del flauto. Semplici parole! C'era qualcosa di altrettanto reale quanto le parole?
Sì, nella sua adolescenza c'erano state cose che non aveva capito. Adesso le capiva. Improvvisamente la vita gli apparve del colore della fiamma. Gli sembrò di aver camminato fino a quel momento nel fuoco. Come mai non se ne era reso conto?
Lord Henry lo osservava con un leggero sorriso. Conosceva l'esatto momento psicologico in cui non bisognava dir nulla. Si sentì profondamente interessato. Lo stupiva l'intensa impressione provocata dalle sue parole e, ricordando un libro che aveva letto a sedici anni, un libro che gli aveva rivelato molte cose che non sapeva, si domandò se Dorian Gray non stesse attraversando la stessa esperienza. Aveva semplicemente scagliato una freccia in aria. Aveva colto il bersaglio? Quant'era affascinante quel ragazzo!
Hallward continuava a dipingere con quel suo tocco meravigliosamente sicuro, che possedeva l'autentica finezza e la perfetta delicatezza che nell'arte, in definitiva, vengono solo dalla forza. Non si accorgeva del silenzio.
"Basil, sono stanco di posare," si lamentò improvvisamente Dorian Gray. "Devo andare a sedermi in giardino. Qui si soffoca."
"Mio caro amico, mi dispiace davvero. Quando dipingo non penso ad altro. Ma non hai mai posato così bene. Stavi perfettamente immobile. E sono riuscito a cogliere l'effetto che volevo: le labbra semiaperte e questa luminosità nello sguardo. Non so che cosa ti stesse dicendo Harry, ma ti ha fatto assumere un'espressione meravigliosa. Immagino che ti abbia fatto dei complimenti. Non devi credere a una sola parola di quello che dice."
"Non mi ha fatto nessun complimento. Forse per questo non credo a nulla di ciò che mi ha detto."
"Sa benissimo di credere a tutto, invece," ribatté Lord Henry, fissandolo con quei suoi occhi languidi e sognanti. "La accompagnerò in giardino. Qui nello studio fa un caldo terribile. Basil, facci portare qualcosa di ghiacciato, qualcosa con delle fragole."
"Certo, Harry. Basta suonare il campanello e quando verrà Parker gli dirò che cosa desideri. Io devo lavorare allo sfondo e vi raggiungerò tra poco. Non trattenere troppo a lungo Dorian. Non ho mai dipinto bene come oggi. Questo sarà il mio capolavoro. Già adesso è il mio capolavoro."
Lord Henry uscì in giardino e trovò Dorian Gray che seppelliva il viso nei grandi freschi grappoli di lillà, bevendone il profumo come se fosse un vino. Gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. "Fa bene," mormorò. "Nulla guarisce l'anima salvo i sensi, come nulla guarisce i sensi salvo l'anima."
Il giovane ebbe uno scatto e arretrò. Era a capo scoperto e le foglie gli avevano scomposto i riccioli ribelli, sconvolgendone la trama dorata. Negli occhi aveva un'espressione di spavento, come capita a chi viene svegliato improvvisamente. Le narici finemente cesellate fremettero e un nervo invisibile scosse le labbra scarlatte lasciandole frementi.
"Sì," proseguì Lord Henry, "questo è uno dei grandi segreti della vita: guarire l'anima con i sensi e i sensi con l'anima. Lei è una meravigliosa creatura. Lei sa più di quanto crede di sapere, proprio come sa meno di quanto vuole sapere."
Dorian Gray aggrottò le sopracciglia e distolse il viso: non poteva fare a meno di subire il fascino del giovane alto e aggraziato che gli stava accanto. Lo interessavano il suo romantico viso olivastro e l'espressione esausta. La sua voce bassa e languida aveva qualcosa di assolutamente affascinante. Anche le mani, bianche e fresche come fiori, possedevano uno strano fascino: quando Lord Henry parlava, si muovevano come una musica e parevano esprimersi in una loro lingua. Ma Dorian aveva paura di lui e si vergognava di aver paura. Perché era stato uno sconosciuto a rivelarlo a se stesso? Conosceva da mesi Basil Hallward, ma l'amicizia che c'era tra loro non lo aveva mai turbato. Improvvisamente, nella sua vita era apparso qualcuno che pareva avergli rivelato i misteri della vita. E, comunque, di che cosa doveva aver paura? Non era né uno scolaretto né una ragazzina. La sua paura era assurda.
"Andiamo a sederci all'ombra," disse Lord Henry. "Parker ha portato fuori le bibite e se lei rimane ancora sotto questo riverbero si sciuperà e Basil non le farà più ritratti. Davvero, non deve lasciare che il sole l'abbronzi. Non le si addice."
"Che importanza ha?" esclamò Dorian Gray ridendo, mentre sedeva sulla panchina in fondo al giardino.
"Per lei dovrebbe significare tutto, signor Gray."
"Perché?"
"Perché lei ha una giovinezza meravigliosa e la giovinezza è l'unica cosa che vale la pena di avere."
"Non mi sembra, Lord Henry."
"No, non le sembra adesso. Un giorno, quando sarà vecchio, rugoso, brutto, quando il pensiero avrà segnato di rughe la sua fronte e quando la passione avrà marcato le sue labbra del suo orrendo fuoco, le sembrerà, le sembrerà terribilmente. Ora, dovunque vada, lei affascina il mondo. Sarà sempre così?... Ha un viso meraviglioso, signor Gray. Non si accigli: lo ha. E la bellezza è una manifestazione del genio. In realtà è più elevata del genio, perché non ha bisogno di spiegazioni. È una delle grandi cose del mondo, come la luce del sole o la primavera, o come il riflesso nell'acqua cupa di quella conchiglia argentea che chiamiamo luna. Non può venire contestata. Regna per diritto divino e rende principi coloro che la possiedono. Lei sorride? Ah! quando l'avrà perduta non sorriderà più... a volte la gente dice che la bellezza è solo superficiale. Può darsi. Ma perlomeno non è superficiale quanto il pensiero. Per me, la bellezza è la meraviglia delle meraviglie. Solo la gente mediocre non giudica dalle apparenze. Il vero mistero del mondo è ciò che si vede, non l'invisibile... Sì, signor Gray, gli dei le sono stati propizi. Ma ciò che gli dei danno, lo tolgono in fretta. Lei ha solo pochi anni da vivere realmente, perfettamente e pienamente. Quando la sua giovinezza se ne sarà andata, la sua bellezza la seguirà e allora improvvisamente si renderà conto che non ci saranno più trionfi per lei, oppure dovrà accontentarsi di quei mediocri trionfi che il ricordo del passato renderà amari più di sconfitte. Ogni mese che passa la avvicina a qualcosa di tremendo. Il tempo è geloso di lei e combatte contro i suoi gigli e le sue rose. Il suo colorito si spegnerà, le guance si incaveranno, gli occhi perderanno luminosità. Soffrirà, orrendamente... Ah! approfitti della giovinezza finché la possiede. Non sprechi l'oro dei suoi giorni ascoltando gente noiosa, cercando di migliorare un fallimento senza speranza o gettando la sua vita agli ignoranti, alla gente mediocre, ai malvagi. Questi sono gli obiettivi malsani, i falsi ideali della nostra società. Deve vivere! Vivere la vita meravigliosa che è in lei! Non lasci perdere nulla! Cerchi sempre sensazioni nuove. Non abbia paura di nulla... Un nuovo edonismo... ecco che cosa vuole il nostro secolo. Lei potrebbe esserne il simbolo palese. Con la sua personalità non c'è nulla che lei non possa fare. Il mondo le appartiene per una stagione... Quando l'ho conosciuta ho capito che lei non si rende conto di chi in realtà è, o di chi in realtà potrebbe essere. Così tante cose mi hanno affascinato in lei, che ho sentito di doverle comunicare qualcosa sul suo conto. Ho pensato quale tragedia sarebbe se lei sprecasse la sua vita. Perché la sua giovinezza sarà così breve... così breve. I semplici fiori di campo appassiscono, ma ritornano a fiorire. Il prossimo giugno l'avorio sarà giallo come ora. Tra un mese questa clematide sarà ricoperta di stelle purpuree e un anno dopo l'altro la verde notte delle sue foglie racchiuderà altre stelle purpuree. Ma la nostra giovinezza, non ritorna mai, i palpiti di gioia che battono dentro di noi a vent'anni si fanno confusi, le nostre membra si indeboliscono, i sensi si corrompono. Degeneriamo in ripugnanti fantocci, nell'ossessione del ricordo di passioni che abbiamo troppo temuto e di squisite tentazioni cui non abbiamo avuto il coraggio di abbandonarci. Giovinezza! Giovinezza! Non c'è assolutamente nulla al mondo, fuorché la giovinezza!"
Dorian Gray lo ascoltava meravigliato, a occhi spalancati. Dalle sue mani il ramo di lillà cadde sulla ghiaia; giunse un'ape vellutata, ronzò per un attimo intorno al grappolo, poi iniziò ad arrampicarsi sul globo ovale, stellato di piccoli fiori. La osservò con quello strano interesse per le cose prive di importanza che cerchiamo di sviluppare quando le cose importanti ci fanno paura, quando ci agita un'emozione nuova che non sappiamo esprimere, o quando un pensiero terrorizzante d'improvviso ci assedia la mente chiedendo la nostra resa. Dopo un poco l'ape volò via. La vide infilarsi nella tromba screziata di un convolvolo di Tiro. Il fiore parve rabbrividire, poi prese a oscillare dolcemente.
D'improvviso, sulla porta dello studio apparve il pittore e li invitò ad entrare con un gesto delle braccia tese. Lord Henry e Dorian Gray si guardarono negli occhi e sorrisero.
"Vi sto aspettando," esclamava Basil. "Entrate. La luce è perfetta, potete portare con voi i bicchieri."
Si alzarono e risalirono insieme il viale. Alle loro spalle svolazzavano due farfalle bianche e verdi, sul pero nell'angolo del giardino un tordo fischiò.
"È contento di avermi incontrato, signor Gray?" disse Lord Henry, fissandolo.
"Sì, sono contento, ora. Mi domando se lo sarò sempre."
"Sempre! Che parola tremenda. Mi fa rabbrividire ogni volta che la sento. Alle donne piace moltissimo usarla. Rovinano tutto ciò che vi è di romantico cercando di farlo durare in eterno. E poi è una parola priva di significato. L'unica differenza tra un capriccio e la passione di una vita è che il capriccio dura un po' più a lungo."
Mentre entravano nello studio, Dorian Gray posò una mano sul braccio di Lord Henry. "In questo caso, speriamo che la nostra amicizia sia un capriccio," mormorò, arrossendo della propria audacia. Salì sulla piattaforma, rimettendosi in posa.
Lord Henry si lasciò cadere in una grande poltrona di vimini e lo osservò. Gli unici rumori che rompevano il silenzio erano i colpetti leggeri e i fruscii del pennello sulla tela, salvo quando, ogni tanto, Hallward indietreggiava per osservare a distanza il lavoro. Il pulviscolo dorato danzava nei raggi di sole che fluivano obliqui dal finestrone aperto. Su ogni cosa pareva incombere l'intenso odore delle rose.
Dopo circa un quarto d'ora Hallward smise di dipingere e con le sopracciglia aggrottate osservò lungamente Dorian Gray poi a lungo il quadro, mordendo l'estremità di uno dei suoi grossi pennelli. "È completamente finito," esclamò alla fine e, chinatosi, scrisse il suo nome a lunghe lettere vermiglie nell'angolo sinistro della tela.
Lord Henry si avvicinò ed esaminò il quadro. Senza dubbio era una meravigliosa opera d'arte e anche la rassomiglianza era meravigliosa.
"Mio caro amico, ti faccio le mie più vive congratulazioni," disse. "È il più bel ritratto dell'epoca moderna. Signor Gray, venga e si guardi."
Il giovane ebbe un sussulto, come se si fosse destato da un sogno. "È davvero finito?" mormorò scendendo dalla piattaforma.
"Completamente finito," ripeté il pittore. "E oggi hai posato magnificamente. Te ne sono davvero riconoscente."
"È tutto merito mio," intervenne Lord Henry. "Non è vero signor Gray?"
Dorian non rispose, ma passò con aria svogliata davanti al quadro e si voltò per osservarlo. Quando lo vide arretrò leggermente e per un attimo arrossì di piacere. Gli occhi gli si illuminarono di gioia, come se per la prima volta si fosse riconosciuto. Rimase immobile, stupito. Sentiva debolmente che Hallward gli diceva qualcosa, ma non capiva il significato delle parole. Il senso della sua bellezza lo colpì come una rivelazione. Non se ne era mai reso conto, prima. I complimenti di Basil Hallward gli erano sembrati solo le piacevoli esagerazioni di un amico; li aveva ascoltati, ne aveva riso, li aveva dimenticati. Non avevano avuto nessuna influenza sul suo carattere. Poi era venuto Lord Henry Wotton con quel suo strano panegirico sulla giovinezza e il terribile avvertimento della sua brevità. Sul momento la cosa lo aveva colpito e ora, mentre contemplava l'ombra della propria bellezza, la piena realtà di quella descrizione lo attraversò come un lampo. Sì, un giorno il suo volto sarebbe divenuto rugoso e avvizzito, gli occhi deboli e scoloriti, la grazia della sua figura rotta e deforme. Le labbra avrebbero perduto il colore scarlatto, l'oro sarebbe scomparso dai capelli. La vita, che avrebbe formato la sua anima, avrebbe distrutto il suo corpo. Sarebbe diventato orribile, ripugnante, goffo.
Mentre pensava a queste cose, un'acuta fitta di dolore lo attraversò come una coltellata, facendo rabbrividire ogni nervo della sua delicata natura. Gli occhi assunsero un color ametista e li velò una nebbia di lacrime. Gli sembrò che una mano di ghiaccio gli avesse stretto il cuore.
"Non ti piace?" esclamò finalmente Basil Hallward un poco colpito dal silenzio del giovane e non comprendendone il motivo.
"Certo che gli piace," disse Lord Henry. "A chi non piacerebbe? È una delle migliori opere dell'arte moderna. Ti darò tutto quello che vorrai chiedermi. Devo averlo."
"Non è mio, Harry."
"E di chi é?"
"Di Dorian, naturalmente," rispose il pittore.
"È davvero un individuo fortunato."
"Che cosa triste!" mormorò Dorian Gray, sempre tenendo gli occhi fissi sul ritratto. "Che cosa triste! Io diventerò vecchio, orribile, disgustoso, ma questo quadro resterà sempre giovane. Non sarà mai più vecchio di quanto è oggi, in questa giornata di giugno... Se solo potesse essere il contrario! Se potessi io rimanere sempre giovane e invecchiasse il quadro, invece! Per questo... per questo darei qualunque cosa! Sì, non c'è nulla al mondo che non darei! Darei l'anima!"
"Non credo che saresti soddisfatto di un accordo del genere, Basil," esclamò Lord Henry, ridendo. "Sarebbe una brutta fine per il tuo quadro."
"Sarei nettamente contrario, Harry," disse Hallward.
Dorian Gray si voltò verso di lui e lo guardò. "Lo credo, Basil. Preferisci la tua arte ai tuoi amici. Per te non valgo più di una statuetta di bronzo patinato. Anche meno, oserei dire."
Il pittore lo guardò sconcertato. Era così insolito in Dorian un linguaggio simile. Che cosa era successo? Sembrava piuttosto arrabbiato. Era rosso in volto e aveva le guance ardenti.
"Sì," proseguì, "per te valgo meno del tuo Hermes d'avorio o del tuo fauno d'argento. Quelli ti piaceranno sempre, ma per quanto ti piacerò io? Fino al giorno in cui mi apparirà la prima ruga, immagino. Adesso so che quando si perde la bellezza, qualunque essa sia, si perde tutto. Me lo ha insegnato il tuo quadro. Lord Henry Wotton ha perfettamente ragione. La giovinezza è l'unica cosa che vale la pena di possedere. Quando mi accorgerò di invecchiare mi ucciderò."
Hallward impallidì e gli afferrò la mano. "Dorian! Dorian!" esclamò, "non dire queste cose. Non ho mai avuto un amico come te, e non ne avrò mai un altro. Tu non sei geloso delle cose materiali, non è vero? Tu che sei più bello di tutte loro!"
"Sono geloso di tutto ciò la cui bellezza non muore. Sono geloso del ritratto che hai dipinto. Perché dovrebbe conservare quello che io devo perdere? Ogni attimo che passa toglie qualcosa a me e dà qualcosa al ritratto. Oh, se solo potesse accadere l'inverso! Se il quadro cambiasse e io potessi rimanere come sono adesso! Perché lo hai dipinto? Un giorno mi deriderà... mi deriderà orribilmente!" Calde lacrime gli salirono agli occhi. Strappò la mano da quella di Basil e, lasciatosi cadere sul divano, seppellì il volto tra i cuscini come se pregasse.
"Questo è opera tua, Harry," disse il pittore amaramente.
Lord Henry scosse le spalle. "È il vero Dorian Gray... Tutto qui."
"No, non è il vero Dorian Gray."
"Se non lo è, io che cosa c'entro?"
"Avresti dovuto andartene quando te l'ho chiesto," mormorò Basil.
"Sono rimasto quando me lo hai chiesto," fu la risposta di Lord Henry.
"Harry, non posso litigare contemporaneamente con i miei due migliori amici, ma fra tutti e due mi avete fatto odiare l'opera più bella che ho mai fatto e quindi la distruggerò. Che cos'è se non tela e colore? Non permetterò che si metta tra le nostre tre vite e le rovini."
Dorian Gray sollevò dai cuscini la testa dai capelli d'oro e guardò, pallido in viso e con gli occhi gonfi di lacrime, il pittore che si avvicinava al tavolo di lavoro di abete, sistemato di fronte agli alti tendaggi della finestra. Che cosa intendeva fare? Le sue dita vagavano alla ricerca di qualche cosa nella confusione di tubetti di stagno, di pennelli asciutti. Sì, cercava la lunga spatola dalla sottile lama dì acciaio flessibile. Alla fine la trovò. Stava per fare a pezzi la tela.
Con un singhiozzo soffocato il giovane balzò dal divano e, precipitatosi addosso a Hallward, gli strappò la lama dalle mani e la gettò in fondo allo studio. "No, Basil, non farlo!" gridò. "Sarebbe un delitto!"
"Sono contento che finalmente tu apprezzi il mio lavoro, Dorian," disse freddamente il pittore, quando si fu ripreso dalla sorpresa. "Non l'avrei mai pensato."
"Apprezzare il tuo lavoro? Ne sono innamorato, Basil. È parte di me, lo sento."
"Bene, non appena sarai asciutto, ti vernicerò, ti metterò la cornice e ti manderò a casa. Allora potrai fare di te stesso quello che più ti piacerà." Attraversò la stanza e suonò il campanello per il tè. "Prendi il tè, naturalmente, Dorian? E anche tu, Harry? O avete qualcosa da obiettare contro questi semplici piaceri?"
"Adoro i piaceri semplici," disse Lord Henry. "Sono l'ultimo rifugio delle cose complicate. Ma non mi piacciono le scenate fuorché sul palcoscenico. Che personaggi assurdi siete, tutti e due! Mi domando chi ha mai detto che l'uomo è un animale ragionevole. È stata la definizione più prematura che sia stata data. L'uomo è molte cose, ma non è ragionevole. Del resto, sono contento che non lo sia: avrei preferito che voi due, ragazzetti, non vi azzuffaste a proposito del quadro. Sarebbe stato meglio se tu lo avessi dato a me, Basil. Questo stupido ragazzo in realtà non lo desidera, mentre io sì"
"Se lo dai a qualcun altro, Basil, non ti perdonerò mai!" gridò Dorian Gray, "e non permetto a nessuno di chiamarmi uno stupido ragazzo."
"Sai che il quadro è tuo, Dorian. Te l'ho dato prima ancora che esistesse."
"E lei sa di essere stato leggermente stupido, signor Gray, e sa anche che, in realtà, non le dà affatto fastidio sentirsi ricordare che è molto giovane."
"Avrei avuto moltissimo da obiettare questa mattina, Lord Henry."
"Ah, questa mattina! Da allora lei ha vissuto."
Si sentì bussare alla porta e il maggiordomo entrò reggendo il vassoio del tè che posò su un minuscolo tavolo giapponese. Si udì il tintinnio delle tazze e dei piattini e il sibilo sommesso di un samovar georgiano. Un ragazzo reggeva due ciotole di porcellana cinese. Dorian Gray si mosse e versò il tè. I due uomini si avvicinarono lentamente al tavolino ed esaminarono che cosa c'era sotto i coperchi.
"Andiamo a teatro, stasera," disse Lord Henry. "Deve esserci senz'altro qualcosa, da qualche parte. Ho promesso di pranzare da White, ma si tratta solo di un vecchio amico e quindi posso avvertirlo con un telegramma che sono malato o che non posso andare a causa di un impegno preso successivamente. Penso che questa sia una scusa molto bella: avrebbe in sé tutta la sorpresa dell'innocenza."
"È così noioso dover indossare l'abito da sera," bofonchiò Hallward. "E poi quando lo si ha indossato è così orrendo."
"Sì," rispose Lord Henry con aria sognante, "il modo di vestire del diciannovesimo secolo è detestabile. È così scialbo, così deprimente. L'unico elemento di colore che sia rimasto nella vita moderna è il peccato."
"Non dovresti proprio dire queste cose davanti a Dorian, Harry."
"Davanti a quale Dorian? Quello che ci sta versando del tè o quello del quadro?"
"Davanti ad ambedue."
"Mi piacerebbe venire a teatro con lei, Lord Henry," disse il ragazzo.
"Venga, allora. E verrai anche tu, Basil, non è vero?"
"Proprio non posso. Preferirei di no. Ho molto lavoro da fare."
"Bene, allora andremo noi due soli, signor Gray."
"Mi farebbe moltissimo piacere."
Il pittore si morse il labbro e tenendo la tazza in mano si avvicinò al ritratto. "Io resterò con il vero Dorian," disse tristemente.
"È proprio il vero Dorian?" esclamò, dirigendosi verso di lui, l'originale del ritratto. "Sono davvero cosi?"
"Sì, sei proprio così."
"È meraviglioso, Basil!"
"Perlomeno in apparenza sei così. Ma il ritratto non cambierà mai," sospirò Hallward. "È già qualcosa."
"Quante storie si fanno sulla fedeltà!" esclamò Lord Henry. "Pensa, anche in amore è semplicemente una questione di fisiologia. Non ha nulla a che fare con la nostra volontà. I giovani vorrebbero essere fedeli e non lo sono; i vecchi vorrebbero essere infedeli e non possono. È tutto quello che se ne può dire."
"Dorian, non andare a teatro questa sera," disse Hallward. "Rimani qui a cena con me."
"Non posso, Basil."
"Perché?"
"Perché ho promesso a Lord Henry Wotton di andare con lui."
"Non gli piacerai di più per il fatto di mantenere le tue promesse. Lui non mantiene mai le sue. Ti prego di non andare."
Il giovane esitò e lanciò un'occhiata in direzione di Lord Henry che, accanto al tavolino da tè, li stava osservando con un sorriso divertito.
"Devo andare, Basil," rispose.
"Molto bene," disse Hallward. Si mosse e posò la tazza sul tavolino. "È piuttosto tardi e, dato che vi dovete vestire, è meglio che non perdiate tempo. Arrivederci, Harry. Arrivederci Dorian. Venite presto a trovarmi. Domani."
"Certamente."
"Non te ne dimenticherai?"
"No, certamente no," esclamò Dorian.
"E... Harry!"
"Sì, Basil?"
"Ricorda quello che ti ho chiesto questa mattina, quando eravamo in giardino."
"Me ne sono dimenticato."
"Mi fido di te."
"Vorrei potermi fidare anch'io di me," disse Lord Henry, ridendo. "Venga, signor Gray. La mia carrozza è qui fuori e posso accompagnarla a casa. Arrivederci, Basil. È stato un pomeriggio molto interessante."
Appena la porta si fu chiusa alle loro spalle, il pittore si lasciò cadere su un divano e sul viso gli apparve un'espressione di sofferenza.
III
Il giorno dopo, alle dodici e mezzo, Lord Henry Wotton fece una passeggiata da Curzon Street ad Albany per trovare suo zio, Lord Fermor, uno scapolo allegro anche se di modi un po' bruschi, definito egoista dagli estranei, perché da lui non traevano nessun particolare vantaggio, ma generoso dalla società, perché offriva il pranzo a chi lo divertiva. Il padre era stato ambasciatore inglese a Madrid quando era giovane Isabella e non si pensava ancora a Prim, ma si era poi ritirato dal corpo diplomatico per capriccio, seccato perché non gli era stata offerta l'ambasciata di Parigi, posto che riteneva gli spettasse di diritto per la nascita, l'indolenza, il buon inglese dei suoi rapporti e la disordinata passione per i piaceri. Il figlio, che era segretario del padre, aveva dato le dimissioni insieme al suo superiore, un po' scioccamente come si pensò allora, e, avendo ereditato il titolo pochi mesi dopo, si era seriamente dedicato allo studio della grande arte aristocratica di non fare assolutamente nulla. Possedeva due grandi case in città, ma preferiva vivere in appartamenti d'affitto perché aveva meno seccature e pranzava quasi sempre al club. Dedicava qualche attenzione alla direzione delle sue miniere di carbone nel Midland e si scusava di questo suo vizio industriale col dire che l'unico vantaggio di possedere del carbone era che esso permetteva a un gentiluomo il decoro di bruciare legna nel caminetto. In politica era conservatore, salvo quando i conservatori erano al governo. Allora li accusava esplicitamente di essere un mucchio di radicali. Per il suo cameriere, che lo tiranneggiava, era un eroe e un terrore per la maggior parte dei suoi parenti, che a sua volta tiranneggiava. Avrebbe potuto nascere solo in Inghilterra, e ripeteva di continuo che il paese stava andando in malora. I suoi principi erano antiquati e anche a proposito dei suoi pregiudizi ci sarebbe stato molto da dire.
Quando Lord Henry entrò nella stanza, trovò lo zio, con un ruvido abito da caccia, seduto in poltrona e intento a fumare un sigaro brontolando sul Times. "Bene Henry," disse il vecchio gentiluomo, "come mai sei uscito così presto? Pensavo che voi dandies non vi alzaste mai prima delle due e che non vi si potesse vedere prima delle cinque."
"Puro affetto familiare, ti assicuro, zio George. Ho bisogno di qualche cosa da te."
"Soldi, immagino," disse Lord Fermor assumendo un'espressione brusca. "Bene, siediti e parlamene. Oggigiorno i giovani pensano che il denaro sia tutto."
"Sì," mormorò Lord Henry, slacciando il bottone della giacca, "e quando invecchiano se ne rendono conto. Ma non voglio soldi. Solo la gente che paga i propri conti ne ha bisogno, zio George, e io, i miei, non li pago mai. Il credito è il capitale di un figlio cadetto sul quale è possibile vivere piuttosto bene. Inoltre, tratto sempre con i negozianti di Dartmoor e così non mi seccano mai. Vorrei una informazione, invece, non un'informazione utile naturalmente: un'informazione inutile."
"Bene, posso dirti qualunque cosa scritta in un Libro Azzurro inglese, Harry, anche se la gente oggi scrive un sacco di assurdità. Quando ero in diplomazia, le cose andavano molto meglio. Ma sento che ora si viene ammessi per concorso. Che cosa puoi aspettarti? Gli esami, signori, sono una farsa dall'inizio alla fine. Se uno è un gentiluomo, ne sa quanto basta, e se non lo è, tutto quello che sa va a suo demerito."
"Il signor Dorian Gray non è sui Libri Azzurri, zio George," disse Lord Henry pianamente.
"Il signor Dorian Gray? E chi è?" domandò Lord Fermor aggrottando le folte sopracciglia bianche.
"È questo che volevo sapere da te, zio George. O piuttosto, so chi è. È il nipote dello scomparso Lord Kelso. Sua madre era una Devereux, Lady Margaret Devereux. Voglio che mi parli di sua madre. Com'era? Chi ha sposato? Ai tuoi tempi conoscevi quasi tutti e quindi dovresti saperlo. In questo momento il signor Dorian Gray mi interessa molto. Lo conosco da pochissimo."
"Il nipote di Kelso!" ripeté il vecchio gentiluomo. "Il nipote di Kelso!... Certo... conoscevo sua madre intimamente. Mi pare che sia stato al suo battesimo. Era una ragazza straordinariamente bella, Margaret Devereux, e lasciò tutti gli uomini costernati quando se ne scappò con un tipo senza una lira. Un nessuno, signori, un ufficiale subalterno di un reggimento di fanteria o roba del genere. Certo. Ricordo tutta la storia come se fosse avvenuta ieri. Quel povero giovanotto, rimase ucciso in un duello a Spa, pochi mesi dopo il matrimonio. Una brutta storia. Si disse che Kelso aveva pagato un avventuriero delinquente, un animale belga perché insultasse in pubblico suo genero. Lo pagò, signori, lo pagò perché facesse questo. E quel tizio infilò il suo uomo come un piccione. La cosa venne messa a tacere ma, perdio, dopo questa faccenda, al club Kelso le sue bistecche per qualche tempo se le mangiò da solo. Riprese la figlia con sé, ma lei non gli rivolse più la parola. Oh, sì, una brutta faccenda. Anche la ragazza morì, morì meno di un anno dopo. E lasciò un figlio, non è vero? Me ne ero dimenticato. Com'è il ragazzo? Se assomiglia alla madre deve esser un bel ragazzo."
"È molto bello."
"Spero che capiti in buone mani," proseguì il vecchio, "Se Kelso nei suoi confronti si è comportato come si deve erediterà un bel mucchio di soldi. Anche sua madre era ricca. Ereditò l'intera proprietà di Selby dal nonno. Il nonno odiava Kelso. Lo considerava un bastardo. E del resto lo era. Venne una volta a Madrid, quando, io ero là. Perdio, mi vergognai di lui. La regina mi domandava di continuo notizie di quel nobile inglese che litigava sempre sul prezzo con i cocchieri. Era diventato un argomento diffuso di conversazione. Per un mese non osai mettere piede a corte. Spero che abbia trattato il nipote meglio di quei vetturini."
"Non so," rispose Lord Henry. "Immagino che il ragazzo sia in buone condizioni economiche. Non è ancora maggiorenne. So che è proprietario di Selby. Me lo ha detto lui. E... sua madre era bellissima?"
"Margaret Devereux era una delle creature più belle che io abbia mai visto Henry. Non riuscii mai a capire che cosa la spinse a comportarsi in quel modo. Avrebbe potuto sposare chi voleva. Carlington era impazzito per lei. Però era romantica, lo erano tutte le donne della sua famiglia. Gli uomini erano delle nullità, ma, perdio, le donne erano meravigliose. Carlington andò da lei in ginocchio; me lo disse, lui stesso. Lei gli rise in faccia e a quel tempo a Londra non c'era una ragazza che non gli desse la caccia. E, dato che stiamo parlando di matrimoni sciocchi, che cos'è questa storia che mi ha riferito tuo padre a proposito di Dartmoor che vuole sposare un'americana? Le ragazze inglesi non sono abbastanza buone per lui?"
"In questo momento è molto di moda sposare le americane, zio George."
"Io sosterrò le donne inglesi contro tutto il mondo, Harry," disse Lord Fermor, battendo il pugno sul tavolo.
"Si punta sulle americane."
"Ma si dice che non durano," bofonchiò lo zio.
"Non reggono alla distanza, ma nella corsa ad ostacoli non le batte nessuno. Prendono le cose al volo. Non credo che Dartmoor abbia nessuna possibilità di cavarsela."
"Chi sono i suoi genitori?" brontolò il vecchio. "Ne ha, perlomeno?"
"Le ragazze americane sono brave nel nascondere i genitori tanto quanto le donne inglesi nel nascondere il loro passato," disse alzandosi per andarsene.
"Immagino che vendano carne di maiale in scatola."
"Lo spero, zio George, nell'interesse di Dartmoor. Mi si dice che inscatolare il maiale è in America la professione più lucrosa, dopo la politica."
"È graziosa?"
"Si comporta come se fosse bella. Quasi tutte le americane lo fanno: è il segreto del loro fascino."
"E perché non se ne possono stare nel loro paese queste americane? Non fanno altro che ripeterci che è il paradiso delle donne."
"È vero. Proprio per questo, come Eva, sono eccessivamente ansiose di uscirne," disse Lord Henry. "Arrivederci, zio George. Se rimango ancora farò tardi a colazione. Grazie per avermi dato le informazioni che volevo sapere. Mi piace sempre saper tutto dei miei nuovi amici e nulla dei vecchi."
"Da chi sei a colazione?"
"Da zia Agatha. Le ho chiesto di invitarmi insieme al signor Gray: è il suo ultimo protegé."
"Uff! Devi dire alla tua zia Agatha di non seccarmi più con le sue richieste per beneficenza. Mi danno la nausea. Quella brava donna pensa che io non abbia di meglio da fare che firmare assegni per i suoi stupidi capricci."
"D'accordo, zio George, glielo riferirò, ma sarà inutile. I filantropi perdono ogni senso di umanità: è la loro caratteristica distintiva."
Il vecchio gentiluomo emise un grugnito di approvazione e suonò per il cameriere. Lord Henry passò sotto la bassa arcata che immette in Burlington Street e si incamminò verso Berkeley Square.
Questa dunque era la storia della famiglia di Dorian Gray. Nonostante la crudezza con cui gli era stata riferita, lo attirava per questa sua atmosfera insolitamente moderna e romantica. Una bella donna che metteva tutto a repentaglio per una passione folle. Poche settimane di sfrenata felicità, troncate da un delitto vile e odioso. Dopo mesi di silenziosa sofferenza, un figlio nato nel dolore. La madre strappata via dalla morte, il figlio abbandonato alla solitudine e alla tirannia di un vecchio incapace di amore. Sì, un passato interessante: inquadrava il giovane, lo rendeva per così dire più perfetto. Dietro ogni cosa squisita c'era sempre qualcosa di tragico. Interi mondi dovevano agire per far fiorire un minuscolo fiore... E quanto era stato affascinante la sera prima, durante la cena al club, seduto di fronte a lui con gli occhi stupiti, le labbra socchiuse in uno stato di gioia e di timore. I paralumi rossi diffondevano un rosa più intenso sulla nascente meraviglia del suo viso. Parlare con lui era come suonare un meraviglioso violino: rispondeva a ogni tocco, a ogni fremito dell'archetto... c'era qualcosa di tremendamente esaltante nell'esercitare la propria influenza. Nessun'altra attività la eguagliava. Proiettare la propria anima in una forma piena di grazia e lasciarvela indugiare per un momento; sentir ritornare l'eco delle nostre idee insieme a tutta la musica della passione e della giovinezza; trasferire il proprio temperamento in un'altra persona come se fosse un fluido sottile o uno strano profumo. C'era una vera gioia in tutto ciò: forse la più completa che ci sia rimasta in un'epoca limitata e volgare come la nostra, un'epoca grossolanamente carnale nei suoi piaceri, grossolanamente volgare nelle sue ambizioni... Ed era anche un personaggio meraviglioso, questo ragazzo incontrato nello studio di Basil in un'occasione così insolita; o, comunque, lo si sarebbe potuto trasformare in un personaggio meraviglioso. Possedeva la grazia e la bianca purezza dell'infanzia e una bellezza simile a quella che ci hanno serbato i grandi marmi greci. Di lui si sarebbe potuto fare qualsiasi cosa: lo si poteva rendere un titano o un giocattolo. Che peccato che una bellezza simile fosse destinata ad appassire!... E Basil? Quant'era interessante da un punto di vista psicologico! Questo suo nuovo stile, questo suo nuovo modo di guardare la vita, suggeriti così stranamente dalla semplice presenza di un giovane che non ne aveva la minima consapevolezza; lo spirito silenzioso che abita nella penombra dei boschi e che si avventura non visto tra i campi aperti, gli era apparso improvvisamente come una driade, senza timori perché, nella sua anima che lo cercava, si era risvegliata quella meravigliosa percezione a cui soltanto si rivelano le cose meravigliose; le mere forme e strutture delle cose che, per così dire, si vanno affinando e acquistano una sorta di valore simbolico, come se esse stesse fossero modelli di altre forme più perfette la cui ombra rendevano reale. Quant'era strano tutto questo! Ricordava qualcosa di simile nella storia. Non era forse Platone, l'artista del pensiero, che l'aveva analizzato per primo? Non era forse Michelangelo che lo aveva scolpito nei marmi colorati di un sonetto? Ma nel nostro secolo era strano... Sì, avrebbe cercato di essere per Dorian Gray quello che il ragazzo era per il pittore che aveva dipinto quel meraviglioso ritratto. Avrebbe cercato di dominarlo... e, in realtà, a metà ci era riuscito. Avrebbe fatto suo quel meraviglioso spirito. C'era qualcosa di affascinante in quel figlio dell'amore e della morte.
D'improvviso si fermò e diede un'occhiata alle cose. Si accorse di aver oltrepassato di un pezzo la casa di sua zia e, sorridendo di sé, ritornò sui suoi passi. Quando entrò nel vestibolo un po' buio, il maggiordomo lo avvertì che il pranzo era già iniziato. Consegnò bastone e cappello a uno dei valletti ed entrò in sala da pranzo.
"In ritardo come al solito, Harry," esclamò la zia scuotendo il capo.
Inventò senza difficoltà una scusa e, dopo essersi accomodato nella sedia vuota accanto a lei, si guardò intorno per vedere chi c'era. Dal fondo della tavola, Dorian gli fece un timido inchino, arrossendo di piacere. Di fronte a lui c'era la duchessa di Harley, una signora di ottimo carattere e di ottima salute che piaceva molto a tutti quelli che la conoscevano, dotata di quelle imponenti proporzioni architettoniche che gli storici contemporanei, nelle donne che non sono duchesse, definiscono pinguedine. Alla sua destra sedeva Sir Thomas Burdon, membro radicale del Parlamento che nella vita pubblica seguiva il suo leader e nella vita privata i migliori cuochi: pranzava coi conservatori e pensava con i liberali, secondo una saggia e ben nota regola. Il posto alla sinistra della duchessa era occupato dal signor Erskine di Treadley, un vecchio gentiluomo di notevole fascino e cultura che, tuttavia, aveva preso la cattiva abitudine di tacere perché, come aveva spiegato una volta a zia Agatha, tutto quello che aveva da dire lo aveva detto prima dei trent'anni. La sua vicina era la signora Vandelour, una delle più vecchie amiche di zia Agatha, santa tra le donne, ma vestita talmente male che faceva pensare a un libro di preghiere mal rilegato. Fortunatamente per il signor Erskine, accanto alla signora Vandelour era seduto Lord Faudel, un'intelligentissima mediocrità, vivace come una relazione ministeriale alla Camera dei Comuni, con il quale la donna stava parlando in quel tono estremamente serio che, come aveva notato una volta, era l'unico imperdonabile errore in cui cadono tutte le persone davvero buone, e al quale nessuna di loro riesce a sfuggire.
"Stavamo parlando di quel povero Dartmoor, Lord Henry," esclamò la duchessa facendogli un cenno affabile attraverso la tavola. "Lei pensa che voglia davvero sposare quella bella ragazza?"
"Penso, duchessa, che lei abbia deciso di chiedergli la sua mano."
"Che cosa terribile!" esclamò Lady Agatha. "Davvero, qualcuno dovrebbe intervenire."
"Ho saputo da ottima fonte che il padre ha un negozio di manufatti americani," disse Sir Thomas Burdon in tono arrogante.
"Mio zio poco fa ha suggerito che forse produce maiale in scatola, Sir Thomas."
"Manufatti americani! Che cosa sono i manufatti americani?" domandò la duchessa, sollevando le grandi mani in un gesto di meraviglia calcando il tono sul verbo.
"Romanzi americani," rispose Lord Henry servendosi qualche quaglia.
La duchessa parve perplessa.
"Non dargli retta, cara," sussurrò Lady Agatha. "Non parla mai sul serio."
"Quando l'America fu scoperta," disse il deputato radicale e iniziò a esporre alcuni fatti tediosi. Come tutti coloro che cercano di esaurire un argomento, esauriva i suoi ascoltatori. La duchessa sospirò ed esercitò il suo privilegio d'interruzione. "Vorrei proprio che non fosse mai stata scoperta!" esclamò. "Davvero, le nostre ragazze non hanno più possibilità al giorno d'oggi. È terribilmente ingiusto."
"Forse, dopotutto, l'America non è mai stata scoperta," disse il signor Erskine. "Secondo me, è stata semplicemente identificata."
"Oh, ma io ho visto qualche esemplare delle abitanti," rispose la duchessa in tono vago. "Devo confessare che la maggior parte Sono molto graziose. E inoltre sono ben vestite. Comperano tutti i loro abiti a Parigi. Vorrei poter fare altrettanto."
"Si dice che gli americani buoni, quando muoiono, vadano a Parigi," ridacchiò Sir Thomas che aveva un ben fornito repertorio di battute stantie.
"Davvero! E dove vanno gli americani cattivi quando muoiono?" domandò la duchessa.
"Vanno in America," mormorò Lord Henry.
Sir Thomas aggrottò le sopracciglia. "Temo che suo nipote nutra dei pregiudizi su questo grande paese," disse rivolto a Lady Agatha. "Io l'ho percorso tutto in vetture messe a mia disposizione dalle autorità che, sotto questo aspetto, sono estremamente civili. Le assicuro che è un viaggio estremamente educativo."
"Ma a scopo educativo dovremmo proprio visitare Chicago?" domandò lamentosamente il signor Erskine. "Non me la sento di fare il viaggio."
Sir Thomas agitò una mano. "Il signor Erskine di Treadley ha il mondo nella sua libreria. A noi, persone pratiche, piace vedere direttamente le cose, non leggerne. Gli americani sono un popolo estremamente interessante. Sono dotati di uno spiccato buonsenso. Penso che questa sia la loro principale caratteristica. Sì, signor Erskine, sono dotati di uno spiccato buonsenso. Le assicuro che non fanno mai stupidaggini."
"Che cosa orrenda!" esclamò Lord Henry. "Posso sopportare la forza bruta, ma la ragione bruta è assolutamente insopportabile. C'è un che di sleale nel farne uso. È come tirare un colpo basso all'intelletto."
"Non la capisco," disse Sir Thomas arrossendo alquanto.
"Io sì, Lord Henry," mormorò con un sorriso il signor Erskine.
"I paradossi, a modo loro, vanno tutti molto bene..." ritorse il baronetto.
"Era un paradosso?" domandò il signor Erskine. "A me non sembra. Forse lo era. Ecco, la via dei Paradossi è anche la via della verità. Per saggiare la realtà dobbiamo farla camminare sulla corda tesa. Quando le verità si fanno acrobati, possiamo darne un giudizio."
"Santo cielo," disse Lady Agatha, "in che modo discutete, voi uomini! Non riesco mai a capire di che cosa stiate parlando. Oh, Harry, sono piuttosto arrabbiata con te. Perché cerchi di convincere il nostro caro signor Dorian Gray a lasciar perdere l'East End? Ti assicuro che sarebbe un elemento prezioso. Lo ascolterebbero suonare con molto piacere."
"Voglio che suoni per me," disse Lord Henry, sorridendo. Lanciò una breve occhiata verso l'estremità della tavola e colse uno sguardo radioso in risposta.
"Ma sono così infelici a Whitechapel," insistette Lady Agatha.
"Posso aver compassione per tutto tranne che per la sofferenza," disse Lord Henry, scuotendo le spalle. "Per la sofferenza proprio non posso: è troppo brutta, troppo orribile, troppo tormentosa. Nella simpatia odierna per il dolore c'è qualcosa di tremendamente morboso. Si dovrebbe solidarizzare con il colore, con la bellezza, con la gioia di vivere. Quanto meno si parla dei dolori della vita, tanto meglio."
"Tuttavia l'East End rimane un problema importante," notò Sir Thomas scuotendo gravemente il capo.
"Certo," rispose il giovane Lord. "È il problema della schiavitù e noi cerchiamo di risolverlo divertendo gli schiavi."
L'uomo politico lo fissò. "E allora che cambiamenti proporrebbe lei?"
Lord Henry rise. "Non desidero cambiare nulla in Inghilterra, salvo il clima," rispose. "Mi basta e mi soddisfa la contemplazione filosofica ma, dato che il diciannovesimo secolo è fallito per troppa compassione, suggerisco di rivolgersi alla scienza perché ci rimetta in strada. Le emozioni hanno il vantaggio di condurci fuori strada, mentre il vantaggio della scienza è quello di essere priva di emozioni."
"Ma abbiamo delle così grandi responsabilità," azzardò timidamente la signora Vandelour.
"Tremendamente gravi," fece eco Lady Agatha.
Lord Henry spostò lo sguardo sul signor Erskine.
L'umanità si prende troppo sul serio. È il peccato originale del mondo. Se l'uomo delle caverne fosse stato capace di ridere, la storia sarebbe stata diversa."
"Lei mi consola moltissimo," cinguettò la duchessa. "Ogni volta che vengo a trovare sua zia mi sento sempre in colpa perché non provo nessun interesse per l'East End. In futuro potrò guardarla in faccia senza arrossire."
"Il rossore dona molto, duchessa," fece notare Lord Henry.
"Solo quando si è giovani," lei rispose. "Quando una vecchia come me arrossisce è un gran brutto segno. Ah, Lord Henry, vorrei che lei mi insegnasse come si fa a tornare giovani."
Lord Henry rifletté un momento. "Riesce a ricordare qualche grosso errore commesso in gioventù, duchessa?" le domandò, guardandola attraverso la tavola.
"Moltissimi, temo," esclamò la duchessa.
"E allora tornate a commetterli," disse Lord Henry gravemente. "Per ritornare giovani, basta ripetere le proprie follie."
"Una teoria deliziosa!" esclamò la duchessa. "Devo metterla in pratica."
"Una teoria pericolosa!" uscì dalle labbra tese di Sir Thomas. Lady Agatha scosse il capo ma suo malgrado si divertiva. Il signor Erskine ascoltava.
"Sì" proseguì, "questo è uno dei grandi segreti della vita. Al giorno d'oggi la maggior parte della gente muore come se fosse subdolamente colpita da un attacco di buon senso. Solo quando è troppo tardi si accorge che le uniche cose che non si rimpiangono sono le proprie follie."
Una risata corse per la tavola.
Giocò con l'idea, appassionandosi. La lanciò per aria trasformandola, se la lasciò sfuggire e la ricatturò, la rese iridescente con la fantasia, le diede le ali del paradosso. Proseguì, e l'elogio della follia si elevò a filosofia, la filosofia stessa ritornò giovane e, catturata dalla folle musica del piacere, indossando, come si potrebbe immaginare, una tunica macchiata di vino e cinta d'edera, danzò come una baccante sui monti della vita, sbeffeggiando la sobrietà del pigro Sileno. Dinnanzi a lei i fatti fuggivano come spaventate creature della foresta e i suoi bianchi piedi pigiavano nell'enorme tino accanto al quale siede il saggio Omar, finché lo spumeggiante succo dell'uva sali attorno alle gambe nude in onde di bolle purpuree o sotto forma di rossa schiuma traboccò dagli scuri fianchi inclinati e gocciolanti del tino. Era una straordinaria improvvisazione. Lord Henry sentiva fissi su di sé gli occhi di Dorian Gray e la consapevolezza che nell'uditorio c'era una persona che desiderava affascinare sembrava rendere più incisivo il suo spirito e dar colore alla sua fantasia. Era brillante, fantastico, irresponsabile. Affascinava gli ascoltatori che, dimentichi di sé, seguivano ridendo il suo flauto. Dorian Gray non gli toglieva lo sguardo di dosso ma se ne stava seduto, come preso da un incantesimo. Sulle sue labbra i sorrisi si susseguivano, la meraviglia si faceva sempre più intensa sui suoi occhi scuri. Alla fine, la realtà, indossando una livrea del tempo, si presentò nella sala impersonata da un domestico per annunciare alla duchessa che la carrozza la stava attendendo. La duchessa si torse le mani in un gesto di finta disperazione. "Che seccatura," esclamò. "Devo andare. Devo passare a prendere mio marito al club per accompagnarlo a qualche assurda riunione che lui dovrà presiedere da Willi's Rooms. Se faccio tardi, di sicuro si infurierà e non posso sostenere una scenata con questo cappello. È troppo delicato. Una sola parola dura basterebbe per rovinarlo. No, devo andare, cara Agatha. Arrivederci, Lord Henry, lei è assolutamente delizioso e terribilmente deprimente. Sono certa di non sapere che cosa obiettare alle sue opinioni. Deve venire a pranzo da noi qualche sera. Martedì? È libero martedì?"
"Per lei, duchessa, passerei sopra chiunque," disse Lord Henry con un inchino.
"Ah! Questo è molto bello e anche molto brutto da parte sua," esclamò la duchessa. "Quindi ricordi di venire," e scivolò fuori dalla stanza seguita da Lady Agatha e dalle altre signore.
Appena Lord Henry si fu nuovamente seduto, il signor Erskine girò attorno alla tavola e, presa una sedia accanto a lui, gli posò una mano sul braccio.
"Lei, parlando, getta via libri interi," disse; "perché non ne scrive uno?"
"Mi piace troppo leggere i libri per darmi la pena di scriverne, signor Erskine. Certo, mi piacerebbe scrivere un romanzo; un romanzo grazioso come un tappeto persiano e altrettanto irreale. Ma in Inghilterra esiste un pubblico solo per i giornali, per i libri per ragazzi e le enciclopedie. Di tutti i popoli del mondo, quello inglese è il meno dotato del senso della bellezza letteraria."
"Temo che lei abbia ragione," rispose il signor Erskine. "Anch'io avevo ambizioni letterarie ma le ho lasciate perdere molto tempo fa. E ora, mio caro giovane amico, se lei mi permette di chiamarla così, posso chiederle se crede davvero a tutto ciò che ha detto a tavola?"
"Me ne sono completamente dimenticato," sorrise Lord Henry. "Era così brutto?"
"Sì, molto brutto. In realtà la ritengo una persona molto pericolosa e, se alla nostra buona duchessa dovesse succedere qualche cosa, vedremmo in lei il principale responsabile. Ma mi piacerebbe parlare della vita con lei. La generazione nata con me era noiosa. Un giorno, quando lei sarà stanco di Londra, venga a trovarmi a Treadley e mi spieghi la sua teoria del piacere davanti a una straordinaria bottiglia di Borgogna che ho la fortuna di possedere."
"Ne sarò felice. Una visita a Treadley sarebbe un grande privilegio. Troverei un ospite perfetto e una perfetta biblioteca."
"Lei completerà il tutto," rispose il vecchio gentiluomo con un cortese inchino. "E ora sono costretto a salutare la sua eccellente zia. Mi attendono all'Athenaeum. È, l'ora in cui andiamo a dormire là."
"Tutti voi, signor Erskine?"
"Tutti e quaranta. In quaranta poltrone. Stiamo facendo pratica per l'Accademia Britannica di Lettere."
Lord Henry rise e si alzò. "Io me ne andrò al Park," esclamò.
Mentre stava uscendo, Dorian Gray gli toccò il braccio. "Mi permetta di venire con lei," mormorò.
"Pensavo che lei avesse promesso a Basil Hallward di andare a trovarlo," rispose Lord Henry.
"Preferisco venire con lei. Sì, sento di dover venire con lei. Me lo permetta. E mi promette di parlare per tutto il tempo? Nessuno parla in modo così stupendo."
"Ah! Ho parlato abbastanza per oggi," disse Lord Henry, sorridendo. "Adesso desidero solo osservare la vita. Può osservarla con me, se lo desidera."
IV
Un pomeriggio, un mese dopo, Dorian Gray era sdraiato in una lussuosa poltrona nella piccola biblioteca della casa di Mayfair di Lord Henry. Era a suo modo una stanza molto graziosa, con l'alto rivestimento a pannelli di quercia verde oliva, le decorazioni color avorio e il soffitto a stucchi. Sulla moquette rosso mattone erano stesi tappeti persiani dalle lunghe frange di seta. Su un minuscolo tavolino di legno lucido era posata una statuetta di Clodion e, accanto, una copia di Les Cent Nouvelles rilegata per Margherita di Valois da Clovis Eve e ornata con la margherita d'oro che la regina aveva scelto come stemma. Sulla mensola del caminetto erano disposti alcuni grossi vasi di porcellana azzurra con tulipani a pappagallo, e dai vetri piombati della finestra entrava la luce color albicocca di una giornata estiva londinese.
Lord Henry non era ancora arrivato. Era sempre in ritardo per principio, ritenendo che la puntualità ruba il tempo. Il ragazzo appariva quindi piuttosto annoiato mentre, con dita svogliate, sfogliava le pagine di un'edizione riccamente illustrata di Manon Lescaut che aveva trovato in uno degli scaffali. Il monotono ticchettio regolare di un orologio Luigi XIV lo infastidiva. Per un paio di volte pensò di andarsene.
Alla fine sentì dei passi fuori e la porta si aprì. "Come sei in ritardo, Harry!" mormorò.
"Temo che non sia Harry, signor Gray," rispose una voce, acuta.
Dorian si guardò in giro rapidamente e si alzò in piedi.
"Mi scusi, pensavo..."
"Pensava si trattasse di mio marito. Sono soltanto sua moglie. Permetta che, mi presenti da sola. La conosco benissimo attraverso le fotografie. Credo che mio marito ne abbia diciassette."
"Non diciassette, Lady Wotton."
"Saranno diciotto, allora. Inoltre l'ho vista con lui l'altra sera all'opera." Parlando rideva nervosamente e lo fissava con gli occhi di un incerto color pervinca. Era una donna: strana che indossava abiti che parevano sempre disegnati in un accesso di rabbia e indossati durante una tempesta. Era sempre innamorata di qualcuno e, dato che la sua passione, non era mai corrisposta, aveva mantenute intatte tutte le sue illusioni. Cercava di essere pittoresca, ma riusciva soltanto a sembrare sciatta. Si chiamava Victoria e aveva la mania di andare in chiesa.
"È stato al Lohengrin, Lady Wotton, non è vero?"
"Sì, il mio diletto Lohengrin. La musica di Wagner mi piace più di ogni altra. È così rumorosa che si può parlare per tutto il tempo senza che gli altri capiscano ciò che si dice. È un grande vantaggio, non le pare, signor Gray?"
Lo stesso riso sincopato e nervoso eruppe dalle labbra sottili. Le sue dita presero a giocherellare con un lungo tagliacarte di tartaruga.
Dorian sorrise e scosse il capo: "Mi dispiace, ma non sono d'accordo, Lady Wotton. Non parlo mai durante la musica, perlomeno non durante la buona musica. Quando si ascolta della cattiva musica è un dovere affogarla nella conversazione."
"Ah! Questa è una delle idee di Harry, vero, signor, Gray? Le idee di mio marito le vengo a sapere attraverso i suoi amici. È l'unico modo che ho per conoscerle. Ma non deve credere che non mi piaccia la buona musica. La adoro, ma ne ho paura: mi rende troppo romantica. Ho semplicemente adorato i pianisti... due alla volta, in qualche caso, secondo quanto dice Harry. Non so cosa ci sia in loro. Forse perché sono stranieri. Lo sono tutti, non è vero? Anche quelli nati in Inghilterra diventano stranieri dopo qualche tempo, non le pare? È una cosa così intelligente da parte loro, e un così grande complimento per l'arte. La rende del tutto cosmopolita, non è vero? Lei non è mai venuto a nessuno dei miei party, vero, signor Gray? Deve venirci. Non posso permettermi le orchidee, ma per gli stranieri non bado a spese. Danno un'aria così pittoresca alla casa! Ma ecco Harry... Harry, sono entrata a cercarti per chiederti qualche cosa, non ricordo che cosa, e ho trovato il Signor Gray. Abbiamo fatto una piacevolissima chiacchierata sulla musica. Abbiamo le stesse idee. No, credo che le nostre idee siano completamente diverse, ma lui è stato molto gentile. Sono così contenta di averlo conosciuto."
"Ne sono felice, tesoro, molto felice," disse Lord Henry, inarcando le curve sopracciglia scure e guardandoli con un sorriso divertito. "Mi dispiace tanto di essere in ritardo, Dorian. Sono andato a cercare una pezza di broccato antico in Wardour Street e ho dovuto contrattare per ore intere. Oggi la gente conosce il prezzo di tutto e non conosce il valore di nulla."
"Mi dispiace ma devo andare," disse Lady Wotton, rompendo, con una delle sue sciocche, improvvise risate, un silenzio imbarazzante. "Ho promesso di andare in carrozza con la duchessa. Arrivederci, signor Gray. Arrivederci, Harry. Ceni fuori, immagino. Anch'io. Forse ci vedremo da Lady Thornbury."
"Penso anch'io, cara," disse Lord Henry chiudendo la porta alle sue spalle, mentre la donna scivolava fuori dalla stanza come un uccello del paradiso rimasto tutta la notte sotto la pioggia e lasciando dietro di sé un leggero odore di frangipane. Quindi accese una sigaretta e si accomodò sul divano.
"Non sposare mai una donna con i capelli color paglia, Dorian," disse, dopo qualche boccata.
"Perché, Harry?"
"Perché sono troppo sentimentali."
"Ma a me piacciono le persone sentimentali."
"Non sposarti affatto, Dorian. Gli uomini si sposano perché sono stanchi, le donne perché sono curiose e ambedue rimangono delusi."
"Non credo che mi sposerò facilmente, Harry. Sono troppo innamorato. È uno dei tuoi aforismi. Lo sto mettendo in pratica, come faccio per tutto quello che dici."
"Di chi sei innamorato?" domandò Lord Henry dopo, una pausa.
"Di un'attrice," disse Dorian Gray arrossendo.
Lord Henry scosse le spalle. "È un début piuttosto banale."
"Non diresti così se la conoscessi, Harry."
"Di chi si tratta?"
"Si chiama Sibyl Vane."
"Mai sentita nominare."
"Nessuno l'ha mai sentita nominare, ma un giorno la gente la conoscerà. È un genio."
"Mio caro ragazzo, nessuna donna è un genio. Le donne sono un sesso decorativo. Non hanno mai nulla da dire, ma lo dicono con grazia. Le donne rappresentano il trionfo della materia sull'intelletto, proprio come gli uomini rappresentano il trionfo dell'intelletto sulla morale."
"Harry, come puoi dire una cosa simile?"
"Mio caro Dorian, è assolutamente vero. In questo periodo sto analizzando le donne e quindi dovrei saperlo. L'argomento non è poi così astruso come ritenevo un tempo. Ho scoperto che, in definitiva, ci sono solo due tipi di donne, quelle semplici e quelle che si truccano. Le donne semplici sono molto utili. Se vuoi farti la reputazione di persona rispettabile, devi solo uscire con loro a cena. Le altre donne sono molto affascinanti, ma commettono un errore: si truccano per cercare di essere e di apparire giovani. Le nostre nonne si truccavano per cercare di essere di spirito e di parlare con spirito. Il rouge e l'ésprit viaggiavano di conserva, allora. Adesso è tutto finito. Finché una donna riesce a dimostrare dieci anni di meno di sua figlia è completamente soddisfatta. Per quanto riguarda la conversazione, poi, ci sono solo cinque donne a Londra con cui valga la pena di parlare e due di loro non possono essere accolte nella buona società. Comunque, parlami del tuo genio. Da quanto tempo la conosci?"
"Ah, Harry! Le tue opinioni mi fanno paura."
"Non farci caso. Da quanto tempo la conosci?"
"Da tre settimane circa."
"E come l'hai incontrata?"
"Te lo racconterò, Harry, ma devi essere comprensivo. Dopo tutto, non sarebbe mai successo se non ti avessi incontrato. Mi hai riempito di un folle desiderio di conoscere tutto della vita. Per giorni e giorni, dopo averti incontrato, mi sembrava che qualcosa mi pulsasse nelle vene. Mentre passavo il tempo al Park, o quando passeggiavo per Piccadilly, guardavo tutti quelli che incontravo e mi chiedevo con una folle curiosità, quale tipo di vita facessero. Alcuni mi affascinavano, altri mi riempivano di terrore. Nell'aria c'era uno squisito veleno. Ero innamorato delle sensazioni... Bene, una sera verso le sette decisi di andare in cerca di qualche avventura. Sentivo che questa nostra Londra mostruosa e grigia, con la sua miriade di persone, i suoi peccatori sordidi e i suoi splendidi peccati, come una volta l'hai definita, doveva avere qualcosa in serbo per me. Immaginai mille cose, la semplice sensazione del pericolo mi dava un senso di piacere. Ricordavo quello che mi avevi detto quella sera meravigliosa, la prima volta che cenammo insieme, sul fatto che la ricerca della bellezza è il vero segreto della vita. Non so che cosa mi aspettassi, ma uscii di casa e mi diressi verso est. Mi smarrii quasi subito in un labirinto di stradine buie e di piazze nere e senza aiuole. Verso le otto e mezzo passai davanti ad un assurdo teatrino, con grandi lampade a gas ed enormi manifesti. In piedi, davanti all'ingresso, un ignobile ebreo che indossava il panciotto più stupefacente che mi sia mai capitato di vedere, fumava un sigaro di poco prezzo. Aveva dei riccioli unti e sul petto della camicia inamidata riluceva un enorme diamante. "Vuole un palco, mylord?" domandò quando mi vide, togliendosi il cappello con un gesto straordinariamente servile. C'era in lui qualcosa, Harry, che mi divertiva: era talmente mostruoso. Riderai di me, lo so, ma entrai davvero e pagai un'intera ghinea per il palco. Ancora oggi non riesco a capire perché lo feci; e tuttavia se non lo avessi fatto, mio caro Harry, se non lo avessi fatto, avrei perduto la più grande avventura sentimentale della mia vita. Vedo che ridi: è molto brutto da parte tua!"
"Non sto ridendo, Dorian; perlomeno, non sto ridendo di te. Ma non dovresti dire la più grande avventura sentimentale della tua vita. Dovresti dire la prima avventura sentimentale della tua vita. Tu verrai sempre amato e sarai sempre innamorato dell'amore. Una grande passion è privilegio di chi non ha nulla da fare, l'unico scopo delle classi pigre di un paese. Non temere, ci sono cose squisite in serbo per te. Questo è solo l'inizio."
"Credi che la mia natura sia così superficiale?" esclamò arrabbiato Dorian Gray.
"No, credo che sia molto profonda."
"Che cosa vuoi dire ?"
"Mio caro ragazzo, le persone superficiali sono quelle che amano una sola volta nella loro vita. Quella che essi chiamano lealtà o fedeltà, io la chiamo o letargia dell'abitudine o mancanza d'immaginazione. La fedeltà è, per la vita emotiva, quello che la coerenza è per la vita intellettuale: una semplice confessione di fallimento. Fedeltà! Un giorno dovrò analizzarla. C'è in essa l'amore per il possesso. Ci sono molte cose che getteremmo via se non temessimo che altri, se ne impadronissero. Ma non voglio interromperti. Continua la tua storia."
"Bene, mi ritrovai seduto in un orrendo palchetto, con un sipario di pessimo gusto davanti agli occhi. Diedi un'occhiata da dietro le tende e osservai il locale. Era una cosa di pessimo gusto, tutto amorini e cornucopie, come, una torta nuziale di terza categoria. Il loggione e la platea erano quasi al completo, ma le due file di poltrone consunte erano completamente vuote e in quelli che immagino chiamino i distinti c'era al massimo una persona. Alcune donne andavano in giro vendendo arance e birra e si faceva un gran consumo di noccioline."
"Doveva essere proprio come ai bei tempi della commedia inglese."
"Proprio così, immagino, è molto deprimente. Cominciai a domandarmi che cosa fare, quando mi capitò sotto gli occhi il programma. Che cosa pensi che rappresentassero, Harry?"
"L'Idiota, ovvero Sordo ma Innocente, immagino. Credo che ai nostri padri questo genere di commedia piacesse. Quanto più vivo, Dorian, tanto più avverto la sensazione che quel che andava bene per i nostri padri, non va più bene per noi. Nell'arte, come nella politica, les grand-pères ont toujours tort."
"Lo spettacolo andava bene anche per noi, Harry. Era "Giulietta e Romeo". Devo ammettere che ero piuttosto seccato all'idea di vedere una rappresentazione di Shakespeare in un teatro così scalcinato ma, tuttavia, in un certo qual modo la cosa mi interessava. Decisi comunque di attendere la fine del primo atto. C'era un'orchestra tremenda diretta da un giovane ebreo che sedeva a un pianoforte sgangherato. Quasi mi spinse, ad andarmene, ma finalmente il sipario si alzò e iniziò lo spettacolo. Romeo era un signore anziano e massiccio con le sopracciglia dipinte, una tragica voce raschiante e la figura di un barile di birra. Mercuzio era più o meno allo stesso livello. Lo interpretava un guitto che nel testo aveva inserito delle battute sue ed era in ottimi rapporti con la platea. Erano ambedue grotteschi, come le scene che sembravano tirate fuori da un baraccone. Ma Giulietta! Harry! Immagina un ragazza di neppure diciassett'anni, con un visino come un fiore, una testolina greca con una pettinatura elaborata di riccioli castano scuri, occhi come pozzi viola di passione, labbra come petali di rosa. Era la creatura più bella che avessi visto in vita mia. Una volta mi hai detto che il pathos non ti commuove, ma che la bellezza, la semplice bellezza, ti riempie gli occhi di lacrime. Ti dirò, Harry, che a malapena riuscivo a vedere questa ragazza attraverso il velo di lacrime che mi era salito agli occhi. E la sua voce... non ho mai sentito una voce come quella. Dapprima era molto bassa, con note dolci e profonde, che parevano caderti una alla volta nelle orecchie. Poi diventò un po' più sonora, come un flauto o un oboe lontano. Nella scena del giardino aveva tutta la tremula estasi che si avverte appena prima dell'alba, quando cantano gli usignoli. E più tardi ci furono momenti in cui aveva la selvaggia passione dei violini. Sai quanto possa commuovere una voce. La tua voce e quella di Sibyl Vane sono due cose che non dimenticherò mai. Quando chiudo gli occhi le sento e ciascuna mi dice qualcosa di diverso. Non so quale seguire. Perché non dovrei amarla? Harry, io la amo davvero. Nella mia vita Sibyl è tutto. Vado a vederla recitare ogni sera. Una sera è Rosalind, la sera dopo Imogene. L'ho vista morire nelle tenebre di una tomba italiana, suggendo il veleno dalle labbra del suo amante; l'ho vista vagare nella foresta delle Ardenne, travestita da ragazzetto, con calzoncini, farsetto e un elegante berrettino. Era pazza e si è presentata di fronte a un re colpevole dandogli un cilicio da indossare ed erbe amare da assaggiare. Innocente, il suo collo sottile come un giunco è stato stretto dalle nere mani della gelosia. L'ho vista in ogni epoca e in ogni costume. Le donne comuni non ridestano mai la nostra immaginazione, sono chiuse nei limiti del loro secolo. Nessun incantesimo le trasfigura. Si conosce la loro anima con la stessa facilità con cui si conoscono i loro cappellini. Si può trovarle in ogni momento, non c'è nessun mistero in nessuna di loro. Al mattino vanno a cavallo nel parco, e al pomeriggio chiacchierano al tè. Hanno il loro sorriso stereotipato, i loro modi educati. Sono completamente prevedibili. Ma un'attrice! Com'è diversa un'attrice, Harry! Perché non mi hai detto che un'attrice è l'unica persona che valga la pena di amare?"
"Perché ne ho amate tante, Dorian."
"Oh, sì, donne orribili dai capelli tinti e dal volto truccato."
"Non parlare male dei capelli tinti e dei volti truccati. A volte hanno un fascino straordinario," disse Lord Henry.
"Adesso vorrei non averti parlato di Sibyl Vane."
"Non avresti potuto fare a meno di parlarmene, Dorian. Per tutta la vita mi dirai sempre tutto quello che farai."
"Sì, Harry, credo che tu abbia ragione. Non posso fare a meno di raccontarti le cose. Hai una strana influenza su di me. Se un giorno dovessi commettere un delitto, verrei a confessartelo. Tu mi capiresti."
"Le creature come te, i potenti raggi di sole della vita, non commettono delitti, Dorian. Tuttavia ti sono molto grato del complimento. E adesso dimmi - passami i fiammiferi, da bravo, grazie - attualmente, di che genere sono i tuoi rapporti con Sibyl Vane?"
Dorian Gray scattò in piedi rosso in viso e con gli occhi ardenti. "Harry, Sibyl Vane è sacra!"
"Le cose sacre sono le uniche che valga la pena di toccare, Dorian," disse Lord Henry, con una strana nota di commozione nella voce. "Ma perché dovresti essere seccato? Immagino che un giorno sarà tua. Quando si è innamorati, si comincia sempre ingannando se stessi e si finisce sempre ingannando gli altri. È quello che il mondo chiama sentimentalismo. Comunque la conosci, vero?"
"Certo che la conosco. La prima sera quell'orribile vecchio ebreo, quando la commedia fu finita, venne a gironzolare dalle parti del mio palco e si offrì di portarmi dietro il palcoscenico e di presentarmela. Mi fece infuriare e gli dissi che Giulietta era morta da secoli e che il suo corpo giaceva in una tomba di marmo, a Verona. Dall'espressione vacua e stupefatta che assunse, credo che abbia avuto l'impressione che avessi bevuto troppo champagne o qualcosa del genere."
"Non me ne meraviglio."
"Poi mi chiese se scrivevo per qualche giornale. Gli dissi che non li leggo nemmeno. Mi parve tremendamente deluso e mi confidò che tutti i critici teatrali cospiravano contro di lui e che bisognava comperarli tutti, nessuno escluso."
"Non sarei sorpreso se in questo avesse ragione. Ma del resto, a giudicare dall'apparenza, la maggior parte dei critici non deve essere affatto costosa."
"Be', lui pareva credere che fossero al di là delle sue possibilità," rise Dorian. "Nel frattempo, tuttavia, le luci del teatro erano state spente e fui costretto ad andarmene. Voleva farmi provare alcuni sigari che mi raccomandava caldamente, ma rifiutai. Naturalmente la sera dopo tornai. Quando mi vide mi fece un profondo inchino e mi rassicurò che ero un munifico patrono delle arti. Era un animale insopportabile, nonostante nutrisse un amore straordinario per Shakespeare. Una volta mi disse, con aria orgogliosa, che i suoi cinque fallimenti erano dovuti al "Bardo", come si ostinava a chiamarlo. Pareva ritenerlo un segno di distinzione."
"Era un segno di distinzione, Dorian, un grosso segno. La maggior parte della gente fallisce per aver investito troppo nella prosa della vita. Essere andato in rovina per la poesia è un onore. Ma quando hai conosciuto la signorina Sibyl Vane?"
"La terza sera. Aveva recitato nella parte di Rosalind. Non potei fare a meno di farle visita. Le avevo gettato dei fiori e lei mi aveva guardato; almeno così mi era sembrato. Il vecchio ebreo insisteva. Pareva deciso a portarmi dietro il palcoscenico e quindi acconsentii. È strano che non volessi conoscerla, non è vero?"
"No, non credo."
"Perché?"
"Te lo dirò qualche altra volta. Adesso voglio sapere della ragazza."
"Sibyl? Oh, era così timida e così gentile... C'è un che di fanciullesco in lei. Spalancò gli occhi vivamente meravigliata quando le dissi che cosa pensavo della sua interpretazione e sembrava non essere affatto consapevole delle sue capacità. Mi pare che fossimo tutti e due alquanto nervosi. Il vecchio ebreo se ne stava sogghignando sulla soglia del camerino polveroso, facendo alati discorsi sul nostro conto, mentre noi ci guardavamo l'un l'altro come ragazzini. Continuava a chiamarmi mylord, e quindi dovetti assicurare Sibyl che non ero nulla di simile. Lei disse con molta semplicità, riferendosi a me: "Ha più l'aspetto di un principe. La chiamerò Principe Azzurro.""
"Parola mia, Dorian, la signorina Sibyl sa come si fanno i complimenti."
"Non la capisci, Harry. Mi considerava semplicemente il personaggio di una commedia. Non conosce nulla della vita. Vive con la madre, una donna stanca e appassita che aveva interpretato la parte di Donna Capuleti indossando una specie di tunica color magenta e che ha l'aria di aver conosciuto tempi migliori."
"È un'aria che conosco. Mi deprime," disse Lord Henry esaminandosi gli anelli.
"L'ebreo voleva raccontarmi la sua storia, ma gli dissi che non mi interessava."
"Avevi ragione. C'è sempre qualche cosa di infinitamente meschino nelle tragedie degli altri."
"Sibyl è l'unica cosa che mi interessi. Che cosa m'importa da dove viene? Dalla testolina ai piedini è divina, assolutamente e completamente divina. Ogni sera vado a vederla recitare e ogni sera è più incantevole."
"Immagino sia per questo motivo che non vieni più a pranzo con me. Pensavo che tu dovessi avere qualche strana storia per le mani. E infatti ce l'hai, ma non è affatto quella che mi aspettavo."
"Mio caro Harry, facciamo colazione o pranziamo insieme ogni giorno e sono stato diverse volte all'opera con te," disse Dorian spalancando stupito gli occhi azzurri.
"Arrivi sempre terribilmente in ritardo."
"Beh, non posso fare a meno di veder recitare Sibyl," esclamò, "magari solo per un atto. Bramo la sua presenza e quando penso all'anima meravigliosa che si nasconde in quel corpicino d'avorio, mi sento pieno di sgomento."
"Pranzi con me stasera, Dorian, non è vero?"
Dorian scosse il capo. "Stasera è Imogene," rispose, "e domani sera sarà Giulietta."
"Quando sarà Sibyl Vane?"
"Mai."
"Mi congratulo con te."
"Sei tremendo. Lei è tutte le eroine del mondo, è più di un solo essere. Ridi, ma ti dico che è un genio. La amo e devo fare in modo che mi ami. Tu che conosci tutti i segreti della vita, dimmi qual è l'incantesimo che induca Sibyl Vane ad amarmi! Voglio ingelosire Romeo. Voglio che tutti gli amanti morti sentano le nostre risate e si rattristino. Voglio che un sospiro della nostra passione animi la loro polvere e risvegli queste loro ceneri al dolore. Mio Dio, Harry, quanto l'adoro!" Parlava camminando avanti e indietro per la stanza. Rosse chiazze febbricitanti gli ardevano sulle gote. Era estremamente eccitato.
Lord Henry lo osservò con un sottile senso di piacere. Com'era diverso ora dal ragazzo timido e spaventato che aveva incontrato nello studio di Basil! La sua natura era sbocciata come un fiore e aveva dischiuso petali di fiamma scarlatta. La sua anima era scivolata fuori dal suo segreto nascondiglio e, sulla via, il desiderio le si era fatto incontro.
"E che cosa intendi fare?" domandò Lord Henry alla fine.
"Voglio che una sera tu e Basil veniate a vederla recitare. Non ho il minimo timore circa il risultato: sono certo che riconoscerete le sue grandi capacità. Poi dovremo tirarla fuori dalle mani dell'ebreo. È legata a lui per tre anni, per lo meno per due anni e otto mesi, a contare da oggi. Dovrò pagargli qualcosa, naturalmente. Quando tutto sarà sistemato, affitterò un teatro del West End e la lancerò nel modo giusto. Farà impazzire la gente, come ha fatto impazzire me."
"Questo potrebbe risultare impossibile, mio caro ragazzo."
"Sì, ci riuscirà. Sibyl non solo ha capacità artistiche e un consumato istinto teatrale, ma anche una personalità e tu spesso mi hai detto che sono le personalità, non i principi a muovere la storia."
"Bene, quando ci andremo?"
"Vediamo. Oggi è martedì. Stabiliamo per domani sera. Domani sera sarà Giulietta."
"D'accordo. Al Bristol alle otto; porterò Basil con me."
"Non alle otto, Harry, ti prego. Alle sei e mezzo. Dobbiamo essere là prima che si alzi il sipario. Devi vederla nel primo atto, quando incontra Romeo."
"Alle sei e mezzo! Che ora! Sarà come prendere un tè col pasticcio di carne, o leggere un romanzo inglese. Facciamo alle sette. Nessun gentiluomo cena prima delle sette. Vedrai Basil prima di allora o devo scrivergli?"
"Caro Basil. Non lo vedo da una settimana. È molto brutto da parte mia, perché mi ha mandato il ritratto in una cornice meravigliosa che ha disegnato apposta e, anche se sono un poco geloso del quadro che è di un mese più giovane di me, devo ammettere che mi fa molto piacere. Forse è meglio che gli scriva tu. Non voglio vederlo da solo. Dice delle cose che mi infastidiscono. Mi dà buoni consigli."
Lord Henry sorrise. "La gente ama molto donare le cose di cui ha più bisogno. È ciò che io chiamo l'abisso della generosità."
"Oh, Basil è il migliore degli amici, ma mi sembra un pochino filisteo. L'ho scoperto dopo averti conosciuto, Harry."
"Mio caro ragazzo, Basil mette nel suo lavoro tutto quello che ha in sé di affascinante. Come conseguenza, per la vita gli rimangono solo i suoi pregiudizi, i suoi principi e il suo buon senso. Gli unici artisti dotati di fascino personale che io abbia conosciuto sono i cattivi artisti: quelli buoni esistono solamente per quello che fanno e di conseguenza, sono assolutamente privi di interesse per quello che sono. Un grande poeta, un poeta davvero grande, è la meno poetica delle creature. Ma i poeti di scarso valore sono pieni di fascino. Quanto peggiori sono i loro versi, tanto più pittoreschi appaiono. Il semplice fatto di aver pubblicato un libro di sonetti di seconda scelta rende un uomo assolutamente irresistibile. Vive la poesia che non può scrivere. Gli altri, scrivono la poesia che non osano attuare."
"Mi chiedo se le cose stiano proprio così Henry," disse Dorian Gray versando alcune gocce di profumo da una grossa boccetta dal tappo dorato che era sul tavolo. "Sarà così, se lo dici tu. E adesso devo andare. Imogene, mi attende. Non dimenticarti di domani. Arrivederci."
Appena Dorian Gray ebbe lasciato la stanza, Lord Henry socchiuse gli occhi e iniziò a pensare. Certo, poche persone lo avevano interessato come Dorian Gray, e tuttavia la folle adorazione del ragazzo per un'altra persona non gli dava nessun fastidio né la minima fitta di gelosia. Anzi, ne era compiaciuto: lo rendeva un soggetto più interessante. I metodi delle scienze naturali lo avevano sempre affascinato, ma i normali oggetti; di studio di queste scienze gli parevano banali e privi di importanza. Così aveva cominciato vivisezionando se stesso, e aveva finito vivisezionando gli altri. La vita umana: questa gli sembrava l'unica cosa che valesse la pena di studiare. Al suo confronto null'altro aveva valore. È vero che se si osserva la vita nel suo singolare crogiuolo di piacere e di dolore, non è possibile proteggere il viso con una maschera di vetro, né impedire che i vapori di zolfo turbino la mente e intorbidiscano, l'immaginazione con fantasie mostruose e sogni, deformi. Ci sono veleni così sottili che per conoscerne le proprietà è necessario avvelenarsi. Ci sono malattie così strane che, per capirne la natura, è necessario subirne personalmente il decorso. E tuttavia, quali grosse ricompense se ne ottenevano! Come diventava meraviglioso il mondo! Che piacere notare la strana, dura logica della passione, la vita piena di colori dell'intelletto, che piacere nell'osservare dove si incontravano e dove si separavano, in che punto raggiungevano l'unisono, in che punto erano in opposizione! Che, importanza aveva il prezzo? Non si paga mai un prezzo troppo alto per una sensazione.
Sapeva, e il pensiero portò un lampo di piacere negli occhi di agata bruna, che sotto lo stimolo di certe sue parole, parole musicali musicalmente pronunciate, l'animo di Dorian Gray si era volto verso questa candida fanciulla, chinandosi in adorazione davanti a lei. Il giovane era in gran parte una creatura sua. Lo aveva reso precoce. Era una cosa importante. La gente comune attende che la vita le sveli i suoi segreti, ma ai pochi, agli eletti, i misteri della vita vengono rivelati prima che il velo venga scostato. A volte era conseguenza dell'arte, e soprattutto della letteratura che si occupa senza mediazioni delle passioni e dell'intelletto ma, di quando in quando, una personalità complessa ne prendeva il posto e ne assumeva il compito. A suo modo era un'autentica opera d'arte, poiché la vita ha i suoi capolavori elaborati, proprio come li hanno la poesia, la scultura, la pittura.
Sì, il giovane era precoce. Raccoglieva le sue messi mentre era ancora primavera. Aveva in sé gli impulsi e le passioni della giovinezza, ma stava diventando cosciente di sé. Osservarlo era delizioso. Con quel suo bel viso, con, quella sua bella anima, era una cosa da guardare con meraviglia. Non importava come tutto sarebbe finito, o era destinato a finire. Era come una di quelle figure piene di grazia di una processione o di uno spettacolo, le cui gioie ci sembrano remote, ma le cui pene stimolano il nostro senso del bello e le cui ferite sono simili a rose rosse.
Corpo e anima, anima e corpo: com'erano misteriosi! C'era qualche cosa di animalesco nell'anima mentre il corpo aveva i suoi momenti di spiritualità. I sensi potevano affinarsi e l'intelletto poteva degenerare. Chi poteva dire quando, dove terminava l'impulso della carne o dove iniziava quello della materia? Quanto erano misere le definizioni arbitrarie dei comuni psicologi! E tuttavia come era difficile scegliere tra le affermazioni delle varie scuole! Era forse l'anima un'ombra seduta nella casa del peccato? Oppure il corpo era proprio nell'anima, come pensava Giordano Bruno? La separazione tra spirito e materia era un mistero, ed era anche un mistero l'unione di spirito e materia.
Cominciò a domandarsi se saremmo mai stati in grado di rendere la psicologia una scienza così esatta da rivelarci ogni minimo principio di vita. Così come stavano le cose, ci ingannavamo sempre sul nostro conto e raramente capivamo gli altri. L'esperienza non aveva un valore etico, era semplicemente il nome che gli uomini davano ai loro errori. Di regola, i moralisti l'avevano ritenuta un avvertimento, avevano sostenuto che essa aveva una certa efficacia nella formazione del carattere, l'avevano esaltata come qualcosa che ci insegnava la via da seguire e ci mostrava quella da evitare. Ma nell'esperienza non c'è forza motrice. Come causa attiva aveva lo stesso infimo valore della coscienza. In realtà dimostrava solo che il nostro futuro sarà uguale al nostro, passato e che il peccato che abbiamo commesso una volta, con disgusto, lo ripeteremo molte volte con gioia.
Era evidente per lui che il metodo sperimentale era l'unico metodo attraverso il quale si sarebbe potuto giungere a un'analisi scientifica delle passioni e certamente Dorian Gray era un soggetto adatto e sembrava promettere risultati ricchi e fruttuosi. Questo suo improvviso folle amore per Sibyl Vane era un fenomeno psicologico di un certo interesse. Senza dubbio la curiosità vi aveva una parte importante: la curiosità e il desiderio di nuove esperienze; e tuttavia non era una passione semplice bensì piuttosto complessa. La parte che in essa aveva l'istinto sensuale dell'adolescenza era stata trasformata dal lavoro della fantasia e mutata in qualche cosa che, allo stesso Dorian, pareva staccata dai sensi e che proprio per questo motivo era più pericolosa. Sono le passioni sulla cui origine ci inganniamo quelle che ci tiranneggiano di più. Le nostre motivazioni più deboli sono quelle di cui siamo consapevoli, di cui conosciamo la natura. Spesso accade che quando pensiamo di condurre esperimenti sugli altri, in realtà stiamo sperimentando noi stessi.
Mentre Lord Henry sedeva sognando queste cose, bussarono alla porta ed entrò il cameriere, ricordandogli che era l'ora di vestirsi per la cena. Lord Henry si alzò e guardò nella strada. Il tramonto aveva tramutato in oro scarlatto le finestre alte della casa di fronte. Le imposte rilucevano come piastre di metallo rovente. Più in alto il cielo aveva il colore di una rosa appassita. Pensò alla giovane vita dagli intensi colori dell'amico e si domandò come tutto sarebbe finito.
Quando ritornò a casa verso mezzanotte e mezzo trovò un telegramma sul tavolo del vestibolo. Lo aprì e vide che era di Dorian Gray. Gli annunciava che si era fidanzato con Sibyl Vane.
V
"Mamma; mamma, come sono felice!" sussurrò la ragazza nascondendo il viso nel grembo della donna appassita e stanca che, volgendo le spalle alla luce violenta e invadente, sedeva nell'unica poltrona del minuscolo salotto. "Come sono felice," ripeté, "e anche tu devi esserlo!"
La signora Vane trasalì e posò le mani sottili, sbiancate dal bismuto, sul capo della figlia. "Felice!" ripeté. "Sono felice, Sibyl, solo quando ti vedo recitare. Il signor Isaacs è stato molto buono con noi e gli dobbiamo dei soldi."
La ragazza alzò la testa con un'espressione imbronciata. "Soldi, mamma?" esclamò. "Che importanza hanno i soldi? L'amore vale più del denaro."
"Il signor Isaacs ci ha anticipato cinquanta sterline per pagare i nostri debiti e per preparare un corredo conveniente per James. Non devi dimenticarlo, Sibyl. Cinquanta sterline sono una grossa somma. Il signor Isaacs è stato molto premuroso."
"Non è un gentiluomo, mamma, e non sopporto il modo che ha di parlarmi," disse la ragazza alzandosi ed avvicinandosi alla finestra.
"Non so come potremmo fare senza di lui," rispose la donna in tono lamentoso.
Sibyl Vane scosse il capo ridendo. "Non abbiamo più bisogno di lui, mamma. Il Principe Azzurro si prende cura di noi, ora." Poi tacque. Nel suo sangue una rosa s'agitò, colorandole le guance. Un respiro più frequente le fece socchiudere i petali tremanti delle labbra. Un vento caldo di passione la investì muovendole le delicate pieghe del vestito. "Lo amo," disse semplicemente.
"Stupidina! Stupidina!" fu la frase pappagallescamente ripetuta che le giunse in risposta. Il moto delle dita adunche, coperte di falsi gioielli, aggiungeva un che di grottesco alle parole.
La ragazza rise di nuovo. Nella sua voce c'era la gioia di un uccellino in gabbia. Gli occhi colsero la melodia e la rivelarono splendendo; si chiusero per un attimo, come per nascondere il segreto. Quando si riaprirono, su di loro era passata l'ombra di un sogno.
La saggezza dalle labbra sottili le parlava dalla poltrona consunta, le consigliava prudenza prendendola a prestito da quel libro delle vigliaccherie il cui autore scimmiotta il nome del buon senso. Sibyl non l'ascoltava; era libera nella prigione della passione. Il suo principe, il Principe Azzurro, era con lei. Aveva chiesto alla memoria di riprodurglielo, aveva mandato la sua anima a cercarlo e questa glielo aveva riportato. Il suo bacio le ardeva sulle labbra, le sue palpebre erano calde del suo respiro.
Allora la saggezza cambiò metodo e parlò di indagini e di informazioni. Questo giovanotto doveva essere ricco. Se così era, si poteva pensare al matrimonio. Contro le conchiglie delle sue orecchie si infrangevano le onde dell'astuzia della vita. Le frecce dell'astuzia le cadevano vicino. Vide muoversi le labbra sottili e sorrise.
Improvvisamente, sentì il bisogno di parlare: quel silenzio fatto di parole la infastidiva. "Mamma, mamma," esclamò, "perché mi ama tanto? Io lo so perché lo amo: perché è come dovrebbe essere l'amore stesso, ma lui che cosa vede in me? Io non son degna di lui, eppure, come, non saprei dire, anche se mi sento tanto al di sotto di lui, non mi sento umile: mi sento orgogliosa, tremendamente orgogliosa. Mamma, tu amavi mio padre come io amo il mio Principe Azzurro?"
La vecchia signora impallidì sotto lo strato di cipria da poco prezzo che le imbrattava le guance; le sue labbra secche si contrassero in uno spasimo di sofferenza. Sibyl si precipitò verso di lei, le gettò le braccia intorno al collo e la baciò. "Perdonami, mamma. So che parlare di mio padre ti fa soffrire. Ma soffri solo perché lo hai amato tanto. Non essere così triste. Oggi io sono felice come lo eri tu vent'anni fa. Ah! Lascia che sia sempre felice!"
"Figlia mia, sei troppo giovane per pensare a innamorarti. E poi, che cosa sai di questo giovanotto? Non sai nemmeno come si chiama. Tutta questa faccenda è estremamente sconveniente e, davvero, nel momento in cui James sta per andarsene in Australia, ed io ho tante cose a cui pensare, devo dire che avresti dovuto essere più riflessiva. Tuttavia, come ho detto poco fa, se è ricco..."
"Ah! Mamma, mamma, lascia che sia felice!"
La signora Vane le lanciò un'occhiata e, con uno di quei falsi gesti teatrali che tanto spesso, negli attori, diventano una seconda natura, la strinse tra le braccia. In quell'attimo, la porta si aprì ed entrò un ragazzo dai capelli castani arruffati. Era tarchiato, con mani e piedi grossi, leggermente goffo nei movimenti. Non aveva nulla della finezza della sorella e difficilmente si sarebbe potuto indovinare lo stretto legame di parentela che c'era tra loro. La signora Vane lo fissò e accentuò il sorriso. Elevò mentalmente il figlio alla dignità di pubblico: era certa che il tableau fosse interessante.
"Dovresti conservare per me qualcuno dei tuoi baci, Sibyl, mi pare," disse il ragazzo con un brontolio gentile.
"Ah! ma a te non piace farti baciare, Jim," esclamò la ragazza. "Sei un orribile vecchio orso." E attraversò di corsa la stanza per stringerlo tra le braccia.
James Vane guardò teneramente in viso la sorella. "Voglio che tu venga a fare una passeggiata con me, Sibyl. Immagino che non vedrò più questa orribile Londra. E di certo non lo desidero."
"Figlio mio, non dire queste brutte cose," mormorò la signora Vane, prendendo con un sospiro uno sgargiante costume teatrale e cominciando a rammendarlo. Le dava un po' fastidio non far parte del gruppo. La pittoresca teatralità della situazione sarebbe aumentata.
"Perché no, mamma? Ne sono convinto."
"Mi dai un dispiacere, figlio mio. Spero che ritornerai con una florida posizione. Credo che laggiù nelle colonie non esista un bel mondo, nulla che io chiamerei bel mondo; quindi, quando ti sarai costruito una fortuna, dovrai ritornare e sistemarti qui a Londra."
"Bel mondo," mormorò il ragazzo. "Non voglio saperne nulla. Vorrei fare un po' di soldi per togliere te e Sibyl dal palcoscenico. Lo odio."
"Oh, Jim!" disse Sibyl ridendo, "non sei affatto gentile! Ma davvero vuoi fare una passeggiata con me? Che bello! Avevo paura che tu volessi andare a salutare i tuoi amici; come quel Tom Hardy che ti ha regalato quell'orrenda pipa, o Ned Langton, che ti prende in giro perché la fumi. È molto carino da parte tua riservarmi l'ultimo pomeriggio. Dove andiamo? Al Park?"
"Sono troppo male in arnese," rispose lui, aggrottando le sopracciglia. "Al Park ci va solo la gente elegante."
"Non dire assurdità, Jim," sussurrò Sibyl, accarezzandogli la manica della giacca.
Il giovane esitò un momento. "Benissimo," disse infine, "ma non metterci troppo a vestirti." Sibyl uscì a passo di danza. La si sentiva cantare mentre correva su per le scale, poi dal soffitto provenne il rumore dei suoi piedini.
Jim andò due o tre volte su e giù per la stanza, infine si voltò verso la figura immobile sulla poltrona. "Mamma, le mie cose sono pronte?" domandò.
"È tutto pronto, James," rispose la donna, senza sollevare lo sguardo dal lavoro. Da alcuni mesi si sentiva a disagio quando si trovava sola con questo suo figlio rude e severo. Quando i loro occhi si incontravano, la sua natura superficiale ne era turbata. Si chiedeva di continuo se sospettasse qualcosa. Poiché lui non faceva nessun'altra osservazione, il silenzio le divenne insopportabile. Cominciò a lamentarsi. Le donne si difendono attaccando, proprio come attaccano con strane e improvvise capitolazioni. "Spero che sarai contento della vita di mare, James," disse. "Però devi ricordare che l'hai scelta tu. Avresti potuto impiegarti nell'ufficio di un procuratore. I procuratori sono una classe molto rispettabile e spesso, in provincia, sono invitati a pranzo dalle migliori famiglie."
"Odio gli uffici e gli impiegati," rispose il ragazzo. "Ma hai ragione, la mia vita me la sono scelta io. Ti dico solo una cosa: bada a Sibyl, sta' attenta che non le succeda niente di male. Devi badare a lei, mamma."
"Che strani discorsi fai, James. Certo che baderò a lei."
"Ho sentito che un signore va tutte le sere a teatro e poi passa sul palcoscenico per parlarle. È vero? Che storia è?"
"Parli di cose che non capisci, James. Nella nostra professione siamo abituate a ricevere di continuo gli omaggi più lusinghieri. Io stessa un tempo ero solita ricevere molti mazzi di fiori ogni sera. Questo accadeva quando davvero si capiva la recitazione. Per quanto riguarda Sibyl, non so ancora se questa sua relazione sia una cosa seria o meno. Ma senza dubbio il giovanotto in questione è un perfetto gentiluomo. Con me è sempre gentilissimo. Inoltre pare che sia molto ricco e manda dei bellissimi fiori."
"Però non sai come si chiama," disse il ragazzo, aspro.
"No," rispose la madre, con una placida espressione in volto. "Non ha ancora rivelato il suo vero nome. La ritengo una cosa molto romantica. Probabilmente appartiene all'aristocrazia."
James Vane si morse un labbro. "Bada a Sibyl, mamma," esclamò, "bada a lei."
"Figlio mio, tu mi stai angustiando. Sibyl è sempre sotto la mia assidua vigilanza. Naturalmente, se questo signore è ricco non vi è motivo per cui Sibyl non debba unirsi a lui. Confido che sia un signore dell'aristocrazia: devo dire che ne ha tutta l'apparenza. Per Sibyl potrebbe essere un matrimonio brillantissimo. Formerebbero una bellissima coppia: lui ha un aspetto davvero splendido, lo hanno notato tutti."
Il ragazzo mormorò qualcosa tra sé e tamburellò con le grosse dita sui vetri della finestra. Si era appena voltato per dire qualcosa, quando si aprì la porta e Sibyl entrò di corsa.
"Come siete seri, tutti e due!" esclamò. "Che cosa è successo?"
"Nulla," rispose il fratello, "penso che qualche volta si può anche essere seri. Arrivederci, mamma; cenerò alle cinque. Ho messo via tutto, salvo le camicie, quindi non preoccuparti."
"Arrivederci, figlio mio," disse lei, con un inchino artificiosamente maestoso.
Era profondamente seccata dal tono che lui aveva adottato nei suoi confronti e, nel suo sguardo, c'era qualcosa che le faceva paura.
"Dammi un bacio, mamma," disse la ragazza. Le labbra belle come un fiore toccarono la guancia incipriata e ne scaldarono il gelo.
"Figlio mio, figlio mio!" esclamò la signora Vane, sollevando lo sguardo al soffitto in cerca di un immaginario loggione.
"Andiamo, Sibyl," disse il fratello con impazienza. Non sopportava gli atteggiamenti affettati della madre.
Uscirono nella tremolante luminosità di un giorno spazzato dal vento e si incamminarono lungo la triste Euston Road. I passanti lanciavano occhiate stupite a quel giovane imbronciato e massiccio, vestito rozzamente e senza cura, in compagnia di una fanciulla così fine e graziosa. Sembrava un volgare giardiniere che camminasse reggendo una rosa.
Jim ogni tanto si accigliava quando captava lo sguardo curioso di qualche sconosciuto. Provava quell'avversione a sentirsi guardato che prende i geni negli ultimi anni della loro vita, e che non abbandona mai le persone comuni. Sibyl, tuttavia, non si rendeva affatto conto dell'effetto che produceva. L'amore le fremeva nelle labbra sorridenti. Pensava al Principe Azzurro, e per pensarlo meglio non ne parlava, ma chiacchierava della nave sulla quale Jim si sarebbe imbarcato, dell'oro che certamente avrebbe trovato, della meravigliosa ereditiera che avrebbe certamente salvato dalle grinfie dei feroci banditi in camicia rossa. Perché lui non sarebbe rimasto un marinaio o uno stivatore o roba del genere. Oh, no! La vita di un marinaio è terribile! Immagina a starsene stipati in una nave orrenda, mentre le onde gonfie e ruggenti cercano di invaderla e un cupo vento schianta gli alberi, riducendo le vele a lunghi brandelli stridenti. Sarebbe sceso dalla nave a Melbourne, dopo aver detto educatamente arrivederci al capitano e si sarebbe diretto immediatamente verso i campi auriferi. Dopo neanche una settimana avrebbe scoperto una grossa pepita di oro puro, la più grossa pepita mai trovata, e l'avrebbe portata verso la costa su un carro scortato da sei poliziotti a cavallo. I banditi lo avrebbero aggredito tre volte, ma sarebbero stati sconfitti con un'enorme carneficina. Oppure no. Non sarebbe affatto andato nei campi auriferi. Erano posti orribili, dove gli uomini si ubriacavano, si sparavano addosso nel bar e usavano un linguaggio sconveniente. Jim sarebbe divenuto un bravo allevatore di pecore e una sera, ritornando a casa a cavallo, avrebbe visto una magnifica ereditiera sul punto di essere rapita da un bandito montato su un cavallo nero e l'avrebbe inseguita e liberata. Naturalmente lei si sarebbe innamorata di lui, e lui di lei, si sarebbero sposati, sarebbero ritornati in patria ed avrebbero vissuto in una grandissima casa, a Londra. Sì, c'erano cose meravigliose in serbo per lui, ma avrebbe dovuto comportarsi bene, non perdere la calma o spendere stupidamente i suoi soldi. Lei aveva solo un anno più di lui, ma della vita sapeva molte più cose di lui. E doveva anche badare bene a scriverle ad ogni partenza del postale, e di dire le preghiere ogni sera prima di addormentarsi. Il Signore era molto buono e avrebbe vegliato su di lui e dopo pochi anni se ne sarebbe ritornato ricchissimo e felice.
Il ragazzo l'ascoltava con aria imbronciata, senza rispondere. Lo rattristava l'idea di partire. Ma non solo per questo si sentiva triste e taciturno.
Per quanto fosse inesperto, avvertiva nettamente la pericolosità della situazione di Sibyl. Questo giovane dandy che le faceva la corte non portava con sé nulla di buono. Era un gentiluomo: per questo lo odiava, per qualche strano istinto di razza che non avrebbe potuto spiegare, e che proprio per questo era in lui ancor più dominante. Conosceva anche la superficialità e la vanità della madre e in ciò vedeva un incommensurabile pericolo per Sibyl e per la sua felicità. I figli cominciano con l'amare i propri genitori; crescendo li giudicano e, a volte, li perdonano.
Sua madre! Aveva qualcosa da chiederle, qualcosa che aveva covato in silenzio per molti mesi. Una frase udita per caso a teatro, un bisbiglio di scherno che gli era giunto all'orecchio una sera, mentre attendeva all'ingresso del palcoscenico, avevano scatenato in lui una serie di terribili pensieri. Se ne ricordava come una frustata in pieno viso. Le sue sopracciglia erano talmente aggrottate che formavano una sorta di cuneo di peli. In un sussulto di sofferenza si morse il labbro inferiore.
"Non ascolti nemmeno una parola di quello che dico, Jim," esclamò Sibyl, "e io che sto facendo i più meravigliosi progetti sul tuo avvenire. Dimmi qualcosa."
"Che cosa vuoi che dica?"
"Oh, che farai il bravo e che non ci dimenticherai," rispose Sibyl, rivolgendogli un sorriso.
Jim scosse le spalle. "È più facile che sia tu a dimenticare me, che non io te, Sibyl."
Lei arrossì. "Che cosa vuoi dire, Jim?" domandò.
"Ho sentito che hai un nuovo amico. Chi è? Perché non me ne hai parlato? Non promette nulla di buono per te."
"Smettila, Jim!" esclamò lei. "Non devi dire nemmeno una parola contro di lui. Io lo amo."
"Ma come, non sai nemmeno come si chiama," obiettò il ragazzo. "Chi è? Ho il diritto di saperlo."
"Lo chiamo Principe Azzurro. Non ti piace questo nome? Oh, cattivo! Non dovresti dimenticarlo mai. Se tu solamente lo vedessi, capiresti che è la persona più affascinante del mondo. Lo incontrerai un giorno, quando ritornerai dall'Australia. Ti piacerà moltissimo. Piace a tutti e... io lo amo. Vorrei che tu potessi venire a teatro stasera. Lui verrà e io sarò Giulietta. Oh! Come reciterò! Immagina, Jim, essere innamorata e recitare la parte di Giulietta! E averlo seduto là davanti! Recitare per la sua soddisfazione! Temo che spaventerò il pubblico, lo spaventerò e lo dominerò. Essere innamorati significa superare se stessi. Il povero, orribile signor Isaacs griderà "è un genio" ai suoi fannulloni del bar. Mi ha già predicato come un dogma, stasera mi annuncerà come una rivelazione. Lo sento. E tutto questo è suo, soltanto suo, Principe Azzurro, il mio meraviglioso amante, il mio dio della bellezza. Ma io accanto a lui sono povera. Povera? Che importanza ha? Quando la povertà entra strisciando dalla porta, l'amore arriva volando dalla finestra. I nostri proverbi dovrebbero venire rifatti. Sono stati scritti d'inverno e adesso è estate; credo che per me la primavera sia proprio una danza di fiori nel cielo azzurro."
"È un signore," disse il giovane, cupo.
"Un principe," cantò la voce di lei. "Che cosa pretendi di più?"
"Vuole che tu diventi la sua schiava."
"Tremo al pensiero di essere libera."
"Voglio che tu ti guardi da lui."
"Vederlo vuol dire adorarlo, conoscerlo vuol dire aver fiducia in lui."
"Sibyl, sei impazzita per lui."
Lei rise e lo prese per il braccio. "Caro vecchio Jim, parli come se avessi cent'anni. Un giorno ti innamorerai anche tu e allora saprai che cosa vuol dire. Non prendere quest'aria scontrosa. Dovresti essere contento al pensiero che, mentre sei lontano, mi lasci più felice di quanto non sono mai stata. La vita è stata dura per tutti e due, terribilmente dura e difficile, ma d'ora in poi le cose saranno diverse. Tu vai in un nuovo mondo, io ne ho trovato uno. Ecco due sedili, sediamoci e guardiamo passare la gente elegante."
Sedettero in mezzo a una folla di gente intenta a guardare. Dall'altra parte della strada le aiuole di tulipani fiammeggiavano come palpitanti anelli di fuoco. Una polvere bianca, come una tremula nube di ireos, era sospesa nell'ansare dell'aria. Gli ombrelli da sole dai vivaci colori danzavano e cadevano come enormi farfalle. Sibyl spinse il fratello a parlare di sé, delle sue speranze, dei suoi progetti. Jim rispondeva lentamente a fatica. Si scambiavano le parole come i giocatori si scambiano i gettoni. Sibyl si sentiva oppressa, non riusciva a manifestare la gioia che provava. L'unica eco che le riuscì di suscitare fu un debole sorriso che curvò appena, la bocca imbronciata del fratello: Dopo un po' tacque. D'un tratto colse un lampo di capelli d'oro, di labbra ridenti e Dorian Gray passò in una carrozza aperta con due signore.
Balzò in piedi. "Eccolo!" esclamò.
"Chi?" domandò Jim Vane.
"Il Principe Azzurro," rispose lei, seguendo con lo sguardo la carrozza.
Jim balzò in piedi a sua volta e le afferrò rudemente un braccio. "Fammelo vedere. Chi e? Indicamelo. Devo vederlo!" esclamò. Ma proprio in quel momento sopraggiunse il tiro a quattro del duca di Berwic e, quando fu passato, la carrozza aperta aveva lasciato il Park.
"Se ne è andato," mormorò tristemente Sibyl. "Avrei voluto che tu lo vedessi."
"Avrei voluto anch'io perché, sicuro come dio in cielo, se mai ti dovesse fare del male, lo ucciderei."
Sibyl lo fissò terrorizzata. Lui ripeté la frase. Le parole tagliarono l'aria come una frustata. La gente intorno iniziò a guardarli. Una signora che stava accanto a lei si scostò.
"Andiamo via, Jim, andiamo via," sussurrò. Lui la seguì sempre con un'espressione ostinata in volto mentre Sibyl si faceva largo tra la folla. Era contento di quello che aveva detto. Giunti alla statua di Achille, Sibyl si voltò. Aveva negli occhi un'espressione di pietà che sulle labbra si trasformò in un sorriso. Scosse il capo. "Sei sciocco, Jim, sei tremendamente sciocco; un ragazzo dal pessimo carattere, tutto qui. Come hai potuto dire una cosa così orribile? Non sai di che cosa parli. Sei soltanto geloso e poco gentile. Ah, vorrei che anche tu ti innamorassi. L'amore rende buoni, mentre le cose che hai detto sono cattive."
"Ho sedici anni," rispose lui, "e so quello che dico. La mamma non ti può essere di aiuto. Non capisce che deve sorvegliarti. Adesso vorrei non dover andare in Australia: ho una gran voglia di mandare tutto a monte. Lo farei, se non avessi già firmato un contratto."
"Oh, non essere così serio, Jim. Sei come l'eroe di uno di quegli stupidi melodrammi che la mamma recitava tanto volentieri. Non voglio litigare con te. L'ho, visto e, oh! il vederlo è una perfetta felicità. Non litigheremo. So che non saresti capace di far male a chi amo, non è vero?"
"Immagino di no, finché lo amerai," fu la cupa risposta.
"Lo amerò sempre!" esclamò lei.
"Sarà meglio per lui."
Sibyl si staccò dal fratello, poi rise e gli posò una mano sul braccio. Era solo un ragazzo.
A Marble Arch salirono su un omnibus che li lasciò vicino alla loro, squallida casa di Euston Road. Erano le cinque passate e Sibyl doveva riposare un paio d'ore prima della recita. Jim insistette perché lo facesse. Disse che preferiva salutarla mentre non c'era la madre. Avrebbe fatto di sicuro una scena e lui detestava le scene di qualunque genere.
Si separarono nella stanza di Sibyl. Nel cuore del ragazzo c'era gelosia e un odio feroce e mortale per lo sconosciuto che, secondo lui, si era messo tra loro. Tuttavia quando le braccia di lei gli allacciarono il collo e le sue dita gli si insinuarono tra i capelli, si addolcì e la baciò con sincero affetto. Scese con gli occhi pieni di lacrime. La madre lo aspettava da basso. Quando entrò, brontolò per la sua mancanza di puntualità. Jim non rispose, ma sedette davanti al misero pasto. Le mosche ronzavano intorno alla tavola, muovendosi sulla tovaglia macchiata. Attraverso il rombo degli omnibus e il fracasso delle carrozze, sentiva la voce lamentosa divorargli a uno a uno i minuti che gli restavano.
Dopo un po', allontanò il piatto e si prese la testa tra le mani. Sentiva di avere il diritto di sapere. Se i suoi sospetti erano fondati, avrebbero dovuto dirglielo prima. Piena di paura, la madre lo osservava. Le parole le cadevano meccanicamente dalle labbra mentre, tra le dita, tormentava un lacero fazzoletto di pizzo. Quando l'orologio batté le sei, il ragazzo si alzò e si avviò alla porta. Poi si voltò, fissandola. I loro occhi si incontrarono. Vide in quelli di lei una folle richiesta di pietà e ne fu irritato.
"Mamma, devo chiederti una cosa," disse. Gli occhi della donna vagarono incerti nella stanza. Non rispose. "Dimmi la verità, ho il diritto di saperlo. Tu e mio padre eravate sposati?"
La donna emise un profondo sospiro. Era un sospiro di sollievo. Quel terribile momento, quel momento temuto notte e giorno, per settimane e per mesi, era venuto finalmente. Tuttavia non ne aveva paura, anzi, in una certa qual misura ne era delusa. La rude franchezza della domanda richiedeva una risposta altrettanto franca. La situazione non si era sviluppata gradualmente: era sorta brutalmente ricordandole una brutta prova teatrale.
"No," rispose, meravigliandosi dell'aspra semplicità della vita.
"Allora mio padre era un mascalzone?" esclamò il ragazzo, stringendo i pugni.
La donna scosse il capo. "Sapevo che non era libero. Ci amavamo moltissimo. Se fosse vissuto avrebbe badato a noi. Non parlare male di lui, figlio mio. Era tuo padre ed era un gentiluomo. In verità aveva parenti molto importanti."
Dalle labbra del ragazzo sfuggì una bestemmia. "Di me, non mi importa," esclamò, "ma non lasciare che Sibyl... È un gentiluomo anche quel tipo che si è innamorato di lei, o dice di esserlo, non è vero? E immagino che anche lui abbia parenti molto importanti."
Per un momento, la donna fu sopraffatta da un vergognoso senso di umiliazione. Chinò il capo e si passo sugli occhi una mano, tremante. "Sibyl ha una madre," mormorò. "Io non l'avevo."
Il ragazzo si commosse. Si avvicinò a lei e, chinatosi, le diede un bacio. "Mi dispiace di averti fatto soffrire chiedendoti di mio padre," disse, "ma non ho potuto farne a meno. Ora devo andare. Arrivederci. Non dimenticare che adesso dovrai badare a uno solo dei tuoi figli, e credimi, se quell'uomo rovinerà mia sorella, scoprirò chi è, lo rintraccerò e lo ammazzerò come un cane. Lo giuro."
Il tono esaltato della minaccia, i gesti pieni di passione che la accompagnavano, le folli parole melodrammatiche le fecero apparire più vivida la vita. Aveva familiarità con quest'atmosfera. Respirò più liberamente e, per la prima volta dopo molti mesi, ammirò sinceramente il figlio. Avrebbe voluto continuare la scena sullo stesso tono emotivo, ma lui tagliò corto. Bisognava portar giù i bauli e cercare gli indumenti pesanti. Il facchino della pensione entrava e usciva. Poi si dovette trattare con il vetturino. Il poco tempo andò perduto in meschini particolari. Fu con un rinnovato senso di delusione che, mentre il figlio si allontanava sulla carrozza, sventolò dalla finestra il lacero fazzoletto di pizzo. Sentiva che una grande occasione era stata sprecata. Si consolò descrivendo a Sibyl quanta desolazione sarebbe entrata nella sua vita, adesso che aveva uno solo dei suoi figli a cui badare. Ricordò la frase: le aveva fatto piacere. Della minaccia non disse nulla. Era stata espressa con vivacità e senso drammatico. Sentiva che un giorno o l'altro ne avrebbero riso tutti e tre.
VI
"Immagino che tu abbia saputo la novità, Basil," disse quella sera Lord Henry, appena Hallward entrò in una stanzetta privata del Bristol dove era stato apparecchiato per tre.
"No, Harry," rispose l'artista consegnando cappello e soprabito al cameriere ossequioso. "Di che cosa si tratta? Niente politica, spero. Non mi interessa. In tutta la Camera dei comuni non c'è quasi nemmeno una persona che meriti un ritratto, anche se molti migliorerebbero alquanto con un'imbiancatina."
"Dorian Gray si è fidanzato," disse Lord Henry osservandolo attentamente mentre parlava.
Hallward sussultò, poi si accigliò. "Dorian fidanzato," esclamò. "Impossibile!"
"È verissimo!"
"Con chi?"
"Con un'attricetta o roba del genere."
"Non posso crederlo, Dorian è troppo assennato."
"Dorian è troppo saggio per non fare qualche sciocchezza di tanto in tanto, mio caro Basil."
"Il matrimonio non è una cosa che si possa fare di tanto in tanto, Harry."
"Fuorché in America," replicò distrattamente Lord Henry. "Ma non ho detto che si è sposato. Ho detto che si è fidanzato. C'è una grande differenza. Io ho il netto ricordo di essere sposato, ma non ricordo affatto di essere stato fidanzato. Sono incline a pensare di non esserlo stato mai."
"Ma pensa alla nascita, alla posizione e alla ricchezza di Dorian. Sarebbe assurdo per lui sposare una persona di ceto tanto inferiore."
"Se vuoi che sposi questa ragazza devi dirgli solo questo, Basil. Allora lo farà senz'altro. Quando un uomo commette un'enorme sciocchezza, la commette sempre per i più nobili motivi:"
"Spero che sia una brava ragazza, Harry. Non vorrei vedere Dorian legato a una creatura spregevole, che potrebbe degradare la sua natura e rovinargli l'intelletto."
"Oh, è più che brava... è bella," mormorò Lord Henry, sorseggiando un bicchiere di vermouth e arancia amara. "Dorian dice che è bella e in questo non gli capita spesso di sbagliare. Il tuo ritratto ha fatto maturare in fretta in lui la capacità di apprezzare l'aspetto degli altri. Ha avuto anche questo effetto, tra le altre cose. La vedremo stasera, se il giovanotto non dimenticherà di venire all'appuntamento."
"Dici sul serio?"
"Assolutamente sul serio, Basil. Sarei meschino se pensassi di poter essere più serio di quanto sono in questo momento."
"Ma approvi questa cosa, Harry?" domandò il pittore, muovendosi per la stanza e mordendosi il labbro. "Non è possibile che l'approvi. È una stupida infatuazione."
"Non approvo né disapprovo, mai. È un atteggiamento assurdo nei confronti della vita. Non veniamo al mondo per sciorinare i nostri pregiudizi morali. Non bado mai a quello che dicono le persone comuni e non mi intrometto mai nel comportamento delle persone affascinanti. Se una persona mi affascina, qualunque sia il modo di esprimersi da lei scelto, lo trovo assolutamente piacevole. Dorian Gray si innamora di una bella ragazza che recita la parte di Giulietta e si propone di sposarla? Perché no? Se sposasse Messalina non sarebbe meno interessante. Sai che non sono un paladino del matrimonio: il vero svantaggio del matrimonio è quello di rendere altruisti e gli altruisti sono privi di colore. Mancano di individualità. Tuttavia nel matrimonio il carattere di alcuni si fa più complesso: mantengono il loro egotismo e vi aggiungono molti altri ego. Sono costretti ad avere più di una vita. Raggiungono un maggior livello organizzativo e un elevato livello organizzativo è, a mio avviso, lo scopo dell'esistenza umana. Inoltre, ogni esperienza ha il suo valore e, qualunque cosa si possa dire contro il matrimonio, senza dubbio è un'esperienza. Spero che Dorian Gray sposi questa ragazza, la adori appassionatamente per sei mesi, e poi improvvisamente rimanga affascinato da qualcun'altra. Sarebbe uno studio meraviglioso."
"Non pensi una sola parola di quello che hai detto, Harry, e lo sai. Se Dorian Gray si rovinasse la vita, nessuno proverebbe più dispiacere di te. Sei molto migliore di ciò che pretendi di essere."
Lord Henry rise. "A noi tutti piace pensare bene degli altri perché abbiamo paura di noi stessi. La base dell'ottimismo è il puro terrore. Pensiamo di essere generosi perché attribuiamo al nostro prossimo le virtù che ci potrebbero essere utili. Lodiamo il banchiere per poterci permettere il conto scoperto e troviamo buone qualità nel bandito di strada nella speranza che ci risparmi le tasche. Sono convinto di tutto ciò che ho detto. Verso l'ottimismo nutro il più grande disprezzo. E per quanto riguarda la vita rovinata, l'unica ad esserlo è quella il cui sviluppo si arresta. Se vuoi guastare un carattere, devi solo correggerlo. Per quanto riguarda il matrimonio, evidentemente sarebbe una stupidaggine, ma un uomo e una donna possono stringere altri e più interessanti legami. Io li incoraggerei certamente. Hanno il fascino dell'eleganza. Ma ecco Dorian Gray. Lui ti spiegherà meglio di me."
"Mio caro Harry, mio caro Basil, dovete congratularvi con me!" disse il giovane togliendosi il soprabito da sera dai risvolti di seta e stringendo la mano agli amici. "Non sono mai stato tanto felice. Naturalmente è stata una cosa improvvisa, come tutte le cose veramente deliziose e tuttavia mi pare l'unica che ho atteso tutta la vita." Ardeva dall'eccitazione e dal piacere e appariva eccezionalmente bello.
"Spero che sarai molto felice, Dorian," disse Hallward, "ma non ti perdono di non avermi detto nulla del tuo fidanzamento. A Henry lo hai fatto sapere."
"E io non ti perdono di essere venuto in ritardo a pranzo," interruppe Lord Henry, posando una mano sulla spalla del giovane e sorridendo. "Venite, vediamo com'è il nuovo chef, poi ci racconterai com'è successo."
"Non c'è molto da dire in realtà." esclamò Dorian, mentre si sistemavano intorno al tavolo rotondo. "È successo semplicemente questo, Harry: dopo averti lasciato ieri sera, mi sono vestito, ho pranzato in quel ristorantino italiano di Rupert Street che mi hai fatto conoscere e alle otto sono andato a teatro. Sibyl recitava la parte di Rosalind. Naturalmente le scene erano orrende e Orlando era assurdo. Ma Sibyl! Avresti dovuto vederla! Quando entrò in scena vestita da ragazzo era semplicemente meravigliosa. Indossava un farsetto di velluto color muschio con le maniche color cannella, calzoncini marroni trapuntati e aderenti, un grazioso berrettino verde con una penna di falco fermata da un gioiello e una mantellina orlata di rosso scuro con un cappuccio. Mai m'era sembrata più deliziosa. Aveva tutta la grazia delicata di quella statuetta di Tanagra che c'è nel tuo studio, Basil. I capelli le incorniciavano il volto come foglie scure intorno a una pallida rosa. E la recitazione... beh, la vedrai questa sera. È un'attrice nata. Me ne stavo in quel minuscolo palco completamente avvinto. Ho dimenticato di essere a Londra nel diciannovesimo secolo. Ero lontano col mio amore in una foresta che nessun uomo aveva mai visto. Dopo lo spettacolo andai dietro il palcoscenico e le parlai. Mentre eravamo seduti vicini, improvvisamente le apparve negli occhi un'espressione che non avevo mai visto. Avvicinai le mie labbra alle sue. Ci baciammo. Non so descriverti quello che provai in quel momento. Mi parve che tutta la mia vita si fosse concentrata in un unico punto perfetto di rosea gioia. Lei tremava tutta e vibrava come un bianco narciso. Poi cadde sulle ginocchia e mi baciò le mani. Sento che non dovrei dirvi tutte queste cose, ma non posso farne a meno. Naturalmente il nostro fidanzamento è segreto di tomba. Lei non ne ha parlato nemmeno a sua madre. Non so che cosa diranno i miei tutori. Lord Radley si infurierà di certo. Non me ne importa. Tra meno di un anno sarò maggiorenne e allora potrò fare quel che vorrò. Ho avuto ragione, vero Basil, a prendere il mio amore dalla poesia e a trovare mia moglie in una commedia di Shakespeare? Le labbra cui Shakespeare insegnò a parlare mi hanno sussurrato nell'orecchio il loro segreto. Le braccia di Rosalind mi hanno allacciato e ho baciato Giulietta sulla bocca."
"Sì, Dorian, immagino che tu abbia ragione," disse lentamente Hallward.
"Oggi l'hai vista?" domandò Lord Henry.
Dorian Gray scosse il capo. "L'ho lasciata nella foresta di Arden, la ritroverò in un giardino di Verona."
Lord Henry sorseggiò il suo champagne con aria pensosa. "Quando esattamente hai pronunciato la parola matrimonio, Dorian? E lei che cosa ti ha risposto? Forse te ne sei completamente dimenticato."
"Mio caro Harry, non ho trattato la cosa come una transazione commerciale e non le ho fatto nessuna proposta formale. Le ho detto che l'amavo e lei mi ha detto che non si sentiva degna di diventare mia moglie. Non si sentiva degna! Ma se il mondo intero non vale nulla al suo confronto!"
"Le donne sono prodigiosamente pratiche," mormorò Lord Henry, "molto più pratiche di noi. In situazioni del genere noi dimentichiamo spesso di accennare al matrimonio e loro ce lo ricordano sempre."
Hallward gli posò una mano sul braccio. "Non dire queste cose, Harry. Hai contrariato Dorian. Lui non è come gli altri: non pensa mai male di nessuno. Ha un carattere troppo elevato."
Lord Henry lanciò un'occhiata attraverso la tavola. "Dorian non è mai contrariato con me," rispose. "Ho fatto questa domanda per la migliore delle ragioni, per l'unica ragione che, in realtà, giustifica una domanda: pura curiosità. Secondo una mia teoria, sono sempre le donne che ci propongono il matrimonio e non noi che lo proponiamo loro. Salvo, naturalmente, tra i borghesi, ma i borghesi non sono moderni."
Dorian Gray rise e scosse il capo. "Sei proprio incorreggibile, Harry, ma non importa, è impossibile arrabbiarsi con te. Quando vedrai Sibyl Vane, capirai che chi volesse farle del male sarebbe un bruto, un bruto senza cuore. Non posso capire come si possa desiderare di avvilire chi si ama. Io amo Sibyl Vane, voglio porla su un piedistallo d'oro e vedere il mondo adorare la mia donna. Che cos'è il matrimonio? Un voto irrevocabile. Per questo tu ne ridi. Ah! Non riderne. Proprio un voto irrevocabile io voglio prendere. La sua fiducia mi rende fedele, la sua certezza mi rende buono. Quando sono con lei, mi rammarico di tutto ciò che mi hai insegnato. Divento diverso dalla persona che tu conosci. Sono cambiato, e basta una carezza di Sibyl Vane per farmi dimenticare te e tutte le tue erronee, affascinanti, velenose e deliziose teorie."
"Le quali sono...?" domandò Lord Henry, servendosi l'insalata.
"Oh, le tue teorie sulla vita, sull'amore, sul piacere. Tutte le tue teorie, in realtà, Harry."
"Il piacere è l'unica cosa su cui meriti di avere una teoria," rispose Lord Henry con la voce lenta e melodiosa. "Ma mi dispiace non poter vantare l'originalità della mia. Appartiene alla natura, non a me. Il piacere è la prova della natura, il suo cenno di approvazione. Quando siamo felici, siamo sempre buoni, ma quando siamo buoni non sempre siamo felici."
"Ah, ma che cosa intendi con buoni?" esclamò Basil Hallward.
"Sì," gli fece eco Dorian appoggiandosi allo schienale della poltrona e guardando Lord Henry sopra il fitto mazzo di iris purpuree posto al centro della tavola, "che cosa intendi con buoni, Harry?"
"Essere buoni significa essere in armonia con noi stessi," rispose Lord Henry, toccando il fragile stelo del bicchiere con le dita pallide e sottili. "Siamo in disaccordo invece, quando siamo costretti ad essere in armonia con gli altri. La propria vita: questa è la cosa importante. E per quanto riguarda la vita del prossimo, se uno vuol fare il saccente o il puritano, può sfoggiare il punto di vista morale che ha su di lui, però la cosa non lo riguarda. Inoltre l'individualismo si prefigge il più elevato degli obiettivi. La morale moderna consiste nell'accettare i valori stabiliti della nostra epoca. Secondo me, per qualunque persona colta, accettare i valori stabiliti della sua epoca è una manifestazione della più rozza immoralità."
"Ma se uno vive esclusivamente per se stesso, Harry, non ti pare che paghi un prezzo terribile?" obiettò il pittore.
"Sì, oggi tutto ci costa troppo. Immagino che la vera tragedia dei poveri è che non possono permettersi altro lusso che il sacrificio. I bei peccati, come le belle cose, sono privilegio dei ricchi."
"Non si paga solo con il denaro."
"E con che cosa, Basil?"
"Oh! Con il rimorso, con la sofferenza, con... ecco, con la coscienza della propria degradazione."
Lord Henry si strinse nelle spalle. "Caro amico, l'arte medievale è affascinante, ma le emozioni medievali sono passate di moda. Si possono usare nei romanzi, naturalmente. Ma allora le sole cose che si possono usare nei romanzi sono quelle che non si adoperano più nella realtà. Credimi, nessun uomo civile rimpiange mai un piacere e nessun uomo incivile sa che cosa è un piacere."
"So che cosa è un piacere," esclamò Dorian Gray. "È adorare qualcuno."
"È certamente meglio che essere adorato," rispose Lord Henry, giocherellando con un frutto. "Essere adorati è una seccatura. Le donne ci trattano proprio come gli esseri umani trattano i loro dei. Ci adorano e non fanno altro che seccarci chiedendoci di fare qualcosa per loro."
"Avrei dovuto dire che qualunque cosa ci chiedano, ce lo hanno dato in precedenza," mormorò gravemente il giovane. "Le donne creano in noi l'amore, hanno il diritto di chiedere che venga loro restituito."
"Assolutamente vero, Dorian," esclamò Hallward.
"Non c'è nulla di assolutamente vero," disse Lord Henry.
"Questo lo è," lo interruppe Dorian. "Devi ammetterlo, Harry: le donne danno agli uomini la parte più preziosa della loro vita."
"Può darsi," sospirò Lord Henry, "ma invariabilmente la vogliono indietro in spiccioli. Questo è il guaio. Le donne, come ha detto un francese di spirito, ci ispirano il desiderio di creare capolavori e ci impediscono sempre di realizzarli."
"Harry, sei orribile! Non so perché mi piaci tanto."
"Ti piacerò sempre, Dorian," replicò Lord Henry. "Prendete il caffè, amici?... Cameriere, ci porti caffè, fine champagne e sigarette. No, lasci perdere le sigarette; ne ho io. Basil, non ti permetto di fumare il sigaro, devi prendere una sigaretta. La sigaretta è il modello perfetto di un piacere perfetto: è squisita e ti lascia insoddisfatto. Che cosa si può volere di più? Sì, Dorian, mi vorrai sempre molto bene. Per te io rappresento tutti i peccati che non hai mai avuto il coraggio di commettere."
Che assurdità dici, Harry!" esclamò il giovane, accendendo la sigaretta alla fiamma che usciva dalla bocca del drago d'argento che il cameriere aveva posato sulla tavola. "Andiamo a teatro. Quando Sibyl entrerà in scena avrai un nuovo ideale di vita. Rappresenterà per te qualcosa che non hai mai conosciuto."
"Io ho conosciuto tutto," disse Lord Henry, con un'espressione stanca negli occhi, "ma sono sempre pronto a provare nuove emozioni. Temo, tuttavia, che almeno per me non ce ne siano più. Però questa tua meravigliosa ragazza potrebbe ancora farmi provare un brivido. Mi piace moltissimo il teatro: è tanto più reale della vita. Andiamo. Dorian, tu verrai con me. Mi dispiace moltissimo, Basil, ma la carrozza ha solo due posti. Dovrai seguirci in vettura."
Si alzarono, indossarono i soprabiti e bevvero il caffè in piedi. Il pittore era silenzioso e preoccupato. Un'atmosfera di tristezza lo avvolgeva. Non poteva sopportare l'idea di questo matrimonio, tuttavia gli sembrava la cosa migliore tra le tante che avrebbero potuto accadere. Pochi minuti dopo scesero tutti. Salì in vettura da solo, come era stato deciso, e osservò i fanali luminosi della piccola carrozza che lo precedeva. Fu preso da una strana sensazione di vuoto. Sentiva che Dorian Gray non sarebbe più stato per lui quello che era stato in passato. La vita si era messa tra di loro... Gli occhi gli si oscurarono e le strade affollate e piene di luci si fecero confuse. Quando la vettura arrivò davanti al teatro, gli sembrò di essere invecchiato di anni.
VII
Per qualche strano motivo, quella sera il teatro era gremito e il grasso impresario ebreo che li accolse sulla porta era raggiante. Un sorriso untuoso e tremulo gli andava da un orecchio all'altro. Li scortò fino al loro palco con una sorta di pomposa umiltà, agitando le grasse mani ingioiellate e parlando a voce altissima. Dorian Gray lo detestava più che mai. Gli sembrava di essere venuto a cercare Miranda e di aver trovato Calibano. A Lord Henry, al contrario, l'ebreo piacque abbastanza, o almeno così disse. Volle stringergli la mano assicurandogli che era orgoglioso di conoscere un uomo che aveva scoperto un vero genio e che si era rovinato per un poeta. Hallward si divertiva ad osservare le facce in platea. Il caldo era opprimente e l'enorme lampadario fiammeggiava come una dalia mostruosa dai gialli petali di fuoco. I giovani in loggione si erano tolti la giacca e l'avevano appoggiata al parapetto. Si parlavano da un capo all'altro del teatro dividendo le arance con le ragazze vistosamente vestite che avevano a fianco. Alcune donne ridevano in platea con voci sgradevolmente acute e stridenti. Dal bar si sentiva provenire lo schiocco delle bottiglie stappate.
"Che posto per trovare la propria divinità!" disse Lord Henry.
"Sì!" rispose Dorian Gray. "L'ho trovata qui e lei è davvero divina, più di ogni essere vivente. Quando recita ci si dimentica tutto. Questi individui rozzi e ordinari, dall'espressione volgare e dai gesti brutali, si trasformano completamente quando lei è in scena. Rimangono lì silenziosi a guardarla. Lei li fa piangere e ridere come vuole, li fa rispondere come un violino. Infonde loro uno spirito e si sente che sono fatti del nostro stesso sangue e della nostra stessa carne."
"Nostro stesso sangue e nostra stessa carne! Oh, spero di no!" esclamò Lord Henry, che esaminava con il binocolo da teatro il pubblico del loggione.
"Non dargli retta, Dorian," disse il pittore. "Capisco quello che vuoi dire e credo in questa ragazza. Chiunque tu ami deve essere meraviglioso e qualunque ragazza ottenga gli effetti che tu dici deve essere bella e nobile d'animo. Spiritualizzare la propria epoca; ecco una cosa che vale la pena di fare. Se questa ragazza può dare un'anima a chi ha vissuto finora senza averne una, se può dare il senso della bellezza a chi ha vissuto una vita sordida e sgradevole, se lo può strappare dalla sua condizione d'egoismo e suscitare in lui lacrime per sofferenze e pene che non sono le sue, merita tutta la tua adorazione, merita l'adorazione del mondo intero. Questo matrimonio è assolutamente giusto. Prima non lo credevo, ma ora lo riconosco. Gli dei hanno fatto Sibyl Vane per te. Senza di lei saresti stato incompleto."
"Grazie, Basil," disse Dorian Gray, stringendogli una mano. "Sapevo che tu mi avresti capito. Harry è talmente cinico che mi terrorizza. Ma ecco l'orchestra: è spaventosa, ma dura solo cinque minuti. Poi il sipario si alzerà e vedrai la ragazza a cui sto per dedicare tutta la mia vita, la ragazza cui ho donato tutto ciò che ho di buono."
Un quarto d'ora dopo, tra un lungo scroscio di applausi, Sibyl Vane entrò in scena. Sì, pensò Lord Henry, era certamente bella da vedere, una delle più belle creature che avesse mai visto. Nella sua timida grazia, negli occhi stupiti c'era qualcosa di un cerbiatto. Quando diede uno sguardo alla sala affollata ed entusiasta, un leggero rossore le salì alle guance, simile al riflesso di una rosa in uno specchio d'argento. Arretrò leggermente e un fremito parve muoverle le labbra. Basil Hallward balzò in piedi e cominciò ad applaudire. Dorian Gray sedeva immobile, fissandola come in sogno. Lord Henry la osservava nel binocolo, mormorando: "Incantevole! Incantevole!"
La scena rappresentava un salone nella casa dei Capuleti e Romeo, in abito da pellegrino, era entrato con Mercuzio e altri amici. L'orchestra fece del suo meglio per tirar fuori alcuni accordi e la danza incominciò. In mezzo al gruppo di attori goffi e malvestiti, Sibyl Vane si muoveva come una creatura di un mondo superiore. Il suo corpo ondeggiava nella danza come una pianta nell'acqua. Le curve della gola erano quelle di un bianco giglio. Le mani sembravano di fresco avorio. E tuttavia sembrava stranamente distratta. Non mostrò alcun segno di gioia quando i suoi occhi si posarono su Romeo. Le poche parole che doveva dire:
Buon pellegrino, fate troppo torto alla vostra mano, che in ciò dimostra cortese devozione; perché anche i santi hanno mani che i pellegrini possono toccare e palma contro palma è il bacio del palmiere santo.
e il breve dialogo successivo vennero recitati in forma nettamente artificiosa. La voce era squisita, ma il tono era assolutamente falso. Sbagliato di colore, toglieva ogni vita ai versi, rendendo la passione irreale. Dorian Gray la osservava, pallido. Non capiva ed era angosciato. Gli amici non osavano dirgli nulla: avevano l'impressione che Sibyl Vane non avesse nessuna qualità ed erano terribilmente delusi.
Sapevano però che una Giulietta la si può giudicare soltanto nella scena del balcone del secondo atto e l'aspettavano: se cadeva, non aveva proprio nessuna stoffa.
Era affascinante quando apparve sotto la luce della luna, non si poteva negarlo, ma la recitazione artificiosa era insopportabile e divenne sempre peggiore. I suoi gesti erano assurdamente teatrali e pronunciava ogni frase con enfasi eccessiva. Il bel passo:
Tu sai che la maschera della notte è sul mio viso, altrimenti un rossore di fanciulla dipingerebbe la mia guancia per ciò che tu mi hai udito dire questa notte.
fu declamato con la sgradevole precisione di una studentessa impostata da un'insegnante di dizione di seconda categoria. Quando si sporse dal balcone e giunse a quei meravigliosi versi:
Sebbene tu sia la mia gioia, non ne traggo alcuna da questo nostro patto, questa notte: è troppo sconsiderato, troppo inatteso, troppo improvviso, troppo simile al lampo che cessa di esistere prima che si sia finito di dire "lampeggia". Amore, buona notte; e questo bocciolo d'amore, maturando al soffio dell'estate, potrà divenire un magnifico fiore per l'ora del nostro prossimo incontro.
pronunciò le parole come se non significassero nulla. Non era nervosa, anzi pareva controllarsi perfettamente. La sua era semplicemente pessima recitazione: un completo fallimento.
Anche gli spettatori volgari e incolti della platea e del loggione persero ogni interesse alla rappresentazione. Cominciarono ad agitarsi, a parlare a voce alta e a fischiare. L'impresario ebreo, fermo in fondo alla prima galleria, pestava i piedi e bestemmiava, rabbioso. Solo Sibyl pareva impassibile.
Alla fine del secondo atto ci fu un uragano di fischi. Lord Henry si alzò e indossò il soprabito. "È molto bella, Dorian," disse, "ma non sa recitare. Andiamo."
"Vedrò la commedia fino alla fine," rispose il giovane con voce dura e amara. "Mi spiace moltissimo di averti fatto perdere la serata, Harry. Mi scuso con tutti e due."
"Mio caro Dorian, secondo me la signorina Vane non si sente bene," interruppe Hallward. "Verremo qualche altra sera."
"Vorrei che non si sentisse bene," replicò Dorian. "Ma mi pare che sia semplicemente fredda e priva di sensibilità. È cambiata completamente. Ieri sera era una grande artista, questa sera è solo un'attrice banale e priva di qualità."
"Non parlare così, chiunque sia la persona che ami, Dorian. L'amore è più meraviglioso dell'arte."
"Sono entrambi forme di imitazione," fece notare Lord Henry. "Ma andiamocene, Dorian, sei rimasto qui abbastanza. Una pessima recitazione è demoralizzante. A parte questo, non penso che vorrai far recitare tua moglie. E quindi che importanza ha se interpreta Giulietta come un burattino? È molto attraente e, se conosce tanto poco la vita quanto la recitazione, sarà un'esperienza piacevolissima. Ci sono solo due tipi di persone davvero affascinanti: quelle che sanno tutto e quelle che non sanno assolutamente nulla. Santo cielo, mio caro ragazzo, non assumere un'aria così tragica. Il segreto per restare giovani è di non aver mai un'emozione che non ci si addice. Vieni al club con Basil e con me. Fumeremo sigarette e brinderemo alla bellezza di Sibyl Vane. È bella, che cosa vuoi di più?"
"Vattene, Harry," esclamò il ragazzo. "Voglio restare solo. Basil, devi andartene. Ah! Non vedete che mi si spezza il cuore?" Calde lacrime gli salirono agli occhi, le labbra gli tremarono. Corse nel fondo del palco e si appoggiò al muro nascondendo il viso tra le mani.
"Andiamo, Basil," disse Lord Henry, con una strana tenerezza nella voce. E i due giovani uscirono insieme.
Qualche momento dopo le luci della ribalta si accesero e il sipario si alzò sul terzo atto. Dorian Gray ritornò alla sua poltrona. Era pallido, altero, indifferente. Lo spettacolo tirava avanti faticosamente e pareva non terminare mai Metà del pubblico se n'era andata strascicando pesantemente i piedi e ridendo. Era un fiasco completo. L'ultimo atto si svolse davanti ad una sala quasi vuota. Il sipario calò tra una risatina e alcuni gemiti.
Appena finito lo spettacolo, Dorian Gray si precipitò dietro il palcoscenico, nei camerini. La ragazza era là, sola, con un'espressione di trionfo in viso. Un fuoco squisito le illuminava lo sguardo. Intorno a lei c'era un'aura di splendore, le sue labbra socchiuse, sorridevano a qualche loro intimo segreto.
Quando Dorian entrò, lo guardò e fu come avvolta da un'espressione di infinita felicità. "Come ho recitato male stasera, Dorian!" esclamò.
"Orribilmente," rispose lui osservandola stupito, "orribilmente! Una cosa terribile. Non ti senti bene? Non hai idea di quel che è stato. Non immagini quel che ho sofferto."
La ragazza sorrise. "Dorian," rispose, indugiando sul nome con una lunga modulazione come se sui rossi petali della sua bocca esso fosse più dolce del miele. "Dorian, dovresti aver capito. Ma capisci, ora, non è vero?"
"Che cosa dovrei capire?" domandò lui incollerito.
"Perché ho recitato così male stasera. Perché reciterò sempre male, perché non reciterò più bene."
Dorian Gray si strinse nelle spalle. "Immagino che tu non stia bene. Non dovresti recitare quando ti senti così. Ti rendi ridicola. I miei amici si sono annoiati, io mi sono annoiato."
Sibyl pareva non ascoltarlo. Era trasfigurata dalla gioia, era dominata da un'estasi di felicità.
"Dorian, Dorian," esclamò, "prima di conoscerti, recitare era l'unica realtà della mia vita. Vivevo solo nel teatro, credevo che fosse tutto vero. Una sera ero Rosalind, un'altra sera Porzia. La gioia di Beatrice era la mia gioia, ed erano anche mie le sofferenze di Cordelia. Credevo a tutto. Le persone mediocri che recitavano con me mi sembravano simili a dei, le scene dipinte erano il mio mondo. Conoscevo solo ombre e le credevo reali. Poi sei venuto tu, oh, mio dolcissimo amore, e hai liberato la mia anima dalla prigione. Mi hai insegnato che cos'è la realtà. Stasera, per la prima volta in vita mia, ho visto fino in fondo la falsità, la mistificazione, la stupidità della vuota parata in cui avevo sempre recitato. Questa sera per la prima volta mi sono resa conto che Romeo era ripugnante, vecchio, truccato, che la luce della luna nel giardino era falsa, lo scenario era volgare, mentre le parole che dovevo pronunciare erano irreali, non erano mie, non erano le parole che volevo dire. Tu mi hai dato qualche cosa di più elevato, qualche cosa di cui ogni arte è solo un riflesso. Mi hai fatto capire che cosa è veramente l'amore. Amore mio! Amore mio! Principe Azzurro! Principe della Vita! Le ombre mi nauseano, ormai. Tu sei per me più di quanto potranno mai essere tutte le arti. Che cosa ho a che fare con i pupazzi di una commedia? Quando sono entrata in scena questa sera, non riuscivo a capire come mai avevo perduto tutte le mie capacità. Pensavo che sarei stata meravigliosa e scoprii che non sapevo fare nulla. Improvvisamente, nell'anima mi baluginò il significato di tutto questo e il saperlo fu per me una sensazione deliziosa. Li sentivo fischiare e sorridevo. Che cosa possono sapere loro di un amore come il nostro? Portami via, Dorian... portami via con te in un posto dove possiamo essere assolutamente soli. Odio il palcoscenico. Potrei imitare una passione che non sento, ma non una che mi arde come fuoco. Oh, Dorian, Dorian, capisci ora che cosa significa? Se anche potessi farlo, sarebbe una profanazione per me recitare la parte dell'innamorata. Me lo hai fatto capire tu."
Dorian Gray si lasciò cadere sul divano e distolse il viso. "Tu hai ucciso il mio amore," mormorò.
Lei lo guardò stupita e rise. Dorian non rispose. Si avvicinò a lui e con le piccole dita gli accarezzò i capelli, poi si inginocchiò portando le sue mani alle labbra. Lui le ritrasse e rabbrividì.
Poi si alzò e si avvicinò alla porta. "Sì," esclamò, "hai ucciso il mio amore. Prima stimolavi la mia immaginazione, ora non stimoli nemmeno la mia curiosità. Semplicemente, non provochi in me nessuna reazione. Ti amavo perché eri meravigliosa, perché eri intelligente e dotata, perché facevi vivere i sogni di grandi poeti e rafforzavi e materializzavi le ombre dell'arte. Hai gettato via tutto, sei stupida e superficiale. Mio Dio! Che pazzo sono stato ad amarti! Che stupido sono stato! Adesso non sei più nulla per me. Non ti rivedrò più, non ti penserò più, non pronuncerò più il tuo nome. Tu non sai che cosa rappresentavi per me una volta. Come mai... oh, non riesco a pensarci! Vorrei non aver mai posato lo sguardo su di te! Tu hai rovinato il più bell'episodio d'amore della mia vita. Come conosci poco l'amore se pensi che guasti la tua arte! Senza di essa non sei nulla. Ti avrei resa famosa, splendida, magnifica. Il mondo ti avrebbe adorata e tu avresti portato il mio nome. Che cosa sei adesso? Un'attrice di terz'ordine dal viso grazioso."
La ragazza impallidì e fu scossa da un tremito. Si strinse le mani e la voce le si bloccò in gola. "Non dirai sul serio, Dorian?" mormorò. "Stai recitando."
"Recitare! Lo lascio fare a te. Sei così brava," rispose lui, amaro. Sibyl si rialzò e con una pietosa espressione di sofferenza si avvicinò a lui. Gli posò una mano sul braccio e lo guardò negli occhi. Lui la respinse. "Non toccarmi!" disse con forza.
Con un fievole gemito Sibyl si gettò ai suoi piedi e rimase immobile come un fiore calpestato. "Dorian! Dorian! Non lasciarmi!" sussurrò. "Mi dispiace tanto di non aver recitato bene. Ho pensato a te tutto il tempo. Ma proverò... davvero, proverò. Mi ha travolto così improvvisamente, il mio amore per te. Credo che non me ne sarei mai resa conto se non mi avessi baciata... se non ci fossimo baciati. Baciami ancora, amore mio. Non andartene via. Non potrei sopportarlo. Oh, non andartene via. Mio fratello... no, non importa, non diceva sul serio, scherzava... Ma tu, oh, non puoi perdonarmi questa sera? Lavorerò intensamente e cercherò di migliorare. Non essere crudele con me perché ti amo più di qualunque cosa al mondo. Dopo tutto, solo per una volta non ti ho soddisfatto. Ma hai perfettamente ragione, Dorian. Avrei dovuto comportarmi più da artista. Sono stata sciocca, ma non potevo farne a meno. Oh, non lasciarmi, non lasciarmi." Fu scossa da singhiozzi appassionati. Era rannicchiata sul pavimento come una bestiola ferita e Dorian Gray la guardava dall'alto con quei suoi occhi meravigliosi. Le labbra finemente cesellate erano piegate in un'espressione di squisito disprezzo. Vi è sempre qualche cosa di ridicolo nelle emozioni delle persone che non si amano più. Sibyl Vane gli sembrava assurdamente melodrammatica. Le sue lacrime e i suoi singhiozzi lo infastidivano.
"Me ne vado," disse alla fine con la sua voce calma e chiara. "Non vorrei essere scortese, ma non posso rivederti più. Mi hai deluso."
Sibyl piangeva silenziosamente; non rispose, ma si trascinò più vicino a lui. Allungò ciecamente le piccole mani come se volesse cercarlo. Dorian si voltò di scatto e lasciò la stanza. Pochi istanti dopo era uscito dal teatro.
Non seppe mai bene dove fosse andato. Ricordò di aver vagato per strade debolmente illuminate, di aver superato desolati portici bui e case dall'aspetto sinistro. Donne dalle voci rauche e dalle aspre risate lo avevano chiamato. Ubriachi vacillanti bestemmiavano e parlavano tra sé come scimmie mostruose. Aveva visto bambini grotteschi rannicchiati sulle soglie e udito grida e maledizioni provenire da cortili oscuri.
Alle prime luci dell'alba si trovò vicino al Covent Garden. L'oscurità scompariva e, arrossendo di pallidi fuochi, il cielo si incavava trasformandosi in una perla perfetta. Carri enormi, colmi di gigli ondeggianti, rotolavano rumorosamente sulle strade lucide e vuote. L'aria era intrisa del profumo dei fiori e la loro bellezza sembrava attutire la sua sofferenza. Li seguì nel mercato e osservò gli uomini scaricare i cassoni. Un carrettiere dalla camicia bianca gli offrì delle ciliege. Lo ringraziò domandandosi stupito perché non avesse accettato dei soldi e si mise a mangiarle distrattamente. Erano state colte a mezzanotte e la freschezza della luna le aveva penetrate. Una lunga fila di ragazzi che portavano ceste di tulipani screziati e di rose gialle e rosse gli passò davanti, cercando di avanzare tra le grandi cataste di verdure color verde giada. Sotto il porticato dai grigi pilastri scoloriti dal sole, un gruppo di ragazze sudice e a testa nuda, aspettava che l'asta finisse. Altre si affollavano intorno alla porta girevole del caffè della piazza. I massicci cavalli da tiro sdrucciolavano e scalpitavano sulle pietre irregolari, scuotendo le campanelle dei finimenti. Alcuni carrettieri dormivano sdraiati su una pila di sacchi. I colombi dal collo iridescente e dalle zampe rosa correvano intorno beccando.
Dopo un poco fece segno a una carrozza e si fece portare a casa. Indugiò per qualche momento sulla soglia, osservando la piazza silenziosa, le finestre chiuse e vuote, le persiane sbarrate. Adesso il cielo era un puro opale e su questo sfondo i tetti delle case brillavano come argento. Da un camino di fronte saliva un sottile filo di fumo, che si svolgeva come un nastro viola nell'aria color madreperla.
Nella grande lanterna veneziana dorata, predata da una gondola dogale, che pendeva dal soffitto del grande vestibolo rivestito di quercia, ardevano ancora tremolando le fiammelle di tre beccucci: parevano sottili petali azzurri di fiamma, orlati di fuoco bianco. Li spense e, gettati sulla tavola soprabito e cappello, attraversò la biblioteca dirigendosi verso la porta della camera da letto, una vasta stanza ottagonale al pianterreno che, nella sua nuova passione per il lusso, da poco aveva arredato da solo, appendendovi alcuni insoliti arazzi rinascimentali scoperti in una soffitta abbandonata di Selby Royal. Mentre abbassava la maniglia lo sguardo gli cadde sul ritratto dipinto da Basil Hallward. Arretrò sorpreso, poi entrò nella sua camera con un'espressione leggermente perplessa. Sbottonò la giacca e parve esitare; alla fine ritornò indietro, si avvicinò al quadro e lo osservò. Nella luce pallida che filtrava dalle tende di seta color crema, il volto gli sembrò leggermente cambiato: l'espressione era diversa. Si sarebbe detto che la bocca avesse assunto una nota di crudeltà. Era davvero strano.
Si voltò, si diresse verso la finestra e scostò la tenda. L'alba luminosa inondò la stanza spazzando le ombre fantastiche negli angoli polverosi, dove esse si nascosero tremando. Ma la strana espressione che aveva notato sul volto del ritratto parve rimanervi e, anzi, rafforzarsi. La tremula, ardente luce del sole gli mostrava le rughe di crudeltà intorno alla bocca chiare come se si stesse guardando in uno specchio dopo aver commesso qualche cosa di spaventoso.
Trasalì e, preso dal tavolo uno specchio ovale dalla cornice di amorini d'avorio, uno dei tanti regali di Lord Henry, guardò ansiosamente nella lucida profondità. Nessuna ruga simile deformava le labbra rosse. Che cosa significava?
Si strofinò gli occhi e, avvicinatosi al quadro, lo esaminò di nuovo. Il quadro non mostrava il minimo segno di cambiamento e tuttavia l'espressione complessiva era alterata. Non era la sua immaginazione: il fatto era di un'orribile evidenza.
Si gettò su una poltrona e cominciò a pensare. Improvvisamente, come un lampo, gli attraversò la mente quello che aveva detto nello studio di Basil Hallward il giorno in cui il quadro era stato finito. Sì, lo ricordava perfettamente. Aveva espresso il folle desiderio di poter restar giovane lasciando che il ritratto invecchiasse al posto suo, di conservare intatta la sua bellezza lasciando che il volto sulla tela reggesse il peso delle sue passioni e dei suoi peccati, che le rughe della sofferenza e della riflessione segnassero l'immagine dipinta permettendogli di conservare il bocciolo delicato e la grazia della sua adolescenza di cui da poco era consapevole. Ma certo il suo desiderio non era stato esaudito: queste cose erano impossibili. Gli pareva mostruoso anche solo pensarle. Tuttavia aveva davanti a sé il ritratto con quella nota di crudeltà nelle labbra.
Crudeltà! Era stato crudele? Colpa della ragazza, non sua. L'aveva sognata come una grande artista, le aveva donato il suo amore pensando che lei fosse grande, e lei lo aveva deluso. Si era mostrata frivola e indegna. Tuttavia, una sensazione di infinito rimpianto lo colse mentre la ricordava abbandonata ai suoi piedi singhiozzante come un bambino. Ricordò con quanta cattiveria l'aveva guardata. Perché era fatto così? Perché aveva ricevuto un'anima simile? Ma anche lui aveva sofferto. Durante quelle tre tremende ore dello spettacolo aveva vissuto secoli di dolore, eternità di torture. La sua vita valeva bene quella di lei. Sibyl gli aveva inflitto un momento di sofferenza insopportabile, anche se lui l'aveva ferita inguaribilmente. Inoltre, le donne sopportano il dolore meglio degli uomini. Vivono delle loro emozioni. Quando si prendono un amante lo fanno semplicemente per avere qualcuno cui fare scenate. Glielo aveva detto Lord Henry, e Lord Henry conosceva le donne. Perché darsi pensiero per Sibyl Vane? Non significava più nulla per lui ormai.
Ma il quadro? Che cosa poteva pensarne? Custodiva il segreto della sua vita e raccontava la sua storia. Gli aveva insegnato ad amare la propria bellezza. Gli avrebbe anche insegnato ad amare la propria anima? Lo avrebbe potuto guardare ancora?
No, era solo un'illusione dovuta ai suoi sensi turbati. L'orribile notte trascorsa aveva lasciato dietro di sé i suoi fantasmi. Improvvisamente gli era caduta nel cervello quella minuscola goccia scarlatta che porta gli uomini alla pazzia. Il quadro non aveva subito nessun cambiamento, era folle pensarlo.
E tuttavia lo aveva davanti agli occhi, con quel bel viso contorto e il sorriso crudele. I capelli luminosi rilucevano sotto i raggi del primo sole, gli occhi azzurri erano fissi nei suoi. Fu sopraffatto da un senso d'infinita pietà, non per se stesso, ma per l'immagine dipinta di se stesso. Già si era alterata e lo sarebbe stata ancora di più. L'oro si sarebbe spento in grigio, le sue rose rosse e bianche sarebbero appassite. Per ogni peccato commesso, una macchia avrebbe contaminato e deteriorato la sua bellezza. Ma non avrebbe peccato. Il quadro, mutato o immutato, sarebbe stato il simbolo visibile della sua coscienza. Avrebbe resistito alla tentazione. Non avrebbe più rivisto Lord Henry... o perlomeno non avrebbe più ascoltato quelle sue sottili e velenose teorie che nel giardino di Basil Hallward avevano stimolato per la prima volta in lui la passione per le cose impossibili. Sarebbe ritornato da Sibyl Vane, le avrebbe chiesto perdono, l'avrebbe sposata, avrebbe cercato di amarla ancora. Sì, questo era il suo dovere. Lei doveva aver sofferto più di lui. Povera piccola! Era stato egoista e crudele con lei. Il fascino che aveva esercitato su di lui sarebbe risorto. Insieme sarebbero stati felici. La sua vita con lei sarebbe stata bella e pura.
Si alzò dalla poltrona e portò un grande paravento proprio davanti al ritratto. Gli lanciò un'occhiata e rabbrividì. "Che cosa orribile!" mormorò tra sé. Si diresse alla porta finestra e l'aprì. Uscì e, camminando sull'erba, trasse un profondo respiro. L'aria fresca del mattino parve allontanare tutte le sue cupe passioni. Pensava solo a Sibyl. Un debole eco del suo amore ritornò in lui. Ripeté più volte il suo nome. Gli uccelli che cantavano nel giardino bagnato di rugiada sembravano parlare di lei ai fiori.
VIII
Quando si svegliò, mezzogiorno era passato da un pezzo. Il suo cameriere era già entrato diverse volte in punta di piedi per vedere se il padrone accennava a svegliarsi, chiedendosi come mai dormisse così a lungo. Finalmente il campanello squillò e Victor entrò silenziosamente con una tazza di tè e una pila di lettere posate su un piccolo vassoio di antica porcellana di Sevres; scostò le tende di seta color verde oliva rigate di un azzurro luminoso tese sulle tre grandi finestre.
"Monsieur ha dormito bene questa mattina," disse con un sorriso.
"Che ora è Victor?" domandò Dorian Gray.
"L'una e un quarto, signore."
Com'era tardi! Si sollevò a sedere e, dopo aver bevuto un po' di tè, scorse le lettere. Una, di Lord Henry, era stata consegnata a mano in mattinata. Esitò un attimo, poi la mise da parte. Aprì le altre pigramente: la solita collezione di cartoncini, di inviti a pranzo, di biglietti per visioni private, di programmi di concerti di beneficenza e simili, che piovono ogni mattina, durante la "Season", nella casa di ogni giovane alla moda. C'era un conto piuttosto salato, per un servizio da toilette d'argento cesellato Louis-Quinze: non aveva ancora avuto il coraggio di mandarlo ai suoi tutori, persone dalle idee molto antiquate che non si rendevano conto che viviamo in un'epoca in cui le cose superflue sono le uniche necessarie. C'erano inoltre diversi annunci redatti in termini molto cortesi di usurai di Jermyn Street che offrivano qualunque somma in prestito su semplice richiesta e al tasso più ragionevole.
Dopo circa dieci minuti si alzò e, gettata sulle spalle una ricca vestaglia di cashmere ricamata in seta, si trasferì nella stanza da bagno dal pavimento in onice. Dopo il lungo sonno, l'acqua fresca lo ristorò. Pareva aver dimenticato tutti gli avvenimenti della notte precedente. Una volta o due ebbe, ma come avvolta dall'irrealtà del sogno, la debole sensazione di aver partecipato a qualche oscuro dramma.
Appena vestito entrò in biblioteca e sedette a un tavolino rotondo vicino alla finestra aperta, sul quale era stata apparecchiata una leggera colazione alla francese. Era una splendida giornata. L'aria tiepida sembrava carica di aromi. Un'ape entrò nella stanza e ronzò attorno al vaso turchese pieno di rose color giallo zolfo che aveva davanti. Si sentiva completamente felice.
D'improvviso, lo sguardo gli cadde sul paravento che aveva sistemato davanti al ritratto e sussultò.
"Troppo freddo per Monsieur?" domandò il cameriere, mettendo un'omelette sulla tavola. "Devo chiudere la finestra?"
Dorian scosse il capo. "Non ho freddo," mormorò.
Allora era vero? Il ritratto era effettivamente cambiato? Oppure solo l'immaginazione gli aveva fatto vedere un'espressione malvagia là dove prima c'era un'espressione di gioia? Era proprio impossibile che una tela dipinta mutasse? Assurdo. Una storiella che un giorno avrebbe raccontato a Basil. Lo avrebbe fatto sorridere.
E tuttavia come era vivido il ricordo del fatto! Prima, nella debole luce dell'aurora, poi nella più chiara luce dell'alba, aveva visto la nota di crudeltà intorno alle labbra contorte. Aveva quasi paura che il cameriere lasciasse la stanza perché sapeva che, rimasto solo, avrebbe dovuto guardare il ritratto. Temeva quella certezza. Quando gli venne portato il caffè e l'uomo si voltò per andarsene, sentì impellente il desiderio di chiedergli di rimanere. Lo chiamò mentre stava chiudendo la porta. L'uomo si fermò in attesa dei suoi ordini. Dorian lo fissò per un momento. "Non sono in casa per nessuno, Victor," disse con un sospiro. L'uomo si inchinò e uscì.
Allora si alzò, si accese una sigaretta e si distese su un divano coperto di preziosi cuscini, situato di fronte al paravento. Era un antico paravento di cuoio spagnolo dorato, con impressioni e decorazioni stile Louis-Quatorze piuttosto ricche. Lo osservò con curiosità, domandandosi se in altre occasioni avesse celato il segreto di una vita.
Ma dopotutto, doveva proprio scostarlo? Perché non lasciarlo dov'era? A che cosa gli serviva sapere? Se la cosa era vera, era terribile. Se non lo era, perché preoccuparsene? Ma se per caso, o per qualche nefasta possibilità, altri sguardi avessero spiato dietro il paravento e notato l'orribile cambiamento? Che cosa avrebbe dovuto fare se Basil Hallward fosse venuto a chiedergli di vedere il suo quadro? Lo avrebbe fatto di certo. No, bisognava analizzare la cosa immediatamente. Qualunque cosa era meglio di quel terribile dubbio.
Si alzò e chiuse a chiave le due porte. Almeno sarebbe stato solo a guardare la maschera della sua vergogna. Quindi scostò il paravento e vide se stesso faccia a faccia. Era perfettamente vero: il ritratto era mutato.
In seguito ricordò spesso e sempre con non poca meraviglia, di essersi dapprima trovato ad esaminare il quadro con un interesse quasi scientifico. Gli sembrava incredibile che un simile mutamento potesse avvenire. E tuttavia era un fatto reale. C'era forse qualche sottile affinità tra gli atomi che si erano raccolti in forma di colore sulla tela e l'anima che era in lui? Era possibile che essi realizzassero ciò che l'anima pensava? Che dessero corpo a ciò che essa sognava? Oppure c'era qualche altro e più terribile motivo? Rabbrividì, sentì di aver paura e, tornato sul divano, rimase disteso, fissando il ritratto con un senso di nausea e di orrore.
Sentiva, comunque, che il ritratto aveva fatto almeno una cosa per lui. Gli aveva fatto capire quanto fosse stato ingiusto e crudele nei confronti di Sibyl Vane. Ma non era troppo tardi per riparare: poteva ancora diventare sua moglie. Il suo amore irreale ed egoista avrebbe ceduto a una più elevata influenza, si sarebbe trasformato in una più nobile passione e il ritratto che Basil Hallward aveva dipinto gli sarebbe stato di guida nella vita, sarebbe stato per lui quello che la santità è per alcuni e, per tutti, il timor di Dio. Esistono narcotici per il rimorso, droghe che possono addormentare il senso morale, ma qui c'era il simbolo palese della degradazione del peccato, il segno sempre presente delle rovine che gli uomini infliggono alla loro anima.
Batterono le tre, poi le quattro, poi la mezz'ora fece squillare i suoi due colpi, ma Dorian Gray non si mosse. Cercava di raccogliere i fili scarlatti della vita, di tesserli in uno schema, di trovare la strada nel sanguigno labirinto delle passioni in cui vagava. Non sapeva che cosa fare né cosa pensare. Alla fine, sedette al tavolo e scrisse una lettera appassionata alla ragazza che aveva amato, implorando il suo perdono e accusandosi di follia. Coprì pagine e pagine di sfrenate parole di rimorso e di ancor più sfrenate parole di dolore. C'è una voluttà nell'autoaccusa. Quando ci rimproveriamo sentiamo che nessun altro ha il diritto di farlo. È la confessione, non il prete, a impartirci l'assoluzione. Quando Dorian Gray ebbe finito la lettera sentì di esser stato perdonato.
Improvvisamente sentì bussare alla porta, poi la voce di Lord Henry provenire da fuori. "Mio caro ragazzo, devo vederti. Fammi entrare subito. Non posso lasciarti chiuso qui in questo modo."
Dapprima non rispose, ma rimase assolutamente immobile. I colpi però continuavano, sempre più forti. Sì, era meglio far entrare Lord Henry, spiegargli la nuova vita che intendeva condurre, litigare con lui se necessario, rompere se era inevitabile. Balzò in piedi, tirò in fretta il paravento davanti al quadro e girò la chiave.
"Sono così dispiaciuto per tutta la faccenda, Dorian," disse Lord Henry entrando. "Ma devi cercare di non pensarci."
"Parli di Sibyl Vane?" domandò il giovane.
"Sì, naturalmente," rispose Lord Henry, affondando in una poltrona e togliendosi lentamente i guanti gialli. "È spaventoso, sotto un certo aspetto, ma non è stata colpa tua. Dimmi, ieri sera dopo la fine dello spettacolo sei andato a trovarla nel camerino?"
"Sì."
"Ne ero sicuro. Le hai fatto una scenata?"
"Sono stato brutale, Harry, assolutamente brutale. Ma adesso tutto è sistemato. Adesso non sono più addolorato per quello che è successo. Mi ha insegnato a conoscermi meglio."
"Ah, Dorian, sono così contento che tu la prenda in questo modo! Temevo di trovarti sprofondato nel rimorso e intento a strapparti quei tuoi bei riccioli biondi."
"Sono passato attraverso tutte queste fasi," disse Dorian, scuotendo il capo e sorridendo. "Adesso però, sono perfettamente felice. Tanto per cominciare so che cos'è la coscienza. Non è quello che mi avevi detto tu: è la cosa più divina che ci sia in noi. Non riderne, Harry, non riderne più... davanti a me, almeno. Voglio essere buono. Non posso sopportare l'idea che la mia anima sia ripugnante."
"Un'affascinante base artistica per la morale, Dorian! Me ne congratulo. Ma come intendi cominciare?"
"Sposando Sibyl Vane."
"Sposando Sibyl Vane!" esclamò Lord Henry, balzando in piedi e fissandolo con un'espressione perplessa e meravigliata. "Ma, mio caro Dorian..."
"Sì, Harry, so che cosa stai per dire. Qualche cosa di terribile a proposito del matrimonio. Non dirla. Non dirmi mai più cose del genere. Due giorni fa ho chiesto a Sibyl di sposarmi e non intendo rompere la promessa. Sarà mia moglie!"
"Tua moglie! Dorian!... Non hai ricevuto la mia lettera? L'ho scritta questa mattina e l'ho fatta portare dal mio cameriere.
"La tua lettera? Oh, sì, ricordo. Non l'ho letta, Harry. Temevo che contenesse qualcosa di spiacevole. Tu, con i tuoi epigrammi fai a brandelli la vita."
"E allora non sai nulla?"
"Che cosa vuoi dire?"
Lord Henry attraversò la stanza e, sedutosi accanto a Dorian, gli prese le mani nelle sue e gliele tenne strette. "Dorian," disse, "la mia lettera... non spaventarti... l'ho scritta per dirti che Sibyl Vane è morta."
Un grido di dolore eruppe dalle labbra del giovane. Dorian balzò in piedi, strappando le mani dalla stretta di Lord Henry. "Morta! Sibyl morta! Non è vero! Che orrenda bugia! Come osi dirla?"
"È vero, Dorian," disse Lord Henry, gravemente. "È su tutti i giornali del mattino. Ti ho scritto chiedendoti di non vedere nessuno prima di me. Ci sarà un'inchiesta, naturalmente, e tu non devi venire coinvolto. Con cose di questo genere a Parigi si diventa alla moda, ma a Londra la gente è piena di pregiudizi. Qui non bisogna mai fare il proprio debut con uno scandalo: bisogna tenerlo in serbo per rendere interessante la propria vecchiaia. Immagino che a teatro non sappiano chi sei. Se è così, tutto bene. Ti ha visto qualcuno nelle vicinanze del suo camerino? Questo è un punto importante."
Per qualche momento Dorian non rispose. Era raggelato dall'orrore. Infine balbettò con un fil di voce: "Harry, un'inchiesta, hai detto? Che cosa significa? Sibyl si è ... ? Oh, Harry, non posso sopportarlo! Presto. Dimmi tutto immediatamente."
"Sono sicuro che non si è trattato di un incidente, anche se al pubblico bisogna presentarlo sotto questa luce. Pare che mentre lasciava il teatro con la madre, verso le dodici e mezzo circa, abbia detto di aver dimenticato qualcosa di sopra. L'hanno attesa per un po', ma lei non scendeva. Alla fine l'hanno trovata distesa sul pavimento del camerino. Aveva inghiottito per sbaglio qualche cosa, qualche sostanza pericolosa che impiegano a teatro. Non so se si trattasse di acido prussico o di biacca di piombo. Acido prussico, penso, perché pare sia morta istantaneamente."
"Harry, Harry, è terribile!" esclamò il giovane.
"Sì, naturalmente è davvero tragico, ma tu non devi venire coinvolto. Ho letto sullo Standard che aveva diciassette anni. Avrei detto che fosse più giovane: aveva un'aria così da bambina, e pareva così poco esperta di teatro. Dorian, non devi permettere che questa faccenda ti demoralizzi. Devi venire a cena con me e dopo andremo all'Opera. C'è la Patti e ci saranno tutti. Puoi venire nel palco di mia sorella. Ci sono delle donne molto brillanti con lei."
"E così ho assassinato Sibyl Vane," disse Dorian Gray quasi parlando tra sé, "... l'ho assassinata indiscutibilmente, proprio come se avessi tagliato la sua piccola gola con un coltello. E tuttavia per questo le rose non sono meno belle, gli uccelli continuano a cantare allegramente nel mio giardino. E questa sera pranzerò con te, poi andremo all'Opera e poi, suppongo che ceneremo da qualche parte. Che incredibile tragedia è la vita! Se avessi letto tutto questo in un libro, Harry, credo che ne avrei pianto. E, non so come, adesso che è davvero successo, e proprio a me, mi sembra troppo straordinario per piangerne. Qui c'è la prima lettera d'amore appassionata che ho scritto in vita mia. Strano, che la mia prima lettera d'amore sia indirizzata a una ragazza morta. Chissà se hanno ancora delle sensazioni quei bianchi esseri silenziosi che noi chiamiamo morti? Sibyl! Può sentire, sapere, ascoltare? Oh, Harry, come l'amavo un tempo. Mi sembra che siano passati anni interi. Era tutto per me. Poi venne quell'orribile notte - davvero è stata appena la notte scorsa? - quando recitò così male e quasi mi si spezzò il cuore. Mi spiegò tutto: era straziante, ma non ne fui minimamente commosso. La credevo superficiale. Improvvisamente accadde qualche cosa che mi spaventò moltissimo. Non posso dirti di che cosa si tratta, ma è una cosa terribile. Decisi che sarei ritornato da lei. Sentivo di aver avuto torto. E ora è morta! Mio Dio, mio Dio! Harry, che cosa devo fare? Tu non sai quanto io sia in pericolo e non c'è nulla che mi possa sorreggere. Lei avrebbe potuto farlo. Non aveva nessun diritto di uccidersi. È stata un'egoista."
"Mio caro Dorian," rispose Lord Henry, prendendo una sigaretta dall'astuccio e levandosi di tasca una scatola di fiammiferi ricoperta d'oro, "l'unica influenza che una donna può esercitare su un uomo è quella di annoiarlo a un punto tale da fargli perdere ogni interesse alla vita. Se tu avessi sposato quella ragazza ti saresti rovinato. Naturalmente saresti stato gentile con lei: si può sempre essere gentili con chi non ci interessa affatto. Ma lei si sarebbe accorta subito di esserti del tutto indifferente e, quando una donna scopre questo atteggiamento nel marito, diventa terribilmente sciatta, oppure comincia a portare dei cappellini elegantissimi che le dovrà pagare il marito di un'altra. Tralascio di parlare dell'errore dal punto di vista della differenza sociale, un errore disastroso e che io naturalmente avrei impedito, ma ti assicuro che, comunque, la faccenda si sarebbe rivelata un fallimento completo."
"Suppongo di sì," mormorò il giovane, muovendosi avanti e indietro per la stanza, pallidissimo. "Ma pensavo che sarebbe stato mio dovere. Non è colpa mia se questa terribile tragedia mi ha impedito di fare quel che era giusto. Ricordo che una volta hai detto che c'è una fatalità nei buoni propositi: vengono sempre presi troppo tardi. A me è successo proprio questo."
"I buoni propositi sono inutili tentativi di interferire nelle leggi scientifiche. Nascono dalla pura vanità e il loro risultato è un nulla assoluto. Ogni tanto ci regalano una di quelle emozioni voluttuose e sterili che hanno un certo fascino per i deboli: è tutto quello che se ne può dire. Sono semplicemente assegni che gli uomini emettono su una banca dove non hanno un conto corrente."
"Harry," esclamò Dorian Gray, avvicinandosi e sedendosi accanto a lui, "perché non posso sentire questa tragedia come vorrei? Non penso di essere senza cuore. Tu credi che lo sia?"
"Hai fatto troppe sciocchezze in queste ultime due settimane per avere il diritto di ritenerti tale, Dorian," rispose Lord Henry, con il suo dolce, malinconico sorriso.
Il giovane aggrottò le sopracciglia. "Non mi piace questa spiegazione, Harry," replicò, "ma sono contento che tu non mi creda senza cuore. Non lo sono affatto, so di non esserlo. E tuttavia devo ammettere che questo avvenimento non mi ha colpito come avrebbe dovuto. Mi sembra soltanto la conclusione meravigliosa di una meravigliosa commedia. Ha in sé tutta la terribile bellezza di una tragedia greca, una tragedia nella quale ho avuto una parte importante, ma dalla quale sono uscito senza ferite."
"È una questione interessante," disse Lord Henry, che provava uno squisito piacere nel far vibrare l'inconsapevole egocentrismo del giovane, "una questione estremamente interessante. E immagino che la vera spiegazione sia questa. Spesso le tragedie della vita si verificano in una forma così priva di senso estetico che ci colpiscono con la loro assurda mancanza di significato, la totale mancanza di gusto. Ci colpiscono proprio come ci colpisce la volgarità. Ci danno un'impressione di pura forza bruta e contro questo ci rivoltiamo. A volte, tuttavia, una tragedia che possiede elementi di bellezza artistica attraversa la nostra vita. Se questi elementi di bellezza sono reali, l'insieme agisce semplicemente sulla nostra sensibilità all'effetto drammatico. Ci rendiamo conto improvvisamente di non essere più gli attori, ma gli spettatori della rappresentazione. O meglio, siamo l'una e l'altra cosa. Ci osserviamo e siamo avvinti dalla pura meraviglia dello spettacolo. In questo caso, che cosa è successo, in realtà? Qualcuno si è ucciso per amor tuo. Vorrei aver vissuto un'esperienza simile: mi avrebbe fatto amare l'amore per il resto della vita. Le persone che mi hanno adorato - non molte, ma qualcuna c'è stata - si sono sempre ostinate a vivere quando da molto tempo avevo cessato di interessarmi di loro, o loro di me. Sono diventate grasse e noiose e, quando le incontro, immediatamente tirano fuori i ricordi. Quell'incredibile memoria che hanno le donne! Che cosa spaventosa! Quale enorme ristagno intellettuale rivela! Si dovrebbero assorbire i colori della vita, mai ricordarne i particolari. I particolari sono sempre volgari."
"Devo seminare dei papaveri nel mio giardino," sospirò Dorian.
"Non ce né bisogno," replicò l'amico. "La vita ha sempre i papaveri nelle sue mani. Di tanto in tanto, naturalmente, le cose vanno per le lunghe. Una volta, per tutta la stagione non feci che portare violette come lutto artistico per una storia romantica che non voleva morire. Comunque morì, alla fine. Ho dimenticato che cosa la uccise. Probabilmente le decisione di lei di sacrificarmi il mondo intero. Questo è sempre un momento pauroso: ci colma del terrore dell'eternità. Bene - lo crederesti? - una settimana fa, a casa di Lady Hampshire, mi sono trovato a tavola accanto alla signora in questione e lei ha preteso di ritornare sulla faccenda, di rivangare il passato, di frugare nel futuro. Io avevo sepolto il mio romanzo in un letto di asfodeli, lei lo esumò e mi assicurò che le avevo rovinato la vita. Devo dire che mangiò a quattro palmenti e quindi non mi sentii angosciato. Ma che mancanza di gusto! L'unico fascino del passato è che è passato. Ma le donne non sanno mai quando è calata la tela. Vogliono sempre un sesto atto e, appena l'interesse per la rappresentazione è completamente esaurito, intendono continuare. Se potessero fare come vogliono, ogni commedia finirebbe tragicamente e ogni tragedia culminerebbe in una farsa. Sono artificiosamente affascinanti, ma non hanno senso artistico. Tu sei più fortunato di me. Dorian, ti assicuro che nessuna delle donne che ho conosciuto avrebbe fatto per me quello che ha fatto per te Sibyl Vane. Le donne mediocri si consolano sempre. Alcune lo fanno appassionandosi ai colori sentimentali. Non fidarti mai di una donna che veste in mauve, quale che sia la sua età, né di una donna che passati i trentacinque abbia la passione dei nastri rosa. Significa sempre che c'è dietro una storia. Altre si consolano moltissimo scoprendo improvvisamente le buone qualità del proprio marito. Ti ostentano la loro felicità coniugale come se fosse il più seducente dei peccati. Alcune si consolano con la religione. Una volta una donna mi disse che i misteri religiosi hanno tutto il fascino dei flirt, cosa che posso capire alla perfezione. Inoltre, nulla rende così vanitosi come sentirsi dare del peccatore. La coscienza ci rende tutti malati di egotismo. Sì, le consolazioni che una donna può trovare nella vita moderna sono infinite. In realtà, però, non ti ho ancora parlato della più importante."
"Qual è, Harry?" domandò il giovane stancamente.
"Oh, la più ovvia. Rubare l'ammiratore a un'altra quando si è perso il proprio. Nella buona società questo rimette sempre a nuovo una donna. Ma davvero, Dorian, quanto doveva essere diversa Sibyl Vane da tutte le donne che si incontrano! Secondo me c'è qualche cosa di perfetto nella sua morte. Sono lieto di vivere in un secolo in cui avvengono simili prodigi. Ci fanno credere alla realtà delle cose che tutti noi trattiamo con leggerezza, come il senso del romantico, la passione e l'amore."
"Dimentichi che sono stato tremendamente crudele con lei."
"Temo che le donne apprezzino la crudeltà, la crudeltà brutale, più di ogni altra cosa. Hanno istinti meravigliosamente primitivi. Le abbiamo emancipate, ma loro rimangono egualmente delle schiave alla ricerca del padrone. Amano essere dominate. Sono certo che sarai stato splendido. Non ti ho mai visto veramente in collera, ma riesco a immaginare come dovevi essere bello. E, dopotutto, due giorni fa mi hai detto una cosa che allora mi era sembrata una pura fantasia ma di cui oggi vedo l'assoluta verità e che rappresenta la chiave di tutto."
"Di che cosa si trattava, Harry?"
"Mi hai detto che per te Sibyl Vane rappresentava tutte le eroine sentimentali: che una sera era Desdemona, un'altra sera Ofelia; che se moriva come Giulietta, tornava in vita come Imogene."
"Adesso non tornerà più in vita," mormorò il giovane nascondendo il viso tra le mani.
"No, non ritornerà più in vita. Ha recitato la sua ultima parte. Ma devi vedere quella morte solitaria nel misero camerino solo come un singolare fosco frammento di una tragedia del tempo di re Giacomo, come una meravigliosa scena di Webster, di Ford, o di Cyril Tourneur. Quella ragazza non è mai realmente vissuta e quindi non è mai realmente morta. Per te, almeno, è sempre stata un sogno, un fantasma che volteggiava nelle commedie di Shakespeare abbellendole con la sua presenza, uno strumento che rendeva più ricca e gioiosa la musica di Shakespeare. Nel momento in cui toccò la vita reale la rovinò, e questa a sua volta rovinò lei. Per questo è scomparsa. Piangi per Ofelia, se vuoi, cospargiti il capo di cenere perché Cordelia è stata strangolata, maledici il cielo perché la figlia di Brabantio è morta, ma non sprecare lacrime per Sibyl Vane: è meno reale di tutti questi personaggi."
Ci fu un silenzio. La sera addensava l'oscurità nella stanza. Silenziosamente, con piedi d'argento, le ombre entravano furtive dal giardino e i colori abbandonavano, stanchi, le cose.
Dopo qualche tempo Dorian Gray sollevò lo sguardo. "Mi hai rivelato a me stesso, Harry," mormorò con una sorta di respiro di sollievo. "Tutto quello che hai detto lo sentivo, ma in un certo qual modo ne avevo paura e non riuscivo a chiarirmelo. Come mi conosci bene! Ma non parleremo più di quello che è successo. È stata una meravigliosa esperienza. È tutto. Chissà se la vita ha ancora in serbo per me qualcosa di altrettanto meraviglioso."
"La vita ha tutto in serbo per te, Dorian. Non c'è nulla che tu, con la tua straordinaria bellezza, non possa fare."
"Ma supponi che diventi brutto, vecchio e rugoso. Che cosa succederebbe in questo caso?"
"Ah, in questo caso," disse Lord Henry alzandosi per andarsene, "... allora, mio caro Dorian, dovresti lottare per vincere. Adesso la vittoria ti viene incontro. No, devi conservare la tua bellezza. Viviamo in un'epoca che legge troppo per essere saggia e che pensa troppo per essere bella. Non possiamo risparmiarti. E adesso indossa un abito più adatto e fatti portare al club. Siamo piuttosto in ritardo."
"Penso che ti raggiungerò all'Opera, Harry. Mi sento troppo spossato per mangiare. Qual è il numero del palco di tua sorella?"
"Ventisette, mi pare. È nel primo ordine. Troverai il nome sulla porta. Mi dispiace che tu non venga a pranzo."
"Non me la sento," disse Dorian distrattamente. "Ma ti sono davvero riconoscente per tutto quello che mi hai detto. Sei senz'altro il mio migliore amico. Nessuno mi ha mai capito come te."
"La nostra amicizia è solo all'inizio, Dorian," rispose Lord Henry stringendogli la mano. "Arrivederci. Spero di vederti prima delle nove e mezzo. Ricorda: canta la Patti."
Mentre la porta si chiudeva dietro di lui, Dorian Gray suonò il campanello e pochi minuti dopo Victor apparve con le lampade e abbassò gli scuri. Attese, impaziente, che l'uomo se ne andasse: pareva indugiare interminabilmente su ogni cosa.
Appena uscito, si precipitò verso il paravento e lo scostò. No, non erano avvenuti altri cambiamenti. Aveva saputo la notizia della morte di Sibyl Vane prima di lui. Sapeva gli avvenimenti della sua vita nel momento in cui si verificavano. Quella viziosa espressione di crudeltà che deturpava la bella linea della sua bocca senza dubbio era apparsa nell'attimo in cui la ragazza aveva inghiottito il veleno. Oppure il quadro rimaneva indifferente alle conseguenze e si limitava a registrare ciò che passava nella sua anima? Si domandò se fosse possibile, sperandolo, di poter vedere un giorno avvenire il cambiamento proprio sotto i suoi occhi, e nello sperarlo rabbrividì.
Povera Sibyl! Che storia patetica! Aveva spesso imitato la morte sulla scena, poi la morte in persona l'aveva toccata e portata via con sé. Come aveva recitato quell'orribile ultima scena? Lo aveva maledetto mentre moriva? No; era morta per amor suo e d'ora in poi l'amore gli sarebbe stato sempre sacro. Sibyl, sacrificando la vita, aveva espiato tutto. Non avrebbe più pensato a quel che gli aveva fatto sopportare quell'orribile sera a teatro. Avrebbe pensato a lei solo come a una meravigliosa figura tragica, mandata sulla scena del mondo per mostrare la suprema realtà dell'amore. Una meravigliosa figura tragica? Ricordando il suo aspetto infantile, i suoi modi amabili e imprevedibili, la sua timida grazia tremante, gli salirono le lacrime agli occhi. Si asciugò bruscamente le lacrime e guardò di nuovo il quadro.
Sentì che il momento di fare la sua scelta era irrevocabilmente giunto. Oppure la scelta era già stata fatta? Sì, la vita aveva deciso per lui: la vita e la sua infinita curiosità per la vita. Eterna giovinezza, passioni infinite, piaceri sottili e segreti, gioie sfrenate e ancor più sfrenati peccati: tutte queste cose sarebbero state sue. Il ritratto avrebbe portato il peso della sua vergogna: nient'altro.
Fu sopraffatto da un senso di dolore al pensiero dell'infamia riservata al bel volto del ritratto. Una volta, in un'infantile canzonatura di Narciso, aveva baciato, o finto di baciare, quelle labbra dipinte che ora gli sorridevano con espressione così crudele. Per mattine e mattine era rimasto seduto di fronte al ritratto, stupito della sua bellezza. A volte gli sembrava di esserne innamorato. E ora il suo destino era quello di alterarsi a ogni stato d'animo cui si fosse abbandonato? Sarebbe divenuto una cosa mostruosa e ignobile da nascondere in una stanza chiusa a chiave, da tener lontana dalla luce del sole che tanto spesso aveva reso più luminosa l'ondulata meraviglia d'oro dei suoi capelli? Che peccato! Che peccato!
Per un momento ebbe l'idea di pregare che l'orribile affinità tra lui e il quadro avesse fine. Era mutato come risposta a una sua preghiera, forse poteva mantenersi intatto come risposta ad un'altra preghiera. E tuttavia chi, conoscendo qualche cosa della vita, avrebbe rinunciato alla possibilità di rimaner giovane, per quanto fantastica potesse essere, o per quanto fatali fossero le conseguenze? D'altra parte, aveva davvero la possibilità di farlo? Era stata proprio la sua preghiera a determinare quella situazione? Non poteva essere in gioco qualche strano fenomeno scientifico? Se il pensiero poteva esercitare un'influenza su un organismo vivente, non avrebbe potuto esercitarla anche sulla materia morta e inorganica? Inoltre, anche se prive di pensieri o desideri consapevoli, le cose che stanno al di fuori di noi, non potrebbero vibrare all'unisono con i nostri sentimenti e le nostre passioni, non potrebbe un atomo legarsi all'altro nel segreto amore di una strana affinità? Ma il motivo non aveva nessuna importanza. Non avrebbe mai più tentato con una preghiera nessuna terribile potenza. Se il quadro doveva alterarsi, che si alterasse. Ecco tutto. Perché indagare troppo minuziosamente ?
Sarebbe stato un vero piacere osservarlo. Avrebbe potuto seguire la sua mente nei suoi segreti nascondigli. Il ritratto sarebbe stato il più magico degli specchi. Come gli aveva rivelato il suo corpo, gli avrebbe rivelato la sua anima. E quando per il quadro fosse giunto l'inverno, lui sarebbe stato ancora là dove la primavera freme sulla soglia dell'estate. Quando il sangue avrebbe abbandonato il suo volto, lasciando dietro di sé una pallida maschera di gesso dagli occhi offuscati, lui avrebbe conservato il fascino della giovinezza. Non un solo bocciolo della sua bellezza sarebbe mai appassito, non un impulso della sua vita sarebbe mai mancato. Come gli dei della Grecia, sarebbe stato forte, agile, pieno di vita. Che cosa importava quello che sarebbe successo all'immagine sulla tela? Lui sarebbe stato al sicuro. Questo solo contava.
Riportò il paravento davanti al quadro e, nel farlo, sorrise. Quindi si trasferì in camera da letto, dove il cameriere lo attendeva. Un'ora dopo era all'Opera e Lord Henry si chinava sulla sua poltrona.
IX
Il mattino dopo, mentre sedeva a colazione, entrò Basil Hallward.
"Sono contento di averti trovato, Dorian," disse con voce grave. "Ti ho cercato ieri sera e mi hanno detto che eri all'Opera. Naturalmente sapevo che era impossibile, ma avrei desiderato che avessi lasciato detto dove eri andato. Ho passato una serata tremenda; avevo quasi paura che a una tragedia ne seguisse un'altra. Avresti potuto telegrafarmi appena hai saputo la notizia. L'ho letta per caso nell'ultima edizione del Globe che ho trovato al club. Sono venuto qui immediatamente, mi sono sentito molto depresso non avendoti trovato. Non so dirti quanto sia addolorato: so quel che devi soffrire. Ma dov'eri? Sei andato a trovare la madre della ragazza? Per un momento ho pensato di raggiungerti là. Sul giornale c'era l'indirizzo: Euston Road, vero? Ma temevo di turbare un dolore che non ero in grado di alleviare. Povera donna! In che stato deve trovarsi! La sua unica figlia, oltretutto! Che cosa diceva?"
"Mio caro Basil, come faccio a saperlo?" mormorò Dorian Gray, sorseggiando con aria estremamente annoiata un vino chiarissimo da un delicato calice di vetro veneziano ornato di perline d'oro. "Ero all'opera. Avresti dovuto venirci anche tu. Ho conosciuto Lady Gwendolin, la sorella di Lord Henry. Eravamo nel suo palco. È una donna davvero affascinante e poi la Patti canta divinamente. Non parlare di queste cose spiacevoli. Se non si parla di una cosa, è come se non fosse mai avvenuta. Come dice Harry, è solo il parlarne che dà realtà alle cose. Devo precisare che non era figlia unica: c'è un maschio, un simpatico ragazzo, credo. Ma non lavora in teatro: fa il marinaio o qualcosa del genere. E ora parlami di te e di quello che stai dipingendo."
"Sei andato all'Opera?" disse Hallward, scandendo le parole e con una espressione di sofferenza trattenuta nella voce. "Sei andato all'Opera mentre Sibyl Vane giaceva priva di vita in una sordida camera d'affitto? Puoi parlarmi del, fascino di altre donne, della Patti che canta divinamente, prima ancora che la ragazza che amavi riposi in una tomba? Insomma, amico, cose orribili attendono quel suo corpicino bianco."
"Basta, Basil! Non voglio sentire queste cose!" esclamò Dorian alzandosi di scatto. "Non me ne parlare. Quel che è stato è stato. Il passato è passato."
"E, per te, ieri è il passato?"
"Che importanza ha l'effettivo trascorrere del tempo? Solo le persone superficiali impiegano anni per liberarsi da un'emozione. Chi sia padrone di sé può porre temine a una sofferenza con la stessa facilità con cui inventa un piacere. Non voglio essere in balia delle mie emozioni. Voglio servirmene, goderle e dominarle."
"È terribile, Dorian! Qualche cosa ti ha completamente trasformato! A vederti sei sempre il meraviglioso ragazzo che, ogni giorno, era solito venire nel mio studio a posare. Ma allora eri semplice, naturale, affettuoso, eri la creatura più innocente del mondo. Ora, non so che cosa ti è successo: parli come se non avessi né cuore né pietà. È l'influenza di Harry, lo vedo."
Il giovane arrossì e, avvicinandosi alla finestra, guardò per qualche istante il giardino verde che tremolava sotto l'intensa luce solare. "Basil, ad Harry io devo molto," disse alla fine, "più di quanto devo a te. Tu mi hai insegnato soltanto ad essere vanitoso."
"Bene, ne sono punito, Dorian... o lo sarò un giorno."
"Non capisco che cosa vuoi dire, Basil," esclamò Dorian voltandosi. "Non capisco che cosa vuoi dire. Che cosa vuoi?"
"Voglio il Dorian che ero solito dipingere," disse tristemente il pittore.
"Basil," disse il giovane, avvicinandosi a lui e posandogli una mano sulla spalla, "sei arrivato troppo tardi. Ieri, quando ho saputo che Sibyl Vane si era uccisa..."
"Si era uccisa! Santo cielo! Non ci sono dubbi?" gridò Hallward, fissandolo con un'espressione d'orrore.
"Mio caro Basil! Non penserai che si tratti di un volgare incidente? Naturalmente si è suicidata."
Basil Hallward si nascose il volto tra le mani. "È terribile," mormorò scosso da un brivido.
"No," disse Dorian Gray, "non c'è nulla di terribile in questo. È una delle grandi tragedie romantiche di questa epoca. Di regola, gli attori conducono una vita estremamente mediocre. Sono bravi mariti o mogli fedeli, o qualche cosa altrettanto noiosa. Sai quello che voglio dire: valori borghesi e tutto il resto. Quanto era diversa Sibyl! Ha vissuto la più bella delle sue tragedie. Era sempre un'eroina. L'ultima sera che recitò, quella in cui l'hai vista, recitò male perché aveva conosciuto la realtà dell'amore. Quando ne conobbe l'irrealtà, morì, come avrebbe dovuto morire Giulietta. Ritornò nella sfera dell'arte. Vi è qualche cosa della martire in lei: la sua morte ha tutta la patetica inutilità del martirio, tutta la sua bellezza sprecata. Ma, come ti stavo dicendo, non devi pensare che non abbia sofferto. Se tu fossi venuto ieri, in un certo momento, verso le cinque e mezzo, o le sei meno un quarto, mi avresti trovato in lacrime. Anche Harry, che era qui e che mi aveva portato la notizia, in realtà, non ha sospettato quel che stavo passando. Ho sofferto immensamente. Poi tutto è finito. Non posso ritornare a vivere un'emozione. Nessuno può, salvo gli individui sentimentali. E tu sei orribilmente ingiusto, Basil. Vieni qui per consolarmi. Questo è molto gentile da parte tua. Però mi trovi consolato e ti arrabbi. Proprio come le persone pietose! Mi ricordi una storia che mi ha raccontato Harry di un certo filantropo che aveva passato vent'anni della sua vita cercando di raddrizzare un torto, o di far modificare qualche legge ingiusta... ho dimenticato di cosa si trattasse precisamente. Alla fine riuscì nel suo intento e ci rimase malissimo: non aveva assolutamente più nulla da fare e quasi morì di ennui trasformandosi poi in un misantropo convinto. E a parte questo, mio caro vecchio Basil, se davvero vuoi consolarmi, insegnami piuttosto a dimenticare quel che è successo o a vederlo sotto la giusta angolatura artistica. Non è stato Gauthier a scrivere qualche cosa sulla consolation des arts? Ricordo di aver preso in mano un giorno nel tuo studio un libretto rilegato in pergamena e di aver trovato per caso questa bellissima frase. Bene, non sono come quel giovane di cui mi hai parlato quando eravamo insieme da Marlow, quello che era solito dire che la seta gialla poteva consolare di tutte le miserie della vita. Amo le belle cose che si possono toccare e tenere in mano: i vecchi broccati, i bronzi patinati, le lacche, gli avorii scolpiti, gli ambienti raffinati, il lusso, la pompa... tutte queste cose possono dare molto. Ma per me è ancor più importante il temperamento artistico che esse creano o che comunque rivelano. Come dice Harry, divenire lo spettatore della propria vita, significa sfuggire i fatti dell'esistenza che ci fanno soffrire. So che ti stupisce sentirmi parlare così. Non ti sei reso conto di quanto mi sono sviluppato. Quando mi hai conosciuto ero ancora uno scolaretto, ora sono un uomo. Ho nuove passioni, nuovi pensieri, nuove idee. Sono diverso, ma non devi volermi meno bene, sono cambiato, ma devi essere, sempre mio amico. Naturalmente sono molto affezionato a Harry, ma so che tu sei migliore di lui. Tu non sei più forte - temi troppo la vita - ma sei migliore. E quanto siamo stati felici insieme! Non abbandonarmi, Basil, e non litigare con me. Sono quello che sono. Non c'è altro da dire."
Il pittore si sentiva stranamente commosso. Quel giovane gli era infinitamente caro e la sua personalità aveva segnato la grande svolta nella sua arte. Non sopportava l'idea di rimproverarlo ancora. Dopotutto, la sua indifferenza era semplicemente uno stato d'animo passeggero. C'erano tante buone cose in lui, tante cose nobili.
"D'accordo, Dorian," disse alla fine con un triste sorriso, "non ti parlerò più di questa orribile faccenda. Spero solo che non si faccia il tuo nome. Oggi pomeriggio ci sarà l'inchiesta. Sei stato chiamato a testimoniare?"
Dorian Gray scosse il capo e nel sentire la parola "inchiesta" un'ombra di noia gli passò in viso. C'era qualche cosa di rozzo e volgare in tutte le cose di questo tipo.
"Non sanno il mio nome," rispose.
"Ma lei lo sapeva di certo."
"Solo il nome di battesimo e sono assolutamente sicuro che non lo ha detto a nessuno. Mi ha detto una volta che erano tutti piuttosto curiosi di sapere chi fossi e che lei diceva loro invariabilmente che mi chiamavo Principe Azzurro. È stato molto gentile da parte sua. Basil, devi farmi uno schizzo di Sibyl, vorrei avere di lei qualche cosa di più del ricordo di pochi baci e di alcune parole rotte e patetiche."
"Cercherò di fare qualche cosa, Dorian, se ti fa piacere. Ma devi ritornare a posare per me. Senza di te non posso continuare."
"Non posso più posare per te, Basil. È impossibile!" esclamò Dorian, arretrando di un passo. Il pittore lo guardò stupito. "Mio caro ragazzo, che assurdità!" esclamò. "Vuoi dire che il ritratto non ti piace? Dov'è? Perché lo hai coperto con un paravento? Lasciamelo vedere. È la miglior cosa che io abbia mai fatto. Togli quel paravento, Dorian: è semplicemente vergognoso che il tuo cameriere nasconda così la mia opera. Mi è sembrato che la stanza fosse diversa quando sono entrato."
"Il mio cameriere non c'entra, Basil. Non penserai che gli lasci disporre la stanza al mio posto? Qualche volta sistema i fiori e basta. No, sono stato io. Lo colpiva una luce troppo forte."
"Troppo forte? Ma nient'affatto, mio caro. È in una posizione magnifica. Fammelo vedere." E Hallward si diresse verso l'angolo della stanza.
Un grido di terrore uscì dalle labbra di Dorian Gray, e il giovane si precipitò tra il pittore e il paravento. "Basil," disse, pallidissimo in volto, "non devi vederlo. Non voglio che tu lo veda."
"Non guardare il mio quadro! Non parli sul serio. Perché non dovrei guardarlo?" esclamò Hallward ridendo.
"Se cerchi di vederlo, Basil, parola mia, non ti rivolgerò più la parola per tutta la vita. Parlo seriamente. Non ti do spiegazioni, e non me ne devi chiedere. Ma ricorda, se tocchi questo paravento, fra noi tutto è finito."
Hallward era come fulminato. Guardò Dorian Gray assolutamente sbigottito. Non l'aveva mai visto così: il giovane era pallido di collera, teneva stretti i pugni e le pupille erano simili a dischi di fiamma azzurra. Tremava tutto.
"Dorian!"
"Non parlare!"
"Ma che cosa è successo? Naturalmente non lo guarderò, se non vuoi," disse piuttosto freddamente il pittore, voltandosi e ritornando verso la finestra. "Però, davvero, mi pare piuttosto assurdo che io non possa vedere la mia opera, tanto più che intendo esporla a Parigi quest'autunno. Probabilmente prima dovrò darle un'altra mano di vernice e quindi un giorno o l'altro dovrò vederla. Perché non oggi?"
"Esporla? Vuoi esporla?" esclamò Dorian Gray, colto da uno strano senso di terrore. Tutti avrebbero saputo il suo segreto? Il pubblico avrebbe guardato a bocca aperta il mistero della sua vita? Impossibile. Bisognava fare qualche cosa - non sapeva che cosa - immediatamente.
"Sì, penso che non avrai nulla in contrario. George Petit sta raccogliendo i miei quadri migliori per una mostra speciale in rue de Sèze che si aprirà la prima settimana di ottobre. Il ritratto starà via soltanto un mese. Penso che per un periodo così breve te ne potrai separare facilmente. In realtà, sarai certamente fuori città e, se lo tieni sempre dietro un paravento, non deve importartene molto."
Dorian Gray si passò una mano sulla fronte. Era bagnata di sudore. Sentiva di essere sull'orlo di un tremendo pericolo. "Un mese fa mi hai detto che non l'avresti mai esposto," esclamò. "Come mai hai cambiato idea? Voi che fate di tutto per essere coerenti, cambiate idea proprio come gli altri. L'unica differenza è che i vostri cambiamenti di umore sono privi di significato. Non puoi aver dimenticato che mi hai assicurato con la massima solennità che nulla al mondo ti avrebbe indotto ad esporto. Hai detto la stessa cosa ad Harry." Si fermò improvvisamente; un lampo gli apparve negli occhi. Ricordò che una volta Lord Henry gli aveva detto un po' per scherzo e un po' sul serio: "Se vuoi passare uno strano quarto d'ora, fatti dire da Basil perché non vuole esporre il tuo quadro. A me lo ha detto ed è stata una rivelazione." Sì, forse anche Basil aveva il suo segreto. Avrebbe provato a chiederglielo.
"Basil," disse facendoglisi molto vicino e guardandolo diritto negli occhi, "ognuno di noi ha il suo segreto. Dimmi il tuo e ti dirò il mio. Perché non volevi esporre il mio ritratto?"
Il pittore rabbrividì involontariamente. "Dorian, se te lo dicessi, forse ti piacerei meno e rideresti certamente di me. Non potrei sopportare nessuna di queste due cose. Se vuoi che non veda più il tuo ritratto ne sono contento. Posso sempre guardare te. Se vuoi che la mia opera migliore rimanga sconosciuta, sono soddisfatto. La tua amicizia mi è più cara della fama e di qualunque riconoscimento."
"No, Basil, devi dirmelo," insistette Dorian Gray. "Credo di avere il diritto di saperlo." Il terrore era svanito, sostituito dalla curiosità. Era deciso a scoprire il segreto di Basil Hallward.
"Sediamoci, Dorian," disse il pittore turbato. "Sediamoci. E rispondi a questa domanda, almeno. Hai notato qualche cosa di strano nel quadro?... qualche cosa che in un primo momento probabilmente non ti aveva colpito, ma che ti si è rivelato improvvisamente?"
"Basil!" gridò il giovane stringendo con mani tremanti i braccioli della poltrona e fissandolo con occhi sbarrati.
"Vedo che lo hai notato. Non dire nulla. Aspetta di aver sentito quel che ho da dire. Dorian, dal momento in cui ti ho conosciuto, la tua personalità ha avuto su di me un'influenza straordinaria. Sono stato dominato da te, nell'anima, nella mente, in ogni mia forza. Per me tu eri divenuto l'incarnazione palese di quell'ideale invisibile il cui ricordo ossessiona noi artisti come un sogno squisito. Ti adorai, divenni geloso di chiunque ti parlasse. Volevo averti tutto per me. Ero felice solo quando ero insieme a te. Quando tu mi eri lontano, eri sempre presente nella mia arte. Naturalmente non ti ho mai fatto sapere nulla di tutto questo, sarebbe stato impossibile. Non avresti capito. Io stesso mi capivo appena. Sapevo solo che avevo visto la perfezione faccia a faccia, e che ai miei occhi il mondo era diventato meraviglioso, forse, perché in queste folli adorazioni c'è sempre un pericolo - quello di perderle - non minore di quello di conservarle... Passarono settimane e settimane ed ero sempre più assorbito da te. Poi si sviluppò una nuova fase. Ti avevo ritratto nella lucente armatura di Paride con il mantello da cacciatore e il lucido spiedo di Adone. Incoronato con i ricchi fiori di loto eri seduto sulla prora del vascello di Adriano e osservavi il torbido verde Nilo. Ti eri chinato sopra la calma polla di qualche bosco della Grecia e avevi contemplato nel silenzioso argento dell'acqua la meraviglia del tuo volto. E ogni cosa era come deve essere l'arte: inconscia, ideale, remota. Un giorno - un giorno fatale, penso, a volte - decisi di dipingere un meraviglioso ritratto di te come sei nella realtà: non nei costumi di età passate, ma nei tuoi abiti e nel tuo tempo. Non so dire se fosse la tecnica realistica, oppure solo lo splendore della tua personalità che si presentava direttamente dinanzi a me senza nebbie né veli, ma so che, mentre lavoravo, ogni pennellata, ogni strato di colore mi pareva rivelassero questo mio segreto. Ebbi paura che gli altri potessero vedere la mia idolatria. Sentivo, Dorian, di aver detto troppo, di aver messo nel quadro troppo di me stesso. Fu allora che decisi che non avrei mai esposto il quadro. Tu eri un po' seccato, ma allora non ti rendevi conto del significato che aveva per me. Ne parlai con Harry e lui rise. Ma non me ne importava. Quando il quadro fu terminato e io mi ci sedetti davanti da solo, capii che avevo ragione... Bene, dopo pochi giorni il quadro lasciò il mio studio e, appena mi liberai del fascino insopportabile della sua presenza, mi parve di essere stato sciocco nel vedervi qualche cosa di diverso dal fatto che tu sei bello e che io so dipingere bene. Anche ora non posso fare a meno di ritenere un errore il fatto che l'emozione provata creando si riveli davvero nell'opera creata. L'arte è sempre più astratta di quanto immaginiamo. La forma e il colore ci parlano di forma e colore e basta. Spesso mi pare che l'arte nasconda l'artista molto più di quanto non lo riveli. E così quando ho ricevuto questa offerta da Parigi decisi che il tuo quadro sarebbe stato il pezzo principale della mostra. Non mi venne mai in mente che avresti rifiutato. Ma ora vedo che hai ragione: non lo si può esporre. Non devi arrabbiarti con me, Dorian, per le cose che ti ho detto. Come ho detto una volta a Harry, tu sei fatto per essere adorato."
Dorian Gray respirò profondamente. Le guance ripresero colore e un sorriso gli giocò sulle labbra. Il pericolo era passato. Per il momento era salvo. E tuttavia non poteva fare a meno di provare una infinita pietà per il pittore che gli aveva fatto questa singolare confessione, domandandosi se, a sua volta, sarebbe mai stato dominato dalla personalità di un amico. Lord Henry aveva il fascino del pericolo, ma niente altro. Era troppo intelligente e troppo cinico per potersene innamorare. Ci sarebbe mai stato qualcuno capace di fargli provare questa strana idolatria? Era una delle cose che la vita aveva in serbo per lui?
"Mi sembra straordinario, Dorian," disse Hallward, "che tu abbia visto questo nel ritratto. L'hai davvero visto?"
"Vi ho visto qualche cosa," rispose, "una cosa che mi sembrava molto curiosa."
"Bene, non ti importa se ora gli do un'occhiata?"
Dorian scosse il capo. "Non me lo devi chiedere, Basil. Non posso lasciarti di fronte a quel quadro."
"Ma un giorno, certamente..."
"Mai."
"Bene, forse hai ragione. E adesso arrivederci, Dorian. Sei stato l'unica persona che abbia effettivamente influito sulla mia arte. Tutto quello che ho fatto di buono, lo devo a te. Ah! Non sai quanto mi è costato dirti quello che ti ho detto."
"Mio caro Basil," disse Dorian. "Che cosa mi hai detto? Semplicemente che sentivi di ammirarmi troppo. Non è nemmeno un complimento."
"Non voleva esserlo: era una confessione. E adesso che l'ho fatta, mi pare che qualche cosa sia uscito da me. Forse non si dovrebbe mai mettere in parole la propria adorazione."
"È stata una confessione molto deludente."
"E che cosa ti aspettavi, Dorian? Hai visto qualche altra cosa nel quadro? C'erano altre cose da vedere?"
"No, nient'altro. Perché me lo domandi? Ma non devi parlare di adorazione. È sciocco. Tu ed io siamo amici, Basil, e dobbiamo rimanerlo sempre."
"Hai trovato Harry," disse il pittore tristemente.
"Oh, Harry," esclamò il giovane con l'accenno di un sorriso. "Harry passa le giornate a dire cose incredibili e le serate a fare cose improbabili. Proprio il genere di vita che mi piacerebbe fare. Ma non credo che andrei da Harry se mi trovassi nei guai. Preferirei venire da te, Basil."
"Poserai ancora per me?"
"Impossibile!"
"Con questo rifiuto, rovini la mia vita di artista, Dorian. Nessuno incontra due ideali. Pochi ne incontrano uno."
"Non posso spiegarti, Basil, ma non devo posare per te. C'è qualche cosa di fatale in un ritratto.
Ha una vita propria. Verrò a casa tua a prendere il tè. Sarà altrettanto piacevole."
"Lo sarà di più per te, temo," mormorò Hallward in tono di rimpianto. "E adesso, arrivederci. Mi dispiace che tu non mi permetta di vedere una volta ancora il ritratto, ma non ci si può fare nulla. Capisco benissimo i tuoi sentimenti."
Mentre Basil lasciava la stanza, Dorian Gray sorrise tra sé. Povero Basil! Quanto poco sapeva del vero motivo! E com'era strano che, invece di essere costretto a rivelare il proprio segreto, fosse riuscito, quasi per caso, a cogliere il segreto dell'amico! Quante cose spiegavano quella strana confessione! Gli assurdi accessi di gelosia del pittore, la sua devozione sfrenata, gli stravaganti panegirici, le sue curiose reticenze... adesso capiva tutto e gliene dispiaceva. Gli pareva che ci fosse un elemento tragico in un'amicizia così tinta di sentimentalismo.
Sospirò e suonò il campanello. Bisognava nascondere il ritratto a qualunque costo. Non poteva correre nuovamente il rischio che venisse scoperto. Era stata una pazzia lasciare che rimanesse anche un'ora sola in una stanza in cui tutti i suoi amici potevano entrare.
X
Quando il cameriere entrò, lo osservò attentamente domandandosi se avesse mai pensato di dare un'occhiata dietro il paravento. L'uomo attendeva i suoi ordini assolutamente impassibile. Dorian accese una sigaretta, si avvicinò allo specchio e guardò. Vedeva alla perfezione il riflesso del viso di Victor: era una placida maschera di servilismo. Nulla da temere da quella parte. Comunque era meglio stare in guardia.
Parlando molto lentamente gli disse di riferire alla governante che voleva vederla e di andare poi dal corniciaio per chiedergli di mandare subito due uomini. Gli sembrò che il cameriere allontanandosi muovesse lo sguardo in direzione del paravento. Ma forse era solo la sua immaginazione.
Poco dopo entrò affannosamente nella biblioteca la signora Leaf, con il suo vestito di seta nero e i vecchi mezzi guanti di filo sulle mani rugose. Le chiese di dargli la chiave dello studio.
"Il vecchio studio, signor Dorian?" esclamò. "Ma è pieno di polvere. Devo farlo pulire e mettere a posto prima che lei entri. Non è assolutamente presentabile, signore. Proprio no."
"Non voglio che venga pulito, signora Leaf. Voglio solo la chiave."
"Bene, signore, si coprirà tutto di ragnatele quando entrerà. È chiuso da quasi cinque anni, da quando è morto sua signoria."
Dorian Gray trasalì sentendo accennare al nonno: ne aveva un ricordo odioso. "Non importa," rispose. "Voglio semplicemente dare un'occhiata al locale, nient'altro. Mi dia la chiave."
"Eccola, signore," disse la vecchia donna cercando nel mazzo con mani incerte e tremanti. "Ecco la chiave. La tolgo subito dal mazzo, ma non penserà di vivere lassù, signore? Sta così bene qui."
"No, no," esclamò lui irritato. "Grazie signora Leaf. Basta così."
La donna indugiò ancora un poco diffondendosi su alcuni particolari dell'andamento di casa. Dorian sospirò e le disse di fare come meglio credeva. La donna lasciò la stanza tutta sorrisi.
Appena la porta si chiuse, Dorian infilò la chiave in tasca e si guardò in giro. Lo sguardo gli cadde su un grande copriletto di seta color porpora, dai ricchi ricami in oro, uno splendido lavoro del tardo settecento veneziano che il nonno aveva trovato in un convento vicino a Bologna. Sì, l'avrebbe usato per coprire quell'orribile cosa. Forse era stato impiegato spesso come drappo funebre, adesso avrebbe nascosto qualche cosa che aveva una sua corruzione peggiore della corruzione della morte stessa: qualche cosa che avrebbe nutrito orrori e tuttavia non sarebbe mai morta. Quello che i vermi sono per i cadaveri, lo sarebbero stati i suoi peccati per l'immagine dipinta sulla tela. Avrebbero sfigurato la sua bellezza, rosicchiato la sua grazia. L'avrebbero contaminata e resa disgustosa. E tuttavia la cosa avrebbe continuato a vivere. Sarebbe sempre stata viva.
Rabbrividì e per un attimo rimpianse di non aver rivelato a Basil il vero motivo per cui desiderava nascondere il ritratto. Basil lo avrebbe aiutato a resistere all'influenza di Lord Henry, e a quella ancor più dannosa che gli veniva dal suo stesso carattere. L'amore che gli portava - poiché proprio di amore si trattava - non aveva in sé nulla di men che nobile e intellettuale. Non era quella semplice ammirazione fisica per la bellezza che nasce dai sensi e muore quando i sensi sono esauriti. Era quell'amore che avevano conosciuto Michelangelo, Montaigne, Winckelmann e lo stesso Shakespeare. Sì, Basil avrebbe potuto salvarlo, ma ormai era troppo tardi. Era sempre possibile annientare il passato, bastavano il rimpianto, il rifiuto, l'oblìo, ma il futuro era inevitabile. C'erano in lui passioni che avrebbero trovato il loro terribile sfogo, sogni che avrebbero dato realtà all'ombra del loro peccato.
Tolse dal divano il grande tessuto oro e porpora che lo copriva e, reggendolo in mano, passò dietro il paravento. Il volto sulla tela era diventato ancora più ignobile? Gli pareva che non fosse cambiato e tuttavia provava un disgusto ancora più intenso. I capelli d'oro, gli occhi azzurri, le labbra vermiglie: c'erano ancora. Soltanto l'espressione era alterata, orribile nella sua crudeltà. Come erano stati superficiali i rimproveri di Basil per Sibyl Vane, di fronte alla censura e al biasimo che vedeva nel quadro! Quanto leggeri e irrilevanti! Dalla tela, la sua stessa anima lo fissava e lo chiamava a giudizio. Un'espressione di sofferenza gli passò in viso; gettò il manto sontuoso sul ritratto. Proprio in quell'attimo bussarono alla porta. Si allontanò dal quadro mentre il cameriere entrava.
"Sono arrivati gli uomini, signore."
Sentì che doveva sbarazzarsi subito di quell'uomo. Non doveva sapere dove sarebbe stato portato il ritratto. C'era qualche cosa di subdolo in lui e lo sguardo era attento e infido. Sedette alla scrivania e scarabocchiò un biglietto per Lord Henry, chiedendo di mandargli qualche cosa da leggere e ricordandogli che avevano appuntamento quella sera alle otto e un quarto.
"Aspetti la risposta," disse porgendogli il biglietto, "e faccia entrare gli uomini."
Due o tre minuti dopo bussarono nuovamente e il signor Hubbard in persona, il celebre camiciaio di South Adler Street, entrò accompagnato da un giovane aiutante dall'aspetto un po' rozzo. Il signor Hubbard era un ometto florido, dalle basette rossicce, la cui ammirazione per l'arte era considerevolmente raffreddata dall'inveterata insolvibilità di quasi tutti gli artisti con cui aveva a che fare. Di regola, non si allontanava mai dal negozio. Aspettava che la gente andasse da lui ma per Dorian Gray faceva sempre un'eccezione. C'era in Dorian qualche cosa che affascinava chiunque. Era un piacere il solo fatto di vederlo.
"Che cosa posso fare per lei, signor Gray?" domandò strofinandosi le mani grassocce e coperte di lentiggini. "Ho voluto aver l'onore di venire personalmente. Mi è appena capitata tra le mani una cornice che è una bellezza, signore. L'ho trovata a un'asta. Stile fiorentino antico. Viene da Fonthill, penso. È l'ideale per un soggetto religioso, signor Gray."
"Mi dispiace che lei si sia disturbato a venire, signor Hubbard. Farò certamente un salto per dare un'occhiata alla cornice, anche se in questo momento l'arte religiosa non mi interessa molto, ma oggi volevo far portare un quadro all'ultimo piano. È piuttosto pesante e così ho pensato di chiederle un paio dei suoi uomini."
"Assolutamente nessun disturbo, signor Gray. Sono contentissimo di poterle fare un piacere. Qual è l'opera, signore?"
"Questa," disse Dorian, allontanando il paravento. "Potete trasportarlo così com'è, con la copertura e tutto. Non vorrei che si graffiasse salendo."
"Nessuna difficoltà, signore," disse il gioviale corniciaio, cominciando con l'aiuto dell'assistente a staccare il quadro dalle lunghe catene di ottone che lo reggevano. "E adesso dove lo dobbiamo portare, signore?"
"Le farò strada, signor Hubbard, se sarà così gentile da seguirmi. O forse è meglio che vada avanti lei. Mi dispiace che sia proprio all'ultimo piano. Saliremo per la scala principale che è più larga."
Tenne aperta la porta per farli passare in anticamera, poi cominciarono a salire. La ricchezza della cornice appesantiva moltissimo il quadro e ogni tanto, nonostante le ossequiose proteste del signor Hubbard che, con la mentalità del vero mercante, non sopportava assolutamente di vedere un gentiluomo fare qualche cosa di utile, Dorian dava una mano per aiutarli.
"Un bel carico da portare, signore," ansimò l'ometto, asciugandosi la fronte lucida di sudore, quando raggiunsero l'ultimo pianerottolo.
"Temo proprio che sia piuttosto pesante," mormorò Dorian aprendo la stanza che avrebbe custodito il singolare segreto della sua vita e che avrebbe nascosto la sua anima agli occhi degli uomini.
Non vi entrava da più di quattro anni, dal tempo in cui, bambino, la usava come stanza da giuochi e poi, più grandicello, da studio. Era un locale vasto, di belle proporzioni. Il defunto Lord Kelso lo aveva costruito appositamente per il nipote che, per la strana rassomiglianza con la madre e per altri motivi, aveva sempre odiato e cercato di tenere lontano, A Dorian sembrò poco cambiata. C'era l'enorme cassone italiano con i pannelli fantasticamente dipinti e le modanature d'oro annerito nel quale si era nascosto tante volte, da piccolo. C'era lo scaffale di legno lucido con i libri di scuola gualciti. Sulla parete, dietro, era appeso il lacero arazzo fiammingo dove un re e una regina sbiaditi giocavano a scacchi in un giardino mentre lì vicino una brigata di falconieri cavalcava reggendo sul polso guantato alcuni uccelli incappucciati. Come ricordava ogni particolare! Mentre si guardava in giro, gli ritornava in mente ogni momento della sua infanzia solitaria. Ricordò la purezza senza macchia della sua fanciullezza e gli parve orribile che proprio qui dovesse essere nascosto quel fatale ritratto. Quanto poco aveva pensato, in quei giorni ormai passati, a tutto ciò che lo attendeva!
Ma nella casa nessun posto era altrettanto sicuro da sguardi indiscreti. La chiave era nelle sue mani e nessun altro poteva entrare. Sotto il manto purpureo il volto dipinto sulla tela poteva diventare bestiale, disfatto, sozzo: che importanza aveva? Nessuno l'avrebbe potuto vedere. Neppure lui. Perché vedere la disgustosa corruzione della sua anima? Avrebbe conservato la giovinezza: questo bastava. E dopotutto non avrebbe potuto diventare migliore? Non c'era nessun motivo per cui il futuro dovesse essere così vergognoso. Avrebbe potuto incontrare un amore che lo avrebbe purificato e protetto da quei peccati che già sembrava gli si agitassero nello spirito e nella carne: quegli strani peccati privi di forma che proprio dal loro mistero traevano il loro fascino e la loro elusività. Forse, un giorno, l'espressione crudele sarebbe scomparsa da quelle labbra sensuali e scarlatte e lui avrebbe potuto mostrare al mondo il capolavoro di Basil Hallward.
No, era impossibile. Un'ora dopo l'altra, una settimana dopo l'altra, la cosa sulla tela sarebbe invecchiata. Poteva sfuggire l'orrore del peccato, ma l'avrebbe attesa l'orrore della vecchiaia. Le guance sarebbero divenute incavate o cascanti, gialle zampe di gallina si sarebbero allargate intorno agli occhi scoloriti rendendoli disgustosi. I capelli avrebbero perso la lucentezza, la bocca sarebbe divenuta larga e cadente, sciocca e volgare, come sono le bocche dei vecchi. Avrebbe avuto il collo grinzoso, le mani fredde con l'azzurro delle vene in rilievo, come le ricordava in quel nonno così severo durante la sua infanzia. Non c'era scampo, bisognava nascondere il quadro.
"Lo porti dentro, per favore, signor Hubbard," disse stancamente voltandosi. "Mi dispiace - di averla fatta aspettare tanto tempo. Stavo pensando ad altro."
"Un po' di riposo fa sempre piacere, signor Gray," rispose il corniciaio che ansimava ancora. "Dove dobbiamo metterlo, signore?"
"Oh, in un posto qualsiasi. Qui andrà bene. Non lo voglio appeso. Basta che lo appoggi al muro. Grazie."
"È possibile dare un'occhiata all'opera, signore?"
Dorian sobbalzò. "Non le interesserebbe, signor Hubbard," disse, tenendogli gli occhi addosso. Si sentiva pronto ad assalirlo e a gettarlo a terra se avesse osato sollevare il prezioso drappo che nascondeva il segreto della sua vita. "Non la disturberò oltre. Le sono molto grato, è stato molto gentile a venire."
"Non è nulla, non è nulla, signor Gray. Sempre ai suoi ordini, signore." E il signor Hubbard scese pesantemente giù per le scale, seguito dall'aiutante che si voltò a guardare Dorian con un'espressione di timida meraviglia sul volto rozzo e brutto. Non aveva mai visto un uomo così meraviglioso.
Quando il rumore dei loro passi si spense, Dorian chiuse la porta e infilò la chiave in tasca. Adesso si sentiva sicuro, nessuno avrebbe visto quell'orribile cosa. Nessuno sguardo, eccetto il suo, avrebbe visto la sua vergogna.
Rientrando in biblioteca si accorse che erano appena passate le cinque e il tè era già stato preparato. Su un tavolino di legno scuro profumato, dai ricchi intarsi di madreperla - un regalo di Lady Radley moglie del suo tutore, una graziosa malata di professione che aveva trascorso al Cairo l'inverno precedente - era posato un biglietto di Lord Henry e, accanto, un libro rilegato in carta gialla con la copertina leggermente consumata e macchiata sul bordo. Sul vassoio del tè era posata una copia della terza edizione della St. James's Gazette. Evidentemente Victor era tornato. Si chiese se avesse incontrato gli uomini nel vestibolo mentre se ne andavano e fosse riuscito a carpire loro quello che avevano fatto. Si sarebbe accorto certamente della mancanza del quadro, anzi doveva già essersene accorto mentre preparava il tè. Il paravento non era stato rimesso a posto e sul muro si notava uno spazio vuoto. Forse lo avrebbe scoperto una notte nell'atto di scivolare di sopra per forzare la porta della stanza. Era una cosa terribile avere una spia nella propria casa. Aveva sentito di persone ricche ricattate per tutta la vita da un servo che aveva letto una lettera, oppure ascoltato di nascosto una conversazione, raccolto l'indirizzo scritto su un biglietto da visita, trovato un fiore appassito o un brandello di pizzo gualcito sotto un cuscino.
Sospirò e, dopo essersi versato il tè, aprì il biglietto di Lord Henry. Gli diceva semplicemente che gli mandava il giornale della sera e un libro che avrebbe potuto interessarlo. Si sarebbe trovato al club alle otto meno un quarto. Aprì pigramente il giornale e lo scorse. Lo sguardo fu attratto da un segno a matita rossa in quinta pagina.
Indicava questo trafiletto:
INCHIESTA SULLA MORTE DI UN'ATTRICE. Questa mattina a Bell Tavern, in Oxton Road, il signor Danby, procuratore distrettuale, ha svolto un'inchiesta sulla morte di Sibyl Vane, una giovane attrice da poco assunta al Royal Theatre, Holborn. L'inchiesta si è conclusa con un verdetto di morte accidentale. Molta simpatia è stata dimostrata alla madre della defunta signorina, profondamente commossa durante la propria deposizione e durante quella del dottor Birrel che ha praticato la necroscopia della salma.
Si accigliò e, stracciato in due il giornale, attraversò la stanza e lo gettò via. Com'era sgradevole tutto ciò. E come questa sgradevolezza rendeva terribilmente vere le cose. Era leggermente irritato con Lord Henry che gli aveva fatto avere la notizia. Ed era stato davvero sciocco da parte sua segnarla a matita rossa. Victor avrebbe potuto leggerla. Sapeva anche troppo bene l'inglese per poterlo fare.
Forse l'aveva letta e aveva cominciato a sospettare qualche cosa. Ma che cosa importava? Che cosa aveva a che fare Dorian Gray con la morte di Sibyl Vane? Nulla da temere. Dorian Gray non l'aveva uccisa.
Lo sguardo gli cadde sul libro dalla copertina gialla che Lord Henry gli aveva fatto avere. Si domandò di che cosa si trattasse. Andò verso il piccolo scaffale ottagonale color perla, che gli era sempre sembrato il lavoro di una strana specie di api egiziane dedite a lavori in argento e, preso il volume, sprofondò in una poltrona e cominciò a sfogliarlo. Dopo pochi minuti era preso dalla lettura. Era il libro più strano che avesse mai letto.
Gli pareva che tutti i peccati del mondo, in abiti squisiti e al dolce suono del flauto, gli passassero davanti in muta processione. Cose che aveva appena debolmente sognato divennero reali. Cose che non aveva mai sognato gli si rivelarono a poco a poco.
Era un romanzo senza intreccio e con un solo personaggio, la pura analisi psicologica di un giovane parigino che aveva trascorso la vita cercando di realizzare nel diciannovesimo secolo tutte le passioni e le idee di ogni altro secolo fuorché del suo, e di riassumere in sé, per così dire, i vari stati d'animo che lo spirito del mondo aveva attraversato, amando per la loro artificiosità sia quelle rinunce prive di saggezza che gli uomini hanno scioccamente chiamato virtù, sia quelle naturali ribellioni cui i saggi tuttora danno il nome di peccato. Lo stile in cui era scritto era quel curioso stile prezioso, a un tempo vivido e oscuro, pieno di argot e di arcaismi, di espressioni tecniche e di elaborati giri di parole, proprio delle opere di alcuni dei migliori esponenti della scuola francese dei symbolites. Vi erano metafore mostruose come orchidee e dal colore altrettanto elusivo. La vita dei sensi veniva descritta nel linguaggio della filosofia mistica. A volte era difficile capire se si leggevano le estasi spirituali di un santo medioevale o le morbose confessioni di un moderno peccatore. Era un libro velenoso. Il greve odore dell'incenso pareva esalare dalle sue pagine e turbare la mente. Il ritmo puro delle frasi, la monotonia sottile della loro musica, così ricca di complicati ritornelli e di movimenti minuziosamente ripetuti, producevano nella mente del giovane, intento a leggerne un capitolo dopo l'altro, una specie di fantasticheria, una sognante malattia, che gli impedì di accorgersi che il giorno era alla fine e che cominciavano a salire le ombre.
Senza nubi, trafitto da un'unica stella solitaria, un cielo verderame luceva oltre le finestre. Continuò a leggere a questa debole luce finché non vide più. Poi, quando il cameriere gli ebbe ricordato più volte che era tardi, si alzò, andò nella stanza vicina, posò il libro sul piccolo tavolo fiorentino che aveva sempre accanto al letto e cominciò a vestirsi per il pranzo.
Erano quasi le nove quando raggiunse il club, dove trovò Lord Henry seduto solo nel salone di soggiorno con un'aria molto annoiata.
"Mi dispiace moltissimo, Harry," esclamò, "ma in realtà è tutta colpa tua. Quel libro che mi hai mandato mi ha talmente affascinato che ho lasciato passare il tempo senza accorgermi."
"Sì, immaginavo che ti sarebbe piaciuto," rispose l'ospite alzandosi.
"Non ho detto che mi è piaciuto, Harry. Ho detto che mi ha affascinato. C'è una grande differenza."
"Ah, te ne sei accorto?" mormorò Lord Henry. E passarono nella sala da pranzo.
XI
Per anni Dorian Gray non riuscì a liberarsi dall'influenza di questo libro. O forse sarebbe più esatto dire che non cercò mai di liberarsene. Fece arrivare da Parigi non meno di nove copie di lusso della prima edizione e le fece rilegare in diversi colori perché si intonassero ai suoi vari stati d'animo e alle mutevoli fantasie di una natura sulla quale a volte pareva aver perso ogni controllo. Il protagonista, il meraviglioso giovane parigino nel quale il temperamento romantico e quello scientifico si erano così stranamente fusi, divenne per lui una sorta di suo precursore. E, in realtà, tutto il libro gli pareva contenere la storia della sua vita, scritta prima che lui l'avesse vissuta.
In un punto fu più fortunato del fantastico protagonista del romanzo. Non conobbe mai, in realtà non ebbe nessun motivo per conoscerlo, quel terrore un po' grottesco per gli specchi, per le superfici lucide di metallo, per l'acqua calma, che aveva colto il giovane parigino fin dalla giovinezza, provocato dall'improvviso decadimento di una bellezza un tempo davvero notevole. Con una gioia quasi crudele, forse in ogni gioia, e certo in ogni piacere, la crudeltà ha la sua parte, era solito leggere l'ultima parte del libro, con il tragico anche se un po' ridondante resoconto del dolore e della disperazione dell'uomo che aveva perso ciò che più apprezzava negli altri e nella vita.
Infatti la meravigliosa bellezza che aveva così affascinato Basil Hallward, e molti altri con lui, sembrava non abbandonarlo mai. Anche quelli che avevano sentito dire le peggiori cose sul suo conto, e di tanto in tanto strane voci sul suo modo di vivere si diffondevano per Londra e diventavano argomento di chiacchiere nei club, quando lo vedevano non potevano credere a nulla di disonorevole su di lui. Aveva sempre l'aspetto di una persona che non si è lasciata macchiare dal mondo. Uomini che facevano discorsi osceni tacevano immediatamente quando appariva Dorian Gray. Nella purezza del suo viso c'era qualcosa che pareva rimproverarli. Bastava la sua presenza per risvegliare in loro il ricordo dell'innocenza che avevano macchiato. Si domandavano come un essere così affascinante e pieno di grazia avesse potuto sfuggire alla vergogna di un'epoca tanto sordida quanto sensuale.
Spesso, di ritorno da una di quelle sue assenze misteriose e prolungate che facevano nascere così strane congetture tra quelli che erano i suoi amici, o che credevano di esserlo, saliva di soppiatto fino alla stanza chiusa, apriva la porta con la chiave che non lasciava mai e, con lo specchio, si poneva davanti al ritratto di Basil Hallward. Guardava ora il volto malvagio e invecchiato sulla tela, ora quello giovane e gentile che gli sorrideva dalla liscia superficie di vetro e la violenza del contrasto acuiva il suo piacere. Era sempre più innamorato della sua bellezza e sempre più interessato alla corruzione della sua anima. Esaminava con cura minuziosa, e a volte con una mostruosa terribile soddisfazione, le rughe ripugnanti che marcavano la fronte avvizzita, o avanzavano lentamente intorno alla bocca pesante e sensuale, chiedendosi a volte se fossero più orribili i segni del peccato o quelli dell'età. Poneva le sue mani bianche accanto a quelle ruvide e tumefatte del quadro e sorrideva. Rideva di scherno verso quel corpo sformato e quelle membra indebolite.
Di notte, in verità, quando giaceva insonne nella sua camera delicatamente profumata, o nella sordida stanza di una piccola taverna malfamata vicino ai Docks che era solito frequentare travestito e sotto falso nome, c'erano momenti in cui pensava alla rovina in cui aveva precipitato la sua anima con una pietà tanto più cocente in quanto puramente egoistica. Ma simili momenti erano rari. Quella curiosità per la vita che per primo Lord Henry aveva risvegliato in lui mentre erano seduti insieme nel giardino del loro amico sembrava aumentare quanto più veniva soddisfatta. Quanto più sapeva tanto più desiderava sapere. Aveva folli appetiti che quanto più venivano soddisfatti tanto più si facevano ingordi.
Ma tutto ciò non lo spingeva affatto ad essere trascurato, perlomeno nei rapporti sociali. Un paio di volte al mese durante l'inverno, o tutti i mercoledì durante la season, apriva la sua bella casa e i più celebri musicisti del mondo affascinavano i suoi ospiti con i prodigi della loro arte. Le sue cenette intime, che organizzava sempre assistito da Lord Henry, erano celebri sia per l'accurata scelta degli ospiti e per l'intelligente disposizione dei posti a tavola, che per il gusto squisito mostrato nella decorazione della tavola, con sottili armonie di fiori esotici, di tessuti ricamati, di antico vasellame d'argento e d'oro. Erano molti, in realtà, specialmente tra i giovanissimi quelli che vedevano, o immaginavano di vedere, in Dorian Gray la personificazione di un tipo umano spesso sognato ai tempi di Oxford o di Eton, un tipo che univa in sé qualche cosa della vera cultura dello studioso con tutta la grazia, la distinzione e la perfezione di modi del cittadino del mondo. Dorian Gray appariva loro, uno di quelli che Dante dice che hanno cercato di "rendersi perfetti adorando la bellezza". Come Gauthier, era uno di coloro per i quali "il mondo visibile esiste".
E certo per lui la vita stessa era la prima e la maggiore delle arti, quella per cui tutte le altre non erano che un'introduzione. La moda, che per un attimo rende universali le cose più fantastiche, e il dandismo che a suo modo è un tentativo di asserire l'assoluta modernità della bellezza, naturalmente avevano per lui il loro fascino. Il suo modo di vestire, lo stile personalissimo che di tanto in tanto ostentava, avevano una marcata influenza sui giovani raffinati dei balli di Mayfair e delle vetrine dei club di Pall Mall, che lo copiavano in ogni suo gesto e che cercavano di ripetere il fascino casuale delle sue eleganti, anche se per lui non troppo serie, affettazioni
Infatti, pur accettando con molta prontezza la posizione che gli era stata immediatamente offerta non appena raggiunta la maggiore età, e pur provando, in verità, un sottile piacere all'idea di poter essere per la Londra dei suoi tempi ciò che per la Roma di Nerone era stato l'autore del Satyricon, tuttavia nell'intimo desiderava essere qualche cosa di più che un semplice arbiter elegantiarum a cui chiedere consigli sul modo di portare un gioiello, di annodare una cravatta, di tenere un bastone. Cercava, invece, di elaborare un nuovo stile di vita, con la sua filosofia ragionata e i suoi principi ordinati, uno stile che nella spiritualizzazione dei sensi trovasse la sua più alta realizzazione.
L'adorazione dei sensi spesso e molto giustamente è caduta in discredito perché gli uomini provano un istintivo terrore verso le sensazioni e le passioni più forti di loro che sanno di dividere con forme di esistenza meno organizzate. Ma a Dorian Gray pareva che nessuno avesse mai compreso la vera natura dei propri sensi e che essi fossero rimasti animaleschi e selvaggi solo perché l'umanità aveva tentato di soggiogarli o di mortificarli attraverso la sofferenza invece di proporsi di farne elementi di nuova spiritualità, la cui caratteristica dominante avrebbe dovuto essere un raffinato istinto del bello. Quando si voltava a guardare il cammino dell'uomo nella storia, un senso di perdita lo ossessionava. A quante cose si era rinunciato! E per un così misero fine! Si erano viste folli rinunce dettate dall'ostinazione, forme mostruose di autopunizione e di abnegazione nate dalla paura e finite in forme di degradazione infinitamente più terribili di tutte quelle presunte degradazioni da cui, nella loro ignoranza, gli uomini avevano cercato di fuggire. La natura, nella sua meravigliosa ironia, spingeva l'anacoreta a nutrirsi insieme agli animali selvaggi del deserto e dava come compagni all'eremita gli animali dei campi.
Sì, come aveva preannunciato Lord Henry, sarebbe sorto un nuovo edonismo che avrebbe ricreato la vita e l'avrebbe salvata dal duro e sgradevole puritanesimo che ai giorni nostri conosce un singolare risveglio. Questo edonismo avrebbe dovuto certamente appoggiarsi all'intelletto ma non avrebbe mai accettato teorie o sistemi implicanti la rinuncia a qualunque esperienza emotiva. Suo scopo infatti avrebbe dovuto essere l'esperienza stessa e non i suoi frutti, dolci o amari che fossero. Avrebbe ignorato sia l'ascetismo che mistifica i sensi, sia la volgare dissolutezza che li assopisce. Avrebbe invece insegnato agli uomini a concentrarsi negli attimi di una vita che è essa stessa solo un attimo.
A pochi di noi non è mai capitato di svegliarsi prima dell'alba, sia dopo una di quelle notti senza sogni che quasi ci fanno innamorare della morte, che dopo una di quelle notti di orrore e di gioia mostruosa quando nelle regioni della mente passano fantasmi più terribili della realtà stessa, fantasmi imbevuti di quella vita ricca di colore che si nasconde nelle cose grottesche e che dà all'arte gotica la sua duratura vitalità, essendo quest'arte, si potrebbe pensare, propria di chi ha avuto la mente turbata dal malanno della reverie. A poco a poco, bianche dita si insinuano attraverso le cortine e paiono tremare. Ombre mute dalle nere forme fantastiche strisciano negli angoli della stanza e vi si acquattano. Fuori, gli uccelli si agitano tra le fronde, si sentono i rumori degli uomini che vanno al lavoro, o i sospiri e i singhiozzi del vento che scende dai monti e si aggira intorno alla casa solitaria come se temesse di svegliare chi dorme e tuttavia costretto a evocare il sonno dalla sua purpurea caverna. I soffici veli di nebbia si sollevano a uno a uno, a gradi le cose riacquistano forma e colore, e noi vediamo l'alba che restituisce al mondo l'antico aspetto. I pallidi specchi riprendono la loro vita di imitazione. I candelabri senza fiamma sono dove li abbiamo lasciati. Accanto, c'è il libro a metà intonso che stavamo studiando o il fiore, sostenuto dal filo di ferro, che portavamo al ballo, la lettera che, per timore, non abbiamo letto o che abbiamo letto troppe volte. Nulla ci appare cambiato. Dalle ombre della notte esce di nuovo la vita che conosciamo. Dobbiamo riprenderla dove l'abbiamo lasciata e a questo punto, pian piano, ci pervade la terribile sensazione di dover continuare a impiegare energia nello stesso monotono circolo di abitudini stereotipate, o anche il desiderio sfrenato che una mattina i nostri occhi si possano aprire su un mondo che nell'oscurità si è rinnovato per il nostro piacere, un mondo dove le cose abbiano nuove forme e colori, siano diverse o abbiano altri segreti, un mondo in cui il passato abbia poca o nessuna importanza, o comunque sopravviva in forme ignare del dovere o del rimpianto: anche il ricordo della gioia, infatti, possiede una sua amarezza e quello del piacere una sua pena.
La creazione di simili mondi pareva a Dorian Gray il vero scopo, o uno dei veri scopi, della vita; e nella sua ricerca di sensazioni a un tempo nuove e piacevoli, provviste di quegli elementi insoliti così essenziali per lo spirito romantico, adottava spesso modi di pensiero che sapeva essere del tutto estranei alla sua natura. Si abbandonava alla loro sottile influenza, e poi, dopo averne per così dire afferrato il colore e dopo aver soddisfatto la sua curiosità intellettuale, li lasciava perdere con quella curiosa indifferenza che non è incompatibile con un temperamento ardente, ma che anzi, secondo alcuni psicologi moderni, spesso ne è una condizione.
Una volta si sparse la voce che stesse per convertirsi al cattolicesimo, e certamente il rito romano aveva sempre avuto per lui un grande fascino. Il sacrificio quotidiano, più terribile di tutti i sacrifici del mondo antico, lo commuoveva sia per il suo superbo rifiuto dell'evidenza dei sensi che per la primitiva semplicità dei suoi elementi e per l'eterno pathos della tragedia umana che vorrebbe rappresentare. Gli piaceva inginocchiarsi sul freddo pavimento di marmo e guardare il sacerdote nei suoi rigidi paramenti fioriti quando scostava lentamente con le bianche mani il velo del tabernacolo o sollevava l'ostensorio tempestato di gemme simile di forma a una lanterna, con quella pallida ostia che a volte si direbbe volentieri sia davvero il panis coelestis, il pane degli angeli; o quando, indossando le vesti della passione di Cristo, spezzava l'ostia nel calice battendosi il petto per i suoi peccati. I turiboli fumanti, agitati nell'aria come grandi fiori dorati da ragazzi severi vestiti di pizzi e porpora, avevano su di lui un sottile fascino. Mentre usciva era solito guardare con un senso di meraviglia i confessionali bui e sedeva a lungo nell'ombra profonda ascoltando uomini e donne che sussurravano attraverso la grata consunta la storia vera della loro vita.
Ma non commise mai l'errore di arrestare il suo sviluppo intellettuale accettando formalmente un credo o un sistema, o di confondere con la casa dove si vive una locanda adatta solo per il sonno di una notte o per le poche ore di una notte senza stelle in cui la luna si mostra a fatica. Il misticismo, con il suo meraviglioso potere di renderci insolite le cose banali, e il sottile antinomismo che pare accompagnarlo sempre, lo interessarono per un breve periodo; per un altrettanto breve periodo si dedicò alle dottrine del movimento darwinista tedesco, e provò un singolare piacere nel far risalire i pensieri e le passioni degli uomini a qualche perlacea cellula cerebrale, o a qualche bianco nervo del corpo, divertendosi all'idea dell'assoluta dipendenza dello spirito da determinate condizioni fisiche, sane o malate, normali o morbose. Tuttavia, come già si è detto, nessuna teoria della vita gli pareva avere qualche importanza se paragonata alla vita stessa. Era acutamente consapevole di quanto sia sterile ogni speculazione intellettuale quando è separata dall'azione e dall'esperienza. Sapeva che i sensi non meno dell'anima hanno i loro misteri spirituali da rivelare.
Per questo volle studiare i profumi e i segreti della loro fabbricazione distillando olii odorosi e bruciando resine profumate provenienti dall'Oriente. Si rese conto che non vi era nessuno stato d'animo che non avesse una controparte nella vita dei sensi e tentò di scoprire i loro veri legami, domandandosi perché l'incenso spinge al misticismo, perché l'ambra grigia eccita le passioni, le violette evocano il ricordo di spente passioni, il muschio turba l'intelletto e la magnolia colora l'immaginazione. Numerosi furono i tentativi di elaborare un'autentica psicologia dei profumi e di valutare le molteplici influenze delle radici dall'aroma dolce e dei fiori ricchi di polline profumato, dei balsami aromatici, dei legni scuri e fragranti, dello spiganardo nauseante, dell'ovenia che fa impazzire, dell'aloe che, dicono, scaccia la malinconia dall'anima.
In un altro periodo si dedicò totalmente alla musica, e in una lunga stanza dalle finestre inferriate con il soffitto rosso e oro e pareti di lacca verde oliva, era solito tenere strani concerti, in cui zingari appassionati strappavano musiche selvagge da piccole cetre, o gravi tunisini dai gialli barracani pizzicavano le corde di enormi liuti, mentre negri sorridenti battevano con monotonia su tamburi di rame e, rannicchiati su tappeti scarlatti, sottili indiani in turbante soffiavano in lunghi pifferi di canna o di ottone e incantavano, o fingevano di incantare, grandi serpenti dal cappuccio e orribili vipere cornute. I tempi discordanti e le acute dissonanze della musica primitiva a volte lo commuovevano, quando ormai la grazia di Schubert, la bella malinconia di Chopin e le possenti armonie dello stesso Beethoven non ridestavano più il suo interesse. Raccolse da tutte le parti del mondo i più strani strumenti che era possibile trovare sia nelle tombe di popoli scomparsi, che tra le poche tribù selvagge sopravvissute al contatto con la civiltà occidentale, e amava toccarli e provarli. Possedeva il misterioso juruparis degli indios del Rio Negro, che le donne non devono mai vedere, e sul quale nemmeno i giovani possono posare lo sguardo se non dopo una prova di digiuno e di flagellazione, le giare di terracotta degli indiani che hanno un suono acuto come grida di uccelli; flauti di ossa umane come quelli che Alfonso de Ovalle udì in Cile, i sonori diaspri verdi che si trovano nella zona di Cuzco e che emettono note di singolare dolcezza. Aveva zucche dipinte, piene di sassolini che crepitavano quando erano scosse; il lungo clarino messicano nel quale l'aria non viene soffiata ma aspirata dal suonatore; l'aspro ture delle tribù amazzoniche suonato dalle sentinelle che siedono tutto il giorno su alti alberi e che si dice possa essere udito alla distanza di tre leghe; il teponazil che ha due linguette vibranti di legno e viene percosso con bastoncini ricoperti da una gomma elastica tratta dalla linfa lattiginosa delle piante; le campane yotl degli aztechi riunite in grappoli come l'uva; un enorme tamburo cilindrico coperto dalla pelle di grossi serpenti come quello che Bernal Diaz vide quando andò con Cortés nel tempio messicano e del cui suono pieno di tristezza ci lasciò una così vivida descrizione. Il carattere fantastico di questi strumenti lo affascinava e provava uno strano piacere al pensiero che l'arte, come la natura, ha i suoi mostri, esseri di forma bestiale e dalle orribili voci. Tuttavia dopo qualche tempo se ne stancò e, nel suo palco all'Opera, solo o in compagnia di Lord Henry, ascoltava con gioia rapita il Tannhäuser, ritrovando nel preludio di questa grande opera d'arte la rappresentazione della tragedia della sua anima.
In un certo periodo si dedicò allo studio dei gioielli e apparve a un ballo nel costume di Anne de Joyeuse, ammiraglia di Francia, con un vestito coperto di cinquecentosessanta perle. Questa passione lo dominò per anni interi, e in verità bisogna dire che non lo abbandonò mai. Spesso trascorreva l'intera giornata ordinando e riordinando nei loro astucci le varie pietre della sua collezione, come il crisoberillo verde oliva che diviene rosso sotto la luce artificiale, il cimofano striato da un filo d'argento, il crisolito color pistacchio, i topazi rosa o ambrati come il vino, i carbonchi dall'intenso colore scarlatto e dalle tremule stelle a quattro raggi, i cinnami rosso fiamma, le spinelle arancioni o violette e le ametiste con i loro strati alternati di zaffiro e rubino. Amava l'oro rosso dell'arenaria, la bianchezza perlacea della pietra lunare, lo spezzato arcobaleno dell'opale lattea. Fece arrivare da Amsterdam tre smeraldi di dimensioni straordinarie e di colore intensissimo e si procurò una turchese de la vieille roche che tutti gli intenditori gli invidiavano.
Sui gioielli scoprì anche storie meravigliose. Nella Clericalis Disciplina di Alfonso si menzionava un serpente dagli occhi di vero giacinto, e nell'avventurosa storia di Alessandro, il conquistatore di Ematia, si diceva che avesse trovato nella valle del Giordano serpenti "con collane di autentici smeraldi che spuntavano sul loro dorso". Filostrato riferisce che il cervello di un drago conteneva una gemma e che "mostrandogli lettere d'oro e una tunica scarlatta" fu possibile far cadere il mostro in un sonno magico e ucciderlo. Secondo il grande alchimista Pierre de Boniface, il diamante rende invisibili e l'agata indiana eloquenti. La corniola calma la collera, il giacinto favorisce il sonno e l'ametista dissipa i fumi del vino. Il granato scaccia i demoni e l'opale ha tolto alla luna il suo colore. La selenite cresce o cala a seconda della luna e solo il sangue di capretto può macchiare il meloceo che rivela i ladri. Leonardo Camillus aveva visto una pietra bianca tolta dal cervello di un rospo appena ucciso e che era un antidoto sicuro contro i veleni. Il bezoar, che si trova nel cuore del daino arabo, è un amuleto contro la peste. Nei nidi degli uccelli d'Arabia si trova l'aspilate, che secondo Democrito protegge chi lo porta dai pericoli del fuoco.
Durante la cerimonia dell'incoronazione, il re di Ceylon attraversa a cavallo la città tenendo in mano un grosso rubino. Le porte del palazzo del Prete Gianni erano "di sardio e portavano incastonate le corna dell'aspide cornuta, onde nessuno potesse entrare portando veleni". Sul frontone c'erano "due mele d'oro, nelle quali erano incastonati due carbonchi", perché di giorno scintillasse l'oro e i carbonchi di notte. Nello strano romanzo di Lodge Una margherita in America, si afferma che nella stanza della regina si potevano osservare "tutte le caste donne del mondo, cesellate in argento, che vedevano con limpidi occhi di crisalidi, carbonchi, zaffiri e verdi smeraldi". Marco Polo aveva visto gli abitanti del Cipango porre perle rosa nella bocca dei morti. Un mostro marino si innamorò di una perla che un pescatore portò al re Perozes, uccise il ladro, e pianse per sette lune la perdita della sua amata. Quando gli Unni attirarono il re nella grande fossa - è Procopio che lo racconta - egli la gettò via e non la ritrovò più nonostante l'imperatore Anastasio avesse offerto cinque libbre d'oro per averla. Il re del Malabar aveva mostrato a un veneziano un rosario di trecentoquattro perle, una per ognuno degli dei che adorava.
Quando il duca Valentino, figlio di Alessandro VI, fece visita a Luigi XII di Francia, montava, secondo Brantôme, un cavallo coperto di piastre d'oro e portava un cappello ornato da un doppio giro di rubini che emettevano intensi bagliori. Carlo d'Inghilterra cavalcava con staffe sospese a cinghie ornate da quattrocentoventun diamanti. Riccardo II aveva un mantello coperto di rubini valutato trentamila marchi. Hall descrive Enrico VII mentre si reca alla Torre di Londra prima dell'incoronazione, "con un farsetto a ricami d'oro, la piastra pettorale ricamata con diamanti e altre pietre preziose e intorno al collo una grande gorgera tempestata di enormi rubini". I favoriti di Giacomo I portavano orecchini di smeraldi avvolti in filigrana d'oro. Edoardo II regalò a Piers Gaveston un'armatura di oro rosso tempestata di giacinti, un collare di rose d'oro con turchesi e un elmo parsemé di perle. Enrico II portava guanti ingioiellati lunghi fino al gomito e aveva un guanto da falcone ornato con dodici rubini e cinquantadue grandi perle orientali. Il cappello ducale di Carlo il Temerario, ultimo duca di Borgogna della sua casata, era ornato di perle a goccia e di zaffiri.
Com'era raffinata la vita d'un tempo! Com'erano fastosi la sua pompa e i suoi ornamenti! Perfino la letteratura sul lusso dei morti era meravigliosa.
Poi rivolse l'attenzione ai ricami e agli arazzi che, nelle gelide stanze delle regioni nordiche, sostituiscono gli affreschi. Mentre si dedicava a questo studio - ebbe sempre la straordinaria capacità di lasciarsi completamente assorbire dalla cosa che lo interessava in quel momento, qualunque fosse - provò un'infinita tristezza al pensiero della rovina che il tempo infliggeva alle cose belle e meravigliose. A questa rovina, comunque, lui era sfuggito. Le estati si susseguivano, le gialle giunchiglie fiorivano e morivano, notti d'orrore ripetevano la storia della loro vergogna, ma Dorian Gray non subiva nessun cambiamento. L'inverno non deformava il suo volto, né segnava il suo incarnato fresco come un fiore. Com'era diversa la sorte delle cose materiali! Dov'erano andate? Dov'era la grande veste color del croco, per la quale gli dei avevano combattuto contro i giganti, che brune fanciulle avevano tessuto per il piacere di Atena? Dov'era l'immenso velario che Nerone aveva teso sopra il Colosseo a Roma, quella titanica vela di porpora sulla quale era raffigurato il cielo stellato e Apollo che conduceva un carro tirato da bianchi cavalli dai finimenti d'oro? Avrebbe desiderato vedere le singolari tovaglie tessute per il Sacerdote del Sole, sulle quali erano esposti i piatti e le leccornie più squisiti che si potessero desiderare a una festa; il sudario del re Cilperico, con le sue trecento api d'oro; le vesti fantastiche che avevano suscitato l'indignazione del vescovo del Ponto e che portavano figure di "leoni, pantere, orsi, cani, foreste, rocce, cacciatori: tutto ciò che in realtà un pittore può copiare dalla natura"; il mantello indossato una volta da Carlo d'Orléans, sulle cui maniche erano ricamati i versi di una canzone che cominciava con "Madame, je suis tout joyeux" mentre il pentagramma dell'accompagnamento musicale era lavorato in filo d'oro e ogni nota, di forma quadrata come allora si usava, era composta da quattro perle. Aveva letto della stanza nel palazzo di Reims preparata per la regina Giovanna di Borgogna, decorata con "milletrecentoventun pappagalli ricamati, recanti il blasone del re, e cinquecentosessantun farfalle dalle ali parimenti adorne del blasone della regina, il tutto lavorato in oro". Caterina de' Medici si era fatta fare una coltre da lutto di velluto nero cosparso di mezzelune e di soli. Le cortine dei baldacchino di damasco erano ornate di ghirlande e intrecci di foglie su fondo oro e argento, e i bordi frangiati di ricami di perle; il letto era in una stanza dalle pareti tappezzate da una fila di stemmi della regina fatte con appliques di velluto nero su tessuto d'argento. Luigi XIV aveva nel suo appartamento delle cariatidi ricamate in oro alte cinque metri. Il letto da cerimonia di Sobieski, re di Polonia, era di broccato d'oro di Smirne sul quale, con turchesi, erano ricamati versetti del Corano. I sostegni d'argento dorato erano meravigliosamente cesellati e adorni di medaglioni di smalto e pietre preziose. Era stato catturato nel campo turco davanti a Vienna e, sotto i tremuli bagliori d'oro del baldacchino, era stato innalzato lo stendardo di Maometto.
Così, per un anno intero, cercò di accumulare i più squisiti esemplari di tessuti e ricami che poté trovare: delicate mussole di Delhi finemente intessute di palme dalle foglie d'oro e trapunte con ali iridescenti di scarabei; garze di Dacca che per la loro trasparenza sono conosciute in Oriente con il nome di "aria filata", "acqua corrente", "rugiada della sera"; strani tessuti a figure di Giava; elaborate tappezzerie cinesi; libri rilegati in raso fulvo o in seta azzurro pallido intessuta di fleurs de lys, di uccelli e figure; veli li lacis lavorati a punto ungherese; broccati siciliani e rigidi velluti spagnoli; tessuti georgiani ricamati con monete d'oro, e fukusa giapponesi dalle sfumature color verde oro e dagli uccelli riccamente piumati.
Aveva anche una particolare passione per le vesti ecclesiastiche, come del resto per tutto ciò che aveva a che fare con il culto cattolico. Nelle lunghe cassapanche di cedro, allineate nella galleria settentrionale della sua casa, aveva riposto rari e splendidi esemplari di quello che in realtà è l'abbigliamento della sposa di Cristo, obbligata a indossare porpora, gioielli e lini raffinati per nascondere il corpo pallido e macerato, consunto dalle sofferenze volute e ferito dal volontario martirio. Possedeva un magnifico piviale di seta cremisi e di damasco intessuto d'oro, con un disegno ripetuto di melograni d'oro tra fiori stilizzati a sei petali e, sui due lati, un motivo di ananas in grani di perla. Gli orphreys erano divisi in pannelli che rappresentavano scene della vita della Vergine mentre sul cappuccio era raffigurata, con ricami di seta colorata, la sua Incoronazione. Era un lavoro italiano del XV secolo. Un altro piviale era di velluto verde ricamato a mazzi di fiori d'acanto in forma di cuore dai quali spuntavano bianchi fiori dal lungo stelo, resi a rilievo con filo d'argento e pietre colorate. Il fermaglio portava una testa di serafino di filigrana d'oro in rilievo. Gli orphreys erano tessuti in seta rossa e oro, abbellita da vari medaglioni di santi e martiri tra i quali San Sebastiano. Aveva anche pianete di seta color dell'ambra, di seta azzurra e broccato d'oro, di seta gialla damascata e intessuta d'oro con scene della passione e della crocifissione di Cristo, ricamate con leoni e pavoni e altri emblemi; dalmatiche di seta bianca e di seta rossa di Damasco, decorata con tulipani e delfini e fleurs de lys; paliotti d'altare di velluto cremisi e di lino blu; e corporali e veli di calice e sudari. C'era qualcosa, nei mistici uffici in cui questi oggetti venivano impiegati, che gli faceva correre la fantasia.
Questi tesori, infatti, così come tutte le cose che raccoglieva nella sua bella casa, gli servivano per dimenticare, gli davano la possibilità di sfuggire per un certo periodo alla paura che, a volte, gli sembrava insopportabile. Sulla parete della chiusa stanza solitaria in cui aveva trascorso tanta parte della sua infanzia, aveva appeso con le proprie mani il terribile ritratto le cui mutevoli fattezze gli mostravano la vera degenerazione della sua vita, e sul quale aveva drappeggiato come un sipario il manto porpora e oro. Per settimane intere non entrava in quella camera, dimenticava l'orrenda cosa dipinta e ritrovava la serenità, la sua meravigliosa gaiezza, la sua dedizione appassionata al puro fatto di esistere. Poi, improvvisamente, una notte usciva di casa, si recava in posti orribili dalle parti di Blue Gate Fields e restava là giorni e giorni finché ne veniva scacciato. Al ritorno, sedeva di fronte al ritratto a volte provando un profondo schifo per il quadro e per se stesso, ma altre volte colmo di quell'orgoglio individualistico che dà al peccato metà del suo fascino e sorrideva, segretamente compiaciuto, all'ombra deforme costretta a portare un peso che avrebbe dovuto essere suo.
Dopo qualche anno, non riusciva a restare per molto tempo lontano dall'Inghilterra. Aveva ceduto la villa di Trouville che divideva con Lord Henry e la piccola casa di Algeri dalle bianche mura dove aveva trascorso più di un inverno. Odiava separarsi dal quadro che aveva una parte così importante nella sua vita e inoltre temeva che, durante la sua assenza, qualcuno potesse entrare nella stanza nonostante il complicato sistema di catenacci che aveva fatto mettere alla porta.
Sapeva benissimo che questo non significava nulla. Certo, il ritratto conservava ancora, sotto la perfida bruttezza del volto, una marcata somiglianza con lui, ma questo che cosa avrebbe potuto suggerire? Avrebbe riso di chiunque cercasse di accusarlo. Non l'aveva dipinto lui. Per quanto potesse essere ignobile e vergognoso, che rapporto aveva con lui? Chi gli avrebbe creduto anche se gli avesse rivelato il suo segreto?
Tuttavia aveva paura. A volte quando si trovava nella sua grande casa del Nottinghamshire, in compagnia dei giovani eleganti del suo ceto che solitamente frequentava, stupendo la contea con il lusso sfrenato e con il fastoso splendore del suo stile di vita, abbandonava improvvisamente gli ospiti e ritornava in gran fretta in città per assicurarsi che la porta non fosse stata forzata e che il quadro fosse sempre al suo posto. Che cosa sarebbe successo se lo avessero rubato? La sola idea lo agghiacciava. Senza dubbio tutti avrebbero conosciuto il suo segreto. Forse già lo sospettavano.
Infatti, anche se affascinava molta gente, non pochi diffidavano di lui. Per poco non era stata respinta la sua candidatura a un club del West End cui per nascita e posizione sociale avrebbe avuto pieno diritto di appartenere, e si diceva che una volta, mentre un amico lo accompagnava nella sala del Churchill, il duca di Berwich e un altro gentiluomo si erano ostentatamente alzati ed erano usciti. Dopo il suo venticinquesimo compleanno, strane storie cominciarono a diffondersi sul suo conto. Correva la voce che lo avessero visto azzuffarsi con dei marinai stranieri in un'infima bettola nella zona più lontana di Whitechapel, che frequentasse ladri e falsari e conoscesse i misteri dei loro traffici. Le sue strane assenze divennero di dominio pubblico e quando riappariva in società, la gente sussurrava negli angoli, gli passava accanto con un sorriso di scherno, oppure lo fissavano con un freddo sguardo indagatore come se fossero decisi a scoprire il suo segreto.
Naturalmente lui non si curava di queste insolenze e di questi tentativi di provocazione e, nell'opinione dei più, i suoi modi franchi e privi di affettazione, il fascino del suo sorriso fanciullesco e la grazia infinita di quella meravigliosa gioventù che sembrava non lasciarlo mai, erano di per se stessi una risposta sufficiente alle calunnie - perché tali le ritenevano - che circolavano sul suo conto. Fu notato comunque che alcuni di coloro che erano stati in grande intimità con lui, dopo qualche tempo sembravano evitarlo. Si vedevano donne che lo avevano adorato alla follia e che per lui avevano sfidato ogni censura sociale e messo da parte tutte le convenzioni, impallidire di vergogna o di orrore quando Dorian Gray appariva.
Tuttavia, questi scandali di cui si sussurrava, agli occhi di molti non facevano che aumentare il suo singolare e pericoloso fascino. La sua grande ricchezza era un elemento rassicurante. La società, quella civilizzata almeno, non crede mai troppo facilmente a ciò che potrebbe danneggiare chi è ricco e affascinante. Sente istintivamente che l'educazione è più importante della morale e, nella sua opinione, la più specchiata rispettabilità vale molto meno del fatto di avere un buon chef. E, alla fine dei conti, è una molto magra consolazione venire a sapere che chi ci ha fatto servire un pessimo pranzo o un vino scadente, è irreprensibile nella vita privata. Nemmeno le virtù cardinali possono far perdonare delle entrées troppo fredde, come fece notare una volta Lord Henry, durante una discussione sull'argomento; e probabilmente vi sono molte cose da dire a favore di questa tesi. I canoni della buona società, infatti, sono, o dovrebbero essere, gli stessi dell'arte: per essi la forma è assolutamente essenziale. Dovrebbero avere la dignità di una cerimonia e, insieme, la sua irrealtà, dovrebbero unire l'ipocrisia delle commedie romantiche allo spirito e alla bellezza che ce le rendono piacevoli. È davvero così terribile l'insincerità? Io non credo: è semplicemente un metodo che ci permette di moltiplicare la nostra personalità.
Questa, almeno, era l'opinione di Dorian Gray. Era solito meravigliarsi della psicologia superficiale di coloro che ritengono che l'Io dell'uomo sia una cosa semplice, stabile, sicura e dotata di una sola essenza. Secondo lui, l'uomo era un essere con miriadi di vite e miriadi di sensazioni, era una creatura multiforme e complessa che portava in sé strane eredità di pensiero e di passione, una creatura la cui carne era corrotta dalle mostruose malattie della morte. Gli piaceva aggirarsi nella cupa e fredda galleria della sua casa di campagna e osservare i ritratti di coloro il cui sangue gli fluiva nelle vene. Ecco Philip Herbert, descritto da Francis Osborne nelle sue Memorie del Regno della Regina Elisabetta e di re Giacomo come un uomo "benvoluto a corte per il bel volto, che non gli tenne a lungo compagnia". Forse il giovane Herbert aveva condotto la vita che a volte lui stesso conduceva? Forse qualche strano germe velenoso era passato di corpo in corpo finché era giunto nel suo? Era forse il fievole senso di quella bellezza distrutta che, così improvvisamente e quasi senza motivo, nello studio di Basil Hallward lo aveva spinto a quella folle preghiera che aveva cambiato radicalmente la sua vita? Ecco, con il giustacuore rosso ricamato in oro, il mantello ingioiellato, il colletto e i polsini orlati d'oro, Sir Anthony Sherard con l'armatura lucente e brunita ai suoi piedi. Qual era l'eredità che gli aveva lasciato? Forse l'amante di Giovanna di Napoli gli aveva trasmesso un'eredità di vergogna e di peccato? Le sue azioni erano forse sogni che quegli uomini defunti non avevano avuto il coraggio di attuare? E qui, dalla tela sbiadita, sorrideva Lady Elizabeth Devereux, nel velo di mussola, con il corsetto ricamato di perle e le maniche rosa a spacchi verticali. Nella destra teneva un fiore e nella sinistra un collare smaltato di rose bianche e damascate. Accanto, su un minuscolo tavolo, erano posati un mandolino e una mela. Sulle scarpine appuntite c'erano grosse rosette. Conosceva la sua vita e le strane storie che si raccontavano sui suoi amanti: aveva in sé qualche cosa del suo temperamento? Quegli occhi a mandorla dalle palpebre pesanti parevano fissarlo curiosi. E che dire di George Willoughby, con quei suoi capelli incipriati e i nèi bizzarri? Che aria perversa! Il volto era scuro e mesto, le labbra sensuali parevano piegarsi in una smorfia sprezzante. Delicati merletti cadevano sulle sue mani gialle e sottili, sovraccariche di anelli. Era stato una delle persone più eleganti del diciottesimo secolo e, in gioventù, l'amico di Lord Ferrars. Che dire poi del secondo Lord Beckenham, compagno del Principe Reggente durante il suo periodo più sfrenato, nonché uno dei testimoni al suo matrimonio con la signora Fitzherbert? Com'era bello e altero con quei riccioli castani e la posa insolente! Quali passioni gli aveva trasmesso? Il mondo lo aveva considerato infame perché aveva diretto le orge di Carlton House. Sul petto gli scintillava la stella della Giarrettiera. Accanto al suo, era appeso il ritratto della moglie, una donna pallida dalle labbra sottili, vestita di nero. Anche il sangue di lei gli scorreva nelle vene. Come era strano! E sua madre, con quel suo volto da Lady Hamilton e le labbra come stillanti vino. Sapeva che cosa aveva preso da lei: la bellezza e l'amore per la bellezza altrui. Gli sorrideva nel suo abito da baccante. Aveva foglie di vite nei capelli e vino purpureo cadeva dalla coppa che teneva in mano. I garofani del quadro avevano perduto il colore, ma gli occhi erano ancora meravigliosi, profondi e brillanti di colore. Sembravano seguirlo in ogni suo movimento.
Ma si possono anche avere antenati nella letteratura, come nella propria stirpe, antenati forse ancor più vicini nel tipo e nel temperamento e, certo, con influenze di cui siamo più profondamente consapevoli. A volte sembrava a Dorian Gray che tutta la storia fosse solo un racconto della sua vita, non come l'aveva vissuta in realtà, ma come l'aveva creata nella sua fantasia, come si era svolta nella sua mente e nelle sue passioni. Sentiva di averli conosciuti tutti, quei singolari terribili personaggi che erano passati sulla scena del mondo e avevano commesso peccati così meravigliosi e così sottili malvagità. Gli sembrava che, in qualche modo misterioso, la loro vita fosse stata la sua.
Anche l'eroe del meraviglioso racconto che aveva tanto influenzato la sua vita aveva avuto la stessa fantasticheria. Nel settimo capitolo raccontava di quando, incoronato di alloro perché il fulmine non potesse colpirlo, si era seduto come Tiberio in un giardino di Capri a leggere l'infame libro di Elefantide, mentre nani e pavoni gli si aggiravano intorno pieni di sussiego e il suonatore di flauto derideva il ragazzo che agitava l'incensiere. Come Caligola aveva gozzovigliato nelle scuderie con i fantini in tunica verde e aveva preso il cibo nella mangiatoia d'avorio insieme al cavallo che aveva la fronte cinta di gioielli. Come Domiziano si era aggirato in un corridoio rivestito di specchi di marmo, guardandosi intorno con occhi stravolti alla ricerca del riflesso della spada che avrebbe posto fine ai suoi giorni, malato di quell'ennui, di quel terribile taedium vitae che assale coloro che hanno tutto dalla vita. Aveva guardato, attraverso un limpido smeraldo, i rossi massacri del circo e poi, in una lettiga di porpora e perle tirata da mule dai ferri d'argento, si era fatto portare attraverso la via dei Melograni verso la Domus Aurea e aveva udito gli uomini gridare al suo passaggio il nome di Nerone Cesare. Come Eliogabalo, si era dipinto il volto, aveva preso la conocchia insieme alle donne, aveva trasportato la Luna da Cartagine per offrirla al Sole in mistico matrimonio.
Dorian Gray era solito leggere e rileggere di continuo questo fantastico capitolo e i due immediatamente successivi, in cui come in arazzi singolari o in smalti abilmente lavorati, erano raffigurate le forme orrende e bellissime di coloro che il vizio, il sangue e la noia avevano reso mostruosi o folli: Filippo, duca di Milano, che assassinò la moglie e le dipinse le labbra con veleno scarlatto perché l'amante suggesse la morte dando l'ultimo bacio alla morta; Pietro Barbi, veneziano, conosciuto con il nome di Paolo II, che spinse la sua vanità fino ad assumere il titolo di Formosus e la cui tiara valutata duecentomila fiorini fu comperata a prezzo di un terribile peccato; Gian Maria Visconti, che usava i segugi per cacciare l'uomo, e il cui corpo assassinato fu ricoperto di rose da una prostituta che lo amava; il Borgia con il Fratricidio che gli cavalcava a fianco e il mantello macchiato del sangue di Perotto; Pietro Riario, il giovane cardinale arcivescovo di Firenze, figlio favorito di Sisto IV, la cui bellezza era pari solo alla dissolutezza, che ricevette Leonora d'Aragona in un padiglione di seta bianca e cremisi, pieno di ninfe e centauri, e fece dorare un fanciullo perché alle feste gli servisse da Ganimede o da Hylas; Ezzelino, la cui malinconia era alleviata solo dallo spettacolo della morte, e che amava il rosso sangue, come altri amavano il rosso vino: figlio del demonio, era ritenuto, e aveva truffato il padre giocando con lui l'anima a dadi; Giambattista Cybo che per beffa prese il nome di Innocenzo e nelle cui torpide vene un medico ebreo trasfuse il sangue di tre giovinetti; Sigismondo Malatesta, amante di Isotta e signore di Rimini, che venne bruciato in effigie a Roma perché nemico di Dio e dell'uomo, che strangolò Polissena con un tovagliolo, offrì il veleno a Ginevra d'Este in una coppa di smeraldo e, in onore di una vergognosa passione, costruì una chiesa pagana per il culto cristiano; Carlo VI, così violentemente preso dalla cognata che un lebbroso lo avvertì che sarebbe presto impazzito e che, quando il cervello fu colto dalla malattia e cominciò a sragionare, si calmava solo vedendo le carte saracene dipinte con le immagini dell'amore, della morte, e della follia; e - nel farsetto attillato, il berretto ornato di gemme, i riccioli come foglie di acanto - Grifonetto Baglioni, che assassinò Astorre insieme alla moglie e Simonetto con il suo paggio, un giovane di tale bellezza che, quando giacque morente sulla gialla piazza di Perugia, coloro che lo odiavano non poterono impedirsi di piangere, e Atalanta, che lo aveva maledetto, lo benedisse.
C'era un orribile fascino in tutti questi personaggi. Li vedeva di notte e gli turbavano l'immaginazione durante il giorno. Il rinascimento conosceva strani modi per uccidere di veleno: con un elmo o con una torcia accesa, con un guanto ricamato d'oro e con una catenella d'ambra. Dorian Gray era stato avvelenato da un libro. In certi momenti considerava il male solo un mezzo mediante il quale realizzare la sua concezione della bellezza.
XII
Era il nove di novembre, il giorno del suo trentottesimo compleanno, come ricordò più volte in seguito.
Tornava a casa verso le undici di sera, dopo aver pranzato da Lord Henry, avvolto in una pesante pelliccia perché la notte era fredda e nebbiosa. All'angolo di Grosvenor Square con South Adley Street un uomo in un ulster grigio col bavero alzato, lo superò muovendosi rapido nella nebbia. Teneva in mano una valigia. Dorian Gray lo riconobbe: era Basil Hallward. Si sentì assalire da uno strano, inspiegabile senso di paura. Finse di non riconoscere il pittore e proseguì in fretta verso casa.
Hallward però lo aveva visto. Dorian lo udì dapprima fermarsi sul marciapiedi, poi corrergli dietro. Pochi momenti dopo la mano di lui gli si posava su un braccio.
"Dorian! Che colpo di fortuna! Ti ho aspettato nella tua biblioteca fin dalle nove. Alla fine la stanchezza del tuo cameriere mi ha impietosito e me ne sono andato dicendogli di andare a letto. Parto per Parigi con il treno di mezzanotte: ci tenevo molto a vederti prima di partire. Ho pensato che fossi tu, o meglio la tua pelliccia, nel passarti accanto, ma non ne ero affatto sicuro. Non mi hai riconosciuto?"
"Con questa nebbia, mio caro Basil? Non riesco nemmeno a riconoscere Grosvenor Square. Credo che la mia casa sia da queste parti, ma non ne sono affatto sicuro. Mi dispiace che tu stia partendo, non ti vedo da secoli. Ma immagino che tornerai presto."
"No, rimarrò via dall'Inghilterra per sei mesi.
Ho intenzione di prendere uno studio a Parigi e di rinchiudermi dentro finché non avrò finito un grande quadro che ho in mente. Comunque, non era di me che volevo parlare. Eccoci alla porta di casa tua: fammi entrare un momento, ho qualcosa da dirti."
"Con molto piacere, ma non perderai il treno?" domandò pigramente Dorian Gray mentre saliva i gradini e apriva la porta.
La luce del lampione penetrava a fatica la nebbia e Hallward diede un'occhiata all'orologio. "Ho un sacco di tempo," rispose. "Il treno parte alle dodici e quindici e sono appena le undici. Stavo proprio andando al club a cercarti quando ti ho incontrato. Come vedi, non ho bagagli ingombranti: ho già spedito le cose più pesanti. Ho solo questa borsa e posso comodamente arrivare alla Victoria Station in venti minuti."
Dorian lo guardò e sorrise. "Che modo di viaggiare per un famoso pittore! Una borsa Gladstone e un ulster! Entra, altrimenti la nebbia mi viene in casa. E ricordati di non dirmi nulla di serio. Non c'è nulla di serio in questi tempi, o, almeno, non dovrebbe esserci."
Hallward entrò scuotendo il capo e seguì Dorian in biblioteca. Un allegro fuoco di legna ardeva nel grande camino. Le lampade erano accese e un portaliquori olandese d'argento ancora aperto era posato, insieme ad alcuni sifoni di soda e a grandi bicchieri di cristallo molato, su un minuscolo tavolino intarsiato.
"Come vedi, il tuo cameriere mi aveva messo a mio agio. Mi ha dato tutto quello che desideravo, comprese le tue sigarette dal bocchino dorato. È una persona davvero ospitale. Mi piace molto di più di quel francese che avevi una volta. A proposito, che cosa è successo di lui?"
Dorian scrollò le spalle. "Credo che abbia sposato la cameriera di Lady Radley e l'abbia portata a Parigi come sarta inglese. Ho sentito che l'anglomanie è molto di moda, laggiù. È stupido da parte dei francesi, non ti pare? Ma non era affatto un cattivo cameriere, sai? Non mi era simpatico, ma non potevo lamentarmene. Spesso immaginiamo delle cose completamente assurde. In realtà, mi era molto devoto e mi sembrò molto dispiaciuto quando se ne andò. Vuoi un altro brandy con soda? O preferisci uno Hockheim al seltz? Io lo prendo sempre. Devo averne, nella stanza vicina."
"Grazie, non voglio altro," disse il pittore levandosi cappello e cappotto e gettandoli sulla borsa che aveva posato in un angolo. "E ora, mio caro amico, devo parlarti seriamente. Non fare quella faccia scura. Mi rendi le cose molto più difficili."
"Di che cosa si tratta?" esclamò Dorian Gray, con la sua aria insolente, lasciandosi cadere su un divano. "Spero non di me. Stasera sono stanco di me, mi piacerebbe essere qualcun altro."
"Si tratta di te," rispose il pittore con la sua voce grave e profonda, "e te lo devo dire. Ti prenderà solo mezz'ora."
Dorian sospirò e accese una sigaretta. "Mezz'ora!" mormorò.
"Non è chiederti molto, Dorian, e parlo nel tuo esclusivo interesse. Penso sia bene che tu sappia che a Londra si dicono le cose più tremende sul tuo conto."
"Non desidero saperne nulla. Amo gli scandali che riguardano gli altri, ma quelli che riguardano me non mi interessano. Non hanno il fascino della novità."
"Devono interessarti, Dorian. Ogni gentiluomo ha interesse al suo buon nome. Non vorrai che la gente parli di te come di un personaggio vile e vizioso. Naturalmente ci sono la tua posizione, la tua ricchezza e via dicendo, ma posizione e ricchezza non sono tutto. Bada che non credo assolutamente a queste voci, o almeno, quando ti vedo non posso crederci. Il peccato è una cosa che si stampa sulla faccia di un uomo: non lo si può nascondere. A volte la gente parla di vizi segreti, ma cose simili non esistono. Se un disgraziato ha un vizio, lo manifesta nella linea della bocca, nelle palpebre cadenti, persino nella forma delle mani. L'anno scorso venne da me un tizio - non voglio fare il suo nome, ma lo conosci - per farsi fare il ritratto. Non lo avevo mai visto e fino a quel momento non avevo mai sentito dire nulla sul suo conto, anche se in seguito ho saputo un bel po' di cose. Mi offrì una somma sbalorditiva. Rifiutai. C'era qualche cosa nella forma delle sue dita che mi disgustava. Adesso so che le cose immaginate sul suo conto erano assolutamente vere: conduce una vita spaventosa. Ma tu, Dorian, con quel tuo viso puro, luminoso, innocente, con la tua meravigliosa giovinezza intatta... non posso pensare nulla contro di te. Tuttavia ti vedo molto di rado e ormai non vieni più nel mio studio; così, quando sono lontano e sento queste cose disgustose che la gente mormora sul tuo conto, non so che cosa dire. Perché, Dorian, un uomo come il duca di Berwick lascia la sala di un club quando entri tu? Come mai qui a Londra tanti gentiluomini non vengono a casa tua né ti invitano a casa loro? Un tempo eri amico di Lord Staveley. L'ho incontrato la settimana scorsa a pranzo. Durante la conversazione saltò fuori il tuo nome a proposito delle miniature che hai prestato per la mostra del Dudley. Staveley fece una smorfia e disse che potevi avere il gusto artistico più squisito, ma che non si dovrebbe permettere a nessuna ragazza casta di conoscerti e a nessuna donna onesta di rimanere dove ci sei anche tu. Gli ricordai che ero tuo amico e gli chiesi di spiegarsi. Lo fece, lo fece così, davanti a tutti. Una cosa orribile. Perché la tua amicizia è così fatale ai giovani? C'è stato quel disgraziato giovanotto delle guardie che si è suicidato. Eri suo grande amico. C'è stato Lord Henry Ashton che ha dovuto lasciare l'Inghilterra con il nome macchiato. Eravate inseparabili. E che dire di Adrian Singleton e della sua terribile fine? Che dire dell'unico figlio di Lord Kent e della sua cameriera? Ho incontrato il padre ieri, in St. James's Street: sembrava distrutto dalla vergogna e dal dolore. Che dire del giovane duca di Perth? Che vita conduce adesso? Qual è il gentiluomo che lo frequenterebbe?"
"Smettila, Basil. Parli di cose di cui non sai nulla," disse Dorian Gray mordendosi le labbra e con una nota di infinito disprezzo nella voce. "Mi chiedi come mai Berwick lascia la stanza quando entro io: perché io so tutto della sua vita e non perché lui sa qualche cosa della mia. Con il sangue che gli scorre nelle vene, come potrebbe avere un passato pulito? Mi chiedi di Henry Ashton e del giovane Perth. Sono stato io ad insegnare all'uno i suoi vizi e all'altro la sua depravazione? E se quell'imbecille del figlio di Kent prende in moglie una che batte il marciapiede, che cosa c'entro io? Se Adrian Singleton firma una cambiale con il nome di un amico, sono io il suo tutore? Le conosco le chiacchiere che si fanno in Inghilterra. I borghesi sciorinano i loro pregiudizi morali davanti a enormi tavole imbandite e parlano a bassa voce di quelle che chiamano le dissolutezze delle classi superiori per dimostrare di far parte della buona società e di essere in confidenza con quelli che calunniano. In questo paese basta che un uomo sia un po' diverso e abbia una certa intelligenza perché ogni lingua mediocre si agiti contro di lui. E che tipo di vita conducono questi che si atteggiano a moralisti? Mio caro amico, dimentichi che qui siamo nella patria dell'ipocrisia."
"Dorian," esclamò Hallward, "non è questo il problema. In Inghilterra ci sono moltissime cose che non vanno e la società inglese è completamente sbagliata. Ma proprio per questo vorrei che tu fossi diverso. E invece non lo sei stato. Si ha il diritto di giudicare un uomo dall'influenza che esercita sugli amici. I tuoi pare abbiano perduto ogni senso dell'onore, della bontà, della purezza. Hai instillato in loro la frenesia del piacere e loro sono caduti fino in fondo. Ce li hai portati tu, sì, ce li hai portati tu, e tuttavia puoi sorridere come sorridi adesso. Ma c'è anche di peggio. So che tu e Harry siete inseparabili. Non fosse che per questo, non avresti dovuto permettere che il nome di sua sorella fosse sulla bocca di tutti."
"Attento, Basil. Stai andando un po' troppo oltre."
"Devo parlare e tu devi ascoltarmi e mi ascolterai. Quando hai conosciuto Lady Gwendolin, non l'aveva sfiorata nemmeno l'ombra di uno scandalo. E, adesso c'è forse una sola donna come si deve disposta a farsi vedere in carrozza con lei al Park? Ma se nemmeno ai suoi figli si permette di vivere con lei. Poi corrono altre voci: si dice che sei stato visto sgusciare all'alba da case infami ed entrare travestito nelle più sozze taverne di Londra. È vero? Può essere vero? La prima volta che le ho sentite, ne ho riso. Quando le sento adesso, mi fanno venire i brividi. E la tua casa di campagna e quello che succede laggiù? Dorian, non sai quello che si dice sul tuo conto. Non voglio dirti che non intendo farti una predica. Ricordo quel che Harry ha detto una volta: chiunque decida di fare per un po' il curato dilettante, comincia sempre col dire questa frase, e subito dopo rompe la promessa. Io voglio proprio farti una predica. Voglio che tu conduca una vita che ti permetta di essere rispettato da tutti. Voglio che il tuo nome e la tua reputazione siano senza macchia. Voglio che ti sbarazzi della gente orribile che ti sta intorno. Non alzare le spalle in questo modo, non essere così indifferente. Tu hai una straordinaria influenza: fa che spinga al bene e non al male. Dicono che tu corrompa tutti coloro che divengono tuoi intimi amici e che basta che tu entri in una casa, perché ne segua qualche cosa di vergognoso. Non so se è vero o no. Come potrei saperlo? Ma queste sono le voci che circolano sul tuo conto. Mi hanno detto cose di cui sembra impossibile dubitare. Lord Gloucester era uno dei miei migliori amici a Oxford. Mi ha fatto vedere una lettera che gli ha scritto sua moglie quando era in fin di vita, sola, nella sua villa di Mentone. Nella più terribile confessione che io abbia mai letto era coinvolto il tuo nome. Gli dissi che era assurdo, che ti conoscevo a fondo e che non saresti stato capace di cose simili. Conoscerti? Mi domando se ti conosco. Prima di poter rispondere dovrei vedere la tua anima."
"Vedere la mia anima!" balbettò Dorian Gray balzando in piedi bianco di paura.
"Sì," rispose gravemente Hallward, con un tono di profonda sofferenza nella voce, "vedere la tua anima. Ma solo Dio può farlo."
Un'amara risata di scherno eruppe dalle labbra di Dorian Gray. "La vedrai tu stesso. Stasera!" esclamò afferrando una lampada sul tavolo. "Andiamo: l'hanno fatta le tue mani. Perché non dovresti vederla? Dopo, se vorrai, potrai raccontarlo a tutti. Nessuno ti crederà. E se ti credessero piacerai loro ancor di più. Conosco la nostra epoca meglio di te, anche se tu ne vai cianciando in modo così noioso. Vieni, ti dico. Hai parlato abbastanza di corruzione: adesso la guarderai in faccia."
In ogni parola pronunciata c'era la follia dell'orgoglio. Pestò un piede a terra in quel suo modo insolente e infantile. Provava una gioia terribile al pensiero che un altro avrebbe diviso il suo segreto e che l'autore del ritratto all'origine di tutta la sua vergogna avrebbe portato per il resto della vita l'ignobile ricordo di quel che aveva fatto.
"Sì," proseguì venendogli vicino e guardandolo fisso negli occhi severi, "ti farò vedere la mia anima. Vedrai quello che, a tuo avviso, solo Dio può vedere."
Hallward arretrò. "Questa è una bestemmia, Dorian!" gridò. "Non devi dire cose simili. Sono orribili e non significano niente."
"Lo credi davvero?" disse e rise nuovamente.
"Ne sono certo. E per quanto riguarda le cose che ti ho detto stasera, le ho dette per il tuo bene. Sai che sono sempre stato un amico leale."
"Non toccarmi. Finisci quel che hai da dire."
Un lampo contorto di sofferenza passò sul viso del pittore. Tacque per un momento e un profondo senso di pietà lo assalì. Dopotutto che diritto aveva di spiare nella vita di Dorian Gray? Se aveva commesso solo un decimo di quello che si raccontava, quanto doveva aver sofferto! Poi si raddrizzò, si diresse verso il caminetto, e rimase immobile a guardare i ceppi ardenti, coperti da una brina di cenere e da palpitanti cuori di fiamma.
"Sto aspettando, Basil," disse il giovane con voce chiara e dura.
Basil si voltò. "Quel che ho da dire è questo," esclamò. "Devi rispondere in qualche modo alle terribili accuse che ti si fanno. Se mi dici che sono assolutamente false, dalla prima all'ultima, ti crederò. Negale, Dorian, negale! Non vedi cosa sto passando? Mio Dio! Non dirmi che sei malvagio, corrotto, infame."
Dorian Gray sorrise. Le labbra erano piegate in un'espressione sprezzante. "Vieni di sopra, Basil," disse con voce tranquilla, "tengo un diario della mia vita, giorno per giorno: non esce mai dalla stanza in cui viene scritto. Te lo farò vedere se vieni con me."
"Verrò, Dorian, se lo desideri. Vedo che ho perso il treno. Non importa, posso partire domani. Ma non chiedermi di leggere nulla, stasera. Voglio solo una semplice risposta alla mia domanda."
"Ti verrà data di sopra. Non posso dartela qui.
XIII
Uscì dalla stanza e cominciò a salire; Basil Hallward lo seguiva da vicino. Camminavano adagio, come si fa istintivamente di notte. La lampada gettava ombre fantastiche sul muro e sulle scale. Un soffio di vento fece vibrare rumorosamente qualche finestra.
Giunti all'ultimo pianerottolo, Dorian posò la lampada sul pavimento e, presa la chiave, la girò nella serratura. "Vuoi proprio sapere, Basil?" domandò a bassa voce.
"Sì."
"Ne sono felice," assentì sorridendo. Poi aggiunse, con una certa asprezza: "Sei l'unica persona al mondo che abbia il diritto di sapere tutto di me. Nella mia vita hai avuto un'influenza maggiore di quello che pensi." Prese la lampada, aprì la porta ed entrò. Una fredda corrente d'aria li investì e, per un momento, la fiamma si ridusse a una scura lingua arancione. Rabbrividì. "Chiudi la porta," sussurro posando la lampada sul tavolo.
Hallward si guardò intorno perplesso. La stanza sembrava abbandonata da anni. Un arazzo fiammingo, un quadro coperto da un drappo, un vecchio cassone italiano, una libreria quasi vuota: non sembrava che ci fosse altro, salvo un tavolo e una sedia. Mentre Dorian Gray accendeva una candela mezzo consumata posta sulla mensola del caminetto, vide che tutto era coperto di polvere e che il tappeto era pieno di buchi. Un topo scappò con un guizzo dietro i pannelli che rivestivano le pareti. C'era un umido odore di muffa.
"Dunque credi che solo Dio possa vedere l'anima, Basil? Togli quel drappo e vedrai la mia."
La voce era fredda e crudele. "Sei pazzo, Dorian, oppure stai recitando," mormorò Hallward, accigliato.
"Non vuoi? Allora lo farò io," disse il giovane. Strappò il drappo dalla bacchetta e lo lasciò cadere sul pavimento.
Un grido di orrore sfuggì dalle labbra del pittore appena vide, sotto la debole luce, il volto orrendo che gli ghignava dalla tela. C'era in quell'espressione qualche cosa che lo riempiva di nausea e di disgusto. Santo cielo! Stava guardando il volto di Dorian Gray! Qualche cosa di orrendo, qualunque ne fosse la causa, non aveva ancora completamente distrutto la sua meravigliosa bellezza. C'era ancora dell'oro nei capelli radi e un'ombra scarlatta sulle labbra sensuali. Gli occhi acquosi avevano mantenuto un poco del loro bel colore azzurro, le curve perfette non avevano ancora abbandonato le narici cesellate e il collo scultoreo. Sì, era proprio Dorian. Ma chi lo aveva dipinto? Gli parve di riconoscere la sua tecnica e anche la cornice era quella che lui aveva disegnato. L'idea era assurda, ma gli faceva ugualmente paura. Afferrò la candela accesa e la avvicinò al quadro. Nell'angolo sinistro c'era il suo nome tracciato a lunghe lettere di vermiglio brillante.
Era una sconcia parodia, una satira ignobile e infame. Non aveva mai fatto nulla di simile. E tuttavia il quadro era suo. Lo riconobbe e gli parve che, in un attimo, il sangue gli si fosse tramutato da fuoco in una densa poltiglia di ghiaccio. Il suo quadro? Che cosa significava questo? Perché si era alterato? Si voltò e fissò Dorian Gray con uno sguardo nauseato. Le labbra gli tremavano e gli pareva che la lingua arida non riuscisse più ad articolare parola. Si passò una mano sulla fronte: era madida di un sudore viscido.
Il giovane era appoggiato alla mensola del caminetto e lo osservava con quella strana espressione che si nota sul viso di chi è avvinto da uno spettacolo nel momento in cui recita un grande artista. Non sembrava né vera gioia né vero dolore: solo la passione dello spettatore e, forse, negli occhi, un bagliore di trionfo. Aveva tolto il fiore dalla giacca e lo odorava, o fingeva di farlo.
"Che cosa significa?" gridò infine Hallward. La sua stessa voce gli suonò strana e stridula all'orecchio.
"Anni fa, quando ero ragazzo," disse Dorian Gray, stritolando il fiore tra le dita, "mi hai incontrato, mi hai colmato di adulazioni e mi hai insegnato a essere vanitoso della mia bellezza. Un giorno mi presentasti un amico che mi spiegò il prodigio della giovinezza e finisti il ritratto che mi rivelò il prodigio della bellezza. In un momento di follia, che persino ora non so se rimpiangere o meno, espressi un desiderio; forse tu lo chiameresti una preghiera..."
"Ricordo! Oh, come me ne ricordo bene! No! È impossibile. La stanza è umida, la muffa ha aggredito la tela. I colori che ho usato contenevano qualche disgraziata sostanza velenosa. Ti dico che è impossibile."
"Ah, che cosa è impossibile?" mormorò il giovane, andando alla finestra e appoggiando la fronte al vetro appannato.
"Mi hai detto che lo avevi distrutto."
"Sbagliavo: ha distrutto me."
"Non credo che sia il mio quadro."
"Non riesci a vederci il tuo ideale?" disse Dorian con voce amara.
"Il mio ideale, come tu lo chiami..."
"Come tu lo chiamavi."
"Non aveva in sé nulla di malvagio, nulla di vergognoso. Tu per me rappresentavi un ideale che non troverò mai più. Questo è il volto di un satiro."
"È il volto della mia anima."
"Cristo! Che cosa devo avere adorato! Ha gli occhi di Un demonio."
"In ciascuno di noi, sono presenti l'inferno e il paradiso, Basil," esclamò Dorian con un gesto incontrollato di disperazione.
Hallward si voltò di nuovo verso il quadro e lo esaminò. "Mio Dio, se tutto questo è vero," esclamò, "e se questo è ciò che hai fatto della tua vita, allora devi essere anche peggiore di quel che immagina chi parla male di te!" Sollevò ancora la candela, avvicinandola alla tela, ed esaminò il dipinto. La superficie pareva intatta, come quando l'aveva finita. Evidentemente quella vergogna e quell'orrore venivano dall'interno. Per un singolare moto di vita interiore la lebbra del peccato stava lentamente mangiandosi il quadro. La putrefazione di un cadavere in una tomba piena d'acqua non era così spaventosa.
La mano gli tremò, la candela cadde dal bocciolo arrestandosi sul pavimento con un crepitio. Hallward la premette sotto il piede e la spense. Poi si lasciò cadere nella sedia traballante accanto al tavolo e seppellì il viso tra le mani.
"Buon Dio, Dorian, che lezione! Che tremenda lezione!" Non ottenne risposta, ma sentiva il giovane singhiozzare accanto alla finestra. "Prega, Dorian, prega," mormorò. "Che cosa ci hanno insegnato a dire durante l'infanzia? "Non indurci in tentazione, perdona le nostre colpe e liberaci dal male." Ripetiamolo insieme. La preghiera del tuo orgoglio è stata ascoltata. Sarà ascoltata anche la preghiera del tuo pentimento. Ti ho adorato troppo, e tutti e due siamo stati puniti."
Dorian Gray si voltò lentamente e lo guardò con occhi bagnati di lacrime. "È troppo tardi, Basil," disse balbettando.
"Non è mai troppo tardi, Dorian. Inginocchiamoci e cerchiamo di ricordare una preghiera. Non c'è un verso che dice, "anche se i tuoi peccati sono scarlatti, io li renderò bianchi come neve"?"
"Queste parole non significano più nulla per me."
"Zitto! Non dire queste cose. Hai fatto abbastanza male nella vita. Mio Dio! Non vedi quella maledetta cosa che ci guarda?"
Dorian Gray lanciò un'occhiata al quadro e improvvisamente fu assalito da un incontrollabile sentimento di odio nei confronti di Basil Hallward, come se glielo avesse suggerito l'immagine sulla tela, come se glielo avessero sussurrato quelle labbra ghignanti. Sentì agitarsi dentro di sé la selvaggia emozione di un animale inseguito e odiò l'uomo seduto al tavolo come non aveva mai odiato nessuno. Si guardò intorno con una luce selvaggia nello sguardo. Qualche cosa riluceva sul cassettone dipinto che aveva di fronte. L'occhio vi cadde sopra. Sapeva che cosa era. Era un coltello che, qualche giorno prima, aveva preso con sé per tagliare un pezzo di spago, dimenticando poi di riportarlo via. Vi si avvicinò lentamente, passando accanto a Basil. Appena fu giunto alle sue spalle, lo afferrò e si voltò. Hallward si mosse sulla sedia come se volesse alzarsi. Dorian Gray si precipitò su di lui e piantò il coltello nella grossa vena dietro l'orecchio, premendogli la testa sul tavolo e colpendolo ancora ripetutamente.
Si udì un rantolo soffocato e l'orribile gorgoglio di un uomo che soffoca nel sangue. Per tre volte Hallward alzò le braccia tese, agitando grottescamente le mani irrigidite. Lo colpì altre due volte, ma l'uomo non si mosse. Qualche cosa cominciò a gocciolare sul pavimento. Attese un momento sempre tenendo la testa premuta sul tavolo. Poi gettò il coltello sul tavolo e ascoltò.
Sentiva solo lo stillicidio del sangue sul tappeto logoro. Aprì la porta e uscì sul pianerottolo. La casa era del tutto tranquilla. Non si sentiva nessuno. Rimase qualche secondo chino sulla balaustra scrutando nel nero pozzo di oscurità ribollente. Poi tolse la chiave dalla serratura, ritornò nella stanza e vi si chiuse.
La cosa era sempre seduta sulla sedia, distesa sul tavolo a testa china, la schiena curva e le lunghe braccia irreali. Se non fosse stato per lo squarcio rosso e slabbrato sul collo e per la chiazza nera e grumosa che si allargava lentamente sul tavolo, si sarebbe detto che l'uomo dormisse semplicemente.
Come era successo tutto in fretta! Si sentiva stranamente calmo e, avvicinatosi alla finestra, la aprì e uscì sul balcone. Il vento aveva disperso la nebbia e il cielo era simile a un'enorme coda di pavone, costellata da miriadi di occhi d'oro. Guardò in basso e vide il poliziotto di ronda dirigere il lungo raggio della lanterna sulle porte delle case silenziose. La macchia cremisi di una carrozza in cerca di clienti luccicò all'angolo, poi scomparve. Una donna avvolta in uno scialle svolazzante scivolava lentamente, barcollando, vicino alla cancellata; ogni tanto si fermava e si guardava alle spalle. Poi cominciò a cantare con voce rauca. Il poliziotto le si avvicinò e le disse qualche cosa. Lei si allontanò a passi incerti, ridendo. Una fredda folata di vento spazzò la piazza. Le fiamme dei lampioni a gas tremolarono e assunsero un colore blu, gli alberi spogli agitarono i rami di nero acciaio. Rientrò rabbrividendo e chiuse la finestra dietro di sé.
Giunto alla porta, girò la chiave e aprì. Non lanciò neppure un'occhiata all'uomo assassinato. Sentiva che il segreto stava nel non rendersi conto della situazione L'amico, che aveva dipinto quel fatale ritratto responsabile di tutte le sue miserie era uscito dalla sua vita. Questo bastava.
Poi ricordò la lampada. Era un singolare esempio di artigianato moresco, in argento massiccio intarsiato con arabeschi di acciaio brunito e tempestato di turchesi grezze. Forse il cameriere ne avrebbe notato la mancanza e avrebbe fatto delle domande. Esitò un attimo, poi tornò indietro e la prese dal tavolo. Non poté fare a meno di vedere la cosa morta. Com'era immobile! E quelle lunghe mani orribilmente pallide! Assomigliava ad una spaventosa figura di cera.
Dopo aver chiuso la porta alle sue spalle, scese cautamente. Il legno scricchiolava e pareva emettere gemiti di sofferenza. Si fermò diverse volte e attese. No: tutto era tranquillo. Era solo il rumore dei suoi passi.
Quando fu nella biblioteca, vide in un angolo la borsa ed il soprabito. Bisognava nasconderli. Aprì un ripostiglio segreto nel rivestimento a pannelli, dove teneva nascosti i suoi strani travestimenti, e li ripose. Poi estrasse l'orologio: erano le due meno venti.
Sedette e cominciò a pensare. Tutti gli anni, quasi ogni mese, in Inghilterra venivano impiccati uomini per avere commesso quello che lui aveva fatto. Era passata nell'aria una follia omicida? Forse qualche stella rossa era passata troppo vicino alla terra... E tuttavia quali erano le prove contro di lui? Basil Hallward aveva lasciato la casa alle undici. Nessuno lo aveva visto rientrare. Quasi tutti i domestici erano a Selby Royal. Il suo cameriere era andato a letto... Parigi! Sì, Basil era andato a Parigi con il treno di mezzanotte, come aveva deciso. Con le sue strane abitudini riservate, sarebbero passati mesi prima che nascessero sospetti. Mesi! Era possibile distruggere tutto molto prima.
Un'idea improvvisa lo colpì. Indossò la pelliccia e il cappello e uscì nel vestibolo. Qui si fermò, sentendo il passo lento e pesante del poliziotto sul lastricato all'esterno e vedendo il raggio della lanterna cieca riflettersi nelle finestre. Attese trattenendo il respiro.
Pochi momenti dopo, aprì il chiavistello e scivolò fuori chiudendo delicatamente la porta alle sue spalle. Poi cominciò a suonare il campanello. Circa cinque minuti dopo il suo cameriere apparve, semivestito e molto assonnato.
"Mi dispiace di averti fatto alzare, Francis," disse, entrando, "ma ho dimenticato la chiave. Che ora è?"
"Le due e dieci, signore," rispose il cameriere, guardando l'orologio e socchiudendo gli occhi.
"Le due e dieci. È terribilmente tardi. Devi svegliarmi domani alle nove. Ho alcune cose da fare."
"Benissimo, signore."
"Mi ha cercato qualcuno, questa sera?"
"Il signor Hallward, signore. È rimasto qui fino alle undici, poi è andato a prendere il treno."
"Oh, mi dispiace di non averlo visto. Ha lasciato detto qualche cosa?"
"No, signore, solo che le avrebbe scritto da Parigi se non l'avesse trovata al club."
"Va bene, Francis. Non dimenticare di svegliarmi alle nove."
"No, signore"
L'uomo si allontanò lungo il corridoio ciabattando.
Dorian Gray gettò sul tavolo pelliccia e cappello ed entrò in biblioteca. Per un quarto d'ora camminò avanti e indietro nella stanza, mordendosi le labbra e riflettendo. Poi da uno degli scaffali prese il libro azzurro e cominciò a sfogliarlo. "Alan Campbell, 152 Hertford Street, Mayfair". Sì, questo era l'uomo di cui aveva bisogno.
XIV
Il mattino dopo, alle nove, il cameriere entrò con una tazza di cioccolata su un vassoio e aprì le imposte. Dorian dormiva pacificamente sul fianco destro, con una mano sotto la guancia. Sembrava un ragazzo che si fosse stancato giocando o studiando.
Il cameriere dovette toccarlo due volte sulla spalla prima che si svegliasse. Mentre apriva gli occhi, un debole sorriso gli sfiorò le labbra, come se si fosse smarrito in un sogno delizioso. In realtà non aveva sognato affatto. La notte non era stata turbata da immagini di piacere o di dolore. Ma la gioventù sorride senza motivo: è una delle sue principali attrattive.
Si voltò e, appoggiandosi sul gomito, cominciò a sorseggiare la cioccolata. Il dolce sole di novembre inondava la stanza. Il cielo era limpido e nell'aria c'era un piacevole tepore. Pareva quasi un mattino di maggio.
Un poco alla volta gli eventi della notte precedente si insinuarono nella sua mente con piedi bagnati di sangue e, pezzo a pezzo, ripresero forma, terribilmente precisi. Trasalì, ricordando quanto aveva sofferto, e per un momento tornò in lui quello strano sentimento di odio per Basil Hallward che lo aveva spinto a ucciderlo mentre era là seduto. Si sentì raggelare dall'emozione. Il morto era ancora là, sulla sedia, nella luce del sole. Che cosa orribile! Queste orribili cose erano fatte per la notte, non per il giorno.
Sentì che, se avesse continuato a rimuginare su quello che aveva passato, si sarebbe sentito male o sarebbe impazzito. Vi sono peccati il cui fascino sta più nel ricordo che nell'atto; strane vittorie che gratificano più l'orgoglio che le passioni e che danno all'intelletto un più vivo senso di piacere, superiore a qualunque piacere esse diano, o possano dare, ai sensi. Ma questo era diverso, era una cosa da scacciare dalla mente, da addormentare con l'oppio, da soffocare per non venirne soffocati.
Quando batté la mezza, si passò una mano sulla fronte, si alzò in fretta e si vestì con più cura del solito, scegliendo con molta attenzione la cravatta e la spilla e cambiando più volte gli anelli. Indugiò anche sulla colazione, assaggiando i vari piatti, parlando con il cameriere di certe nuove livree che intendeva far fare per la servitù di Selby e scorrendo la corrispondenza. Alcune lettere lo fecero sorridere, tre lo annoiarono, una la rilesse diverse volte e infine la strappò con una leggera espressione di fastidio. "Che cosa incredibile, la memoria di una donna!" come aveva detto una volta Lord Henry.
Dopo aver bevuto una tazza di caffè nero, si asciugò lentamente le labbra con un tovagliolo, ordinò con un cenno al cameriere di attendere, sedette alla scrivania e scrisse due lettere. Una la infilò in tasca, l'altra la consegnò al cameriere.
"Francis, portala al 152 di Hertford Street e, se il signor Campbell è fuori città, fatti dare il suo indirizzo."
Rimasto solo, accese una sigaretta e cominciò a fare degli schizzi su un foglio di carta, disegnando prima fiori, poi particolari architettonici, infine volti umani. Improvvisamente notò che ogni volto disegnato pareva avere un'incredibile rassomiglianza con Basil Hallward. Si accigliò e, alzatosi, si avvicinò a uno scaffale dove prese un libro a caso. Era deciso a non pensare all'accaduto finché non fosse assolutamente necessario.
Dopo essersi sdraiato sul divano, guardò il titolo del libro. Erano gli Émaux et Camées di Gauthier, nell'edizione Charpentier in carta giapponese con le acqueforti di Jacquemart. Era rilegato in pelle verde limone, con impresso un motivo di losanghe in oro e di melograni. Glielo aveva regalato Adrian Singleton. Mentre lo sfogliava, l'occhio gli cadde sulla poesia che parla della mano di Lacenaire, la fredda mano gialla "du supplice encore mal lavée", con la liscia peluria rossa e le "doigts de faune". Si guardò le bianche dita affusolate e, suo malgrado, rabbrividì. Passò oltre finché giunse a queste belle strofe su Venezia:
Sur une gamme chromatique
Le sein de perles ruisselant,
La Vénus de l'Adriatique,
Sort de l'eau son corps rose et blanc.
Les dômes, sur l'azur des ondes
Suivant la phrase au pur contour,
S'enflent comme des gorges rondes
Que soulève un soupir d'amour.
L'esquif aborde et me dépose
Jetant son amarre au pilier,
Devant une façade rose,
Sur le marbre d'un escalier.
Che versi squisiti! Leggendoli pareva di navigare lungo i verdi canali della città di rosa e di perla, seduti in una nera gondola dalla prua d'argento e dalle cortine fluttuanti. I singoli versi gli ricordavano quelle linee rette azzurro turchesi che ci seguono quando si prende il largo in direzione del Lido. Gli improvvisi lampi di colore gli ricordavano lo splendore degli uccelli dalla gola color dell'opale e dell'iris che frullano intorno all'alto campanile a forma di alveare, o che camminano con grazia così maestosa sotto gli archi scuri e polverosi. Disteso a occhi socchiusi, continuava a ripetere tra sé:
Devant une façade rose,
Sur le marbre d'un escalier.
Tutta Venezia era in questi due versi. Ricordò l'autunno che vi aveva passato e un amore meraviglioso che lo aveva spinto ad appassionate, deliziose follie. Lo spirito romantico si trova ovunque, ma Venezia, come Oxford, aveva conservato lo scenario, e per un romantico lo scenario è tutto, o quasi tutto. Basil era stato con lui per, un po' di tempo ed era impazzito per il Tintoretto. Povero Basil! Che morte orribile, la sua!
Sospirò, riprese in mano il libro e cercò di dimenticare. Lesse delle rondini che volano dentro e fuori dal piccolo caffè di Smirne, dove gli Hagi siedono sgranando i loro rosari di ambra e i mercanti in turbante fumano le lunghe pipe infiocchettate e parlano gravemente tra loro; lesse dell'obelisco di Place de la Concorde che piange lacrime di granito nel suo esilio solitario e senza sole e desidera ritornare sul caldo Nilo coperto di loto dove sono le sfingi, gli ibis rosso rosati, i bianchi avvoltoi dagli artigli d'oro e i coccodrilli dai piccoli occhi di berillo che strisciano sul verde fango fumante; cominciò a meditare su quei versi che, traendo musica dal marmo consunto dai baci, parlano della singolare statua da Gauthier paragonata a una voce di contralto: il "monstre charmant" che riposa nella camera di porfido del Louvre. Ma dopo un poco il libro gli cadde dalle mani. Si innervosì e fu colto da un tremendo accesso di terrore. Che cosa sarebbe successo se Alan Campbell non fosse stato in Inghilterra? Sarebbero trascorsi giorni prima che potesse ritornare. Forse avrebbe rifiutato di venire. Che cosa avrebbe potuto fare in questo caso? Ogni istante era di importanza vitale. Un tempo, cinque anni prima, erano stati grandi amici, quasi inseparabili. Poi la loro intimità era improvvisamente finita. Quando si incontravano in società solo Dorian Gray sorrideva: Alan Campbell mai.
Era un giovane estremamente intelligente, anche se non apprezzava veramente le arti figurative e quel poco di sensibilità estetica per la poesia lo aveva preso tutto da Dorian. La passione intellettuale che lo dominava era la scienza. A Cambridge, aveva trascorso la maggior parte del tempo nel lavoro di laboratorio e aveva ricevuto un ottimo punteggio nel concorso di scienze naturali del suo anno. Lo studio della chimica l'interessava ancora, e aveva un suo laboratorio nel quale era solito chiudersi per tutta la giornata con grande dispiacere della madre che sarebbe stata felice di vederlo presentarsi candidato al Parlamento e aveva la vaga idea che i chimici fossero una specie di farmacisti. Tuttavia, era anche un eccellente musicista e suonava il piano e il violino meglio di molti dilettanti. Proprio la musica li aveva avvicinati: la musica e quell'indefinibile attrazione che Dorian sembrava capace di esercitare quando voleva, e che infatti esercitava, spesso senza saperlo. Si erano incontrati da Lady Berkshire la sera in cui aveva suonato Rubinstein e da allora si erano visti sempre insieme all'Opera o ovunque si desse buona musica. La loro intimità era durata diciotto mesi. Campbell era sempre a Selby Royal o a Grosvenor Square. Per lui, come per altri, Dorian Gray era il modello di tutto ciò che vi è di meraviglioso e di affascinante nella vita. Nessuno seppe mai se tra loro fosse sorto un litigio o meno ma, improvvisamente, la gente cominciò a notare che, quando si incontravano, si parlavano appena e che Campbell pareva abbandonare presto ogni party in cui era presente Dorian Gray. Inoltre era cambiato: a volte era stranamente malinconico, sembrava quasi che non gli piacesse più ascoltare la musica. Non suonava più: quando lo pregavano di farlo si scusava dicendo che la scienza lo assorbiva a un punto tale che non aveva più tempo per tenersi in esercizio. Ed era certamente vero: sembrava interessarsi sempre di più alla biologia e qualche volta il suo nome appariva su riviste scientifiche a proposito di strani esperimenti.
Questo era l'uomo che Dorian Gray attendeva Ogni momento consultava l'orologio. Man mano che i minuti passavano la sua agitazione aumentava terribilmente. Alla fine si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza, come un bell'animale in gabbia. Camminava a passi lunghi e furtivi, le mani erano stranamente fredde.
L'attesa divenne insopportabile. Aveva l'impressione che il tempo avanzasse con i piedi di piombo, mentre ali mostruose lo sospingevano verso il bordo irregolare di una buia fenditura o di una voragine. Sapeva che cosa lo aspettava, anzi lo vedeva, e scosso da un tremito premette le mani sudate sulle palpebre ardenti, come se volesse rubare la vista alla sua stessa mente e schiacciare i bulbi oculari nelle orbite. Era inutile. La mente aveva un suo alimento che divorava avidamente e l'immaginazione, resa grottesca dal terrore, aggrovigliata e contorta come una creatura viva sofferente, danzava come un assurdo burattino con il ghigno di una maschera greca. Poi, improvvisamente, il tempo si fermò. Sì: quella cosa cieca, dal lento respiro, non strisciava più, era morta e gli orrendi pensieri corsero turbinando dinanzi a lui, estrassero dal suo sepolcro un futuro spaventoso e glielo mostrarono. Egli guardò e impietrì dall'orrore.
Finalmente la porta si aprì ed entrò il cameriere. Dorian portò su di lui uno sguardo vitreo.
"Il signor Campbell, signore," annunciò l'uomo.
Un sospiro di sollievo gli uscì dalle labbra secche e le guance ripresero colore.
"Fallo entrare subito, Francis." Si sentiva nuovamente se stesso: la crisi di paura era superata.
L'uomo fece un inchino e si ritirò. Pochi momenti dopo entrò Alan Campbell, pallido e con un'espressione di estrema severità. I capelli neri come il carbone e le sopracciglia scure ne accentuavano il pallore.
"Alan, sei stato molto gentile. Grazie per essere venuto."
"Avevo deciso di non entrare più in casa sua, Gray. Ma lei mi ha fatto dire che si trattava di una questione di vita o di morte." La voce era dura e fredda. Parlava lentamente, con decisione. Nel freddo sguardo indagatore che rivolse a Dorian Gray c'era un'espressione di disprezzo. Teneva le mani nelle tasche del cappotto di astrakan e sembrava non aver notato il gesto con cui era stato accolto.
"Sì, è una questione di vita o di morte, Alan, e per più di una persona. Siediti."
Campbell prese la sedia accanto alla tavola e Dorian sedette di fronte a lui. I loro occhi si incontrarono. In quelli di Dorian c'era un'infinità pietà. Sapeva che quello che stava per fare era spaventoso.
Dopo un prolungato silenzio, si chinò sul tavolo e disse, con molta tranquillità ma osservando l'effetto di ogni parola sul viso dell'uomo che aveva mandato a chiamare: "Alan, in una stanza chiusa, all'ultimo piano di questa casa, una stanza nella quale solo io posso entrare, c'è un morto seduto ad un tavolo. È morto da dieci ore, ormai. Non agitarti e non guardarmi in quel modo. Chi sia l'uomo, perché è morto, come è morto, non sono cose che ti interessano. Quello che tu devi fare è..."
"Basta, Gray. Non voglio sapere nient'altro. Se quello che lei ha detto è vero o no, non è cosa che mi riguarda. Rifiuto assolutamente di immischiarmi nella sua vita. Tenga per lei i suoi orribili segreti. Non mi interessano più."
"Devono interessarti, Alan. Questo dovrà interessarti. Sono terribilmente spiacente per te, Alan, ma non posso farne a meno: sei l'unico in grado di salvarmi. Sono costretto a coinvolgerti in questa faccenda, non ho scelta. Alan, tu sei uno scienziato, conosci la chimica e roba simile. Hai fatto esperimenti. Quel che devi fare è semplicemente distruggere la cosa che c'è di sopra, distruggerla in modo che non ne rimanga traccia. Nessuno l'ha visto entrare in questa casa. Anzi, in questo momento si pensa che sia a Parigi. La sua mancanza non verrà notata per mesi. Quando se ne accorgeranno, bisogna che qui non si trovi nessuna traccia di lui. Tu, Alan, devi trasformare lui e tutto ciò che gli appartiene in un pugno di cenere che io possa disperdere nell'aria."
"Sei pazzo, Dorian."
"Ah! Aspettavo che mi dessi del tu."
"Sei pazzo, ti dico... pazzo a immaginare che avrei sollevato un dito per aiutarti, pazzo a farmi questa mostruosa confessione. Non voglio aver nulla a che fare con questa faccenda, qualunque sia. Credi che voglia mettere in pericolo la mia reputazione per te? Che cosa mi importa di questa diabolica faccenda in cui ti sei cacciato?"
"È stato un suicidio, Alan."
"Me ne rallegro. Ma chi lo ha spinto a questo? Tu, immagino."
"Insisti nel rifiutare di fare quel che ti ho chiesto ?"
"Certo che rifiuto. Non voglio averci assolutamente nulla a che fare. Non mi importa nulla della vergogna che può venirtene. Te la meriti tutta. Non mi dispiacerebbe vederti disonorato, pubblicamente disonorato. Come osi chiedere a me, proprio a me, di immischiarmi in questa orribile cosa? Pensavo che tu conoscessi meglio il carattere umano. Il tuo amico Lord Henry Wotton non deve averti insegnato molto in fatto di psicologia, qualunque altro cosa possa averti insegnato. Nulla mi indurrà ad accennare un passo per aiutarti. Non hai scelto la persona adatta. Va' da qualcuno dei tuoi amici, non venire da me."
"Alan, è stato un assassinio. L'ho ucciso. Non immagini che cosa mi ha fatto soffrire. Quale che sia la mia vita, la sua responsabilità, nel farla o nel rovinarla, è stata molto maggiore di quella del povero Harry. Può darsi che non lo abbia voluto, ma il risultato è stato lo stesso."
"Un assassinio! Buon Dio, Dorian, sei arrivato a questo? Non ti denuncerò, la cosa non mi riguarda. Del resto, se non mi occupassi di questa faccenda ti arresterebbero certamente: nessuno commette un delitto senza fare qualche stupidaggine, ma io non voglio averci nulla a che fare."
"Devi averci a che fare. Aspetta un momento; ascoltami. Ascolta soltanto, Alan. Ti chiedo solo di compiere un certo esperimento scientifico. Tu entri negli ospedali e negli obitori e le cose orribili che fai là dentro non ti fanno nessun effetto. Se in qualche ripugnante sala di dissezione o in qualche fetido laboratorio, trovassi quest'uomo disteso su un tavolo di piombo con intorno dei canaletti rossi per far scorrere il sangue, ti limiteresti a ritenerlo un esemplare interessante. Non batteresti ciglio. Non penseresti affatto di fare qualche cosa di male. Al contrario, probabilmente avresti l'impressione di giovare alla specie umana, di aumentare la conoscenza del mondo, di gratificare la tua curiosità intellettuale, o qualche cosa di simile. Io ti chiedo solo di fare una cosa che hai fatto molte altre volte. Distruggere un cadavere deve essere molto meno orribile delle cose che sei solito fare. E, ricorda, è l'unica prova esistente contro di me. Se la scoprono, sono perduto, e verrò certamente scoperto se non mi aiuti."
"Non ho nessuna voglia di aiutarti, dimentichi questo. Tutta questa storia mi lascia semplicemente indifferente. Non mi riguarda affatto."
"Alan, ti supplico. Pensa alla situazione in cui mi trovo. Fino a un attimo prima che tu venissi, ero quasi svenuto di terrore. Un giorno potresti trovarti anche tu nella stessa situazione. No! Non pensare a questo. Cerca di vedere la cosa sotto l'aspetto puramente scientifico. Non ti chiedi da dove provengano i morti sui quali compi i tuoi esperimenti. Non domandartelo nemmeno ora. Ti ho già detto anche troppo. Ma ti prego di farlo. Una volta eravamo amici, Alan."
"Non parlare di quei tempi, Dorian: sono morti."
"A volte i morti se ne vanno in giro. L'uomo di sopra non se ne andrà. È seduto al tavolo con la testa reclinata e le braccia distese. Alan, Alan, se non mi vieni in aiuto sono rovinato. Pensa, mi impiccheranno, Alan! Non capisci? Mi impiccheranno per quel che ho fatto."
"È inutile tirare in lungo questa scena. Rifiuto assolutamente di occuparmi di questa faccenda. È pazzesco che tu me lo chieda."
"Ti rifiuti?"
"Sì."
"Te ne supplico, Alan."
"È inutile."
La stessa espressione di pietà ritornò negli occhi di Dorian Gray. Quindi allungò una mano, prese un pezzo di carta e vi scrisse qualche cosa. Lo lesse due volte, lo piegò con cura e lo spinse attraverso la tavola. Fatto questo, si alzò e andò alla finestra.
Campbell lo guardò sorpreso, poi prese il foglio e lo aprì. Mentre lo leggeva, sul volto gli apparve un pallore mortale. Ricadde a sedere e fu sopraffatto da un orribile senso di nausea. Aveva l'impressione che il cuore pulsasse fino a scoppiare in una vuota cavità.
Dopo un paio di minuti di terribile silenzio, Dorian si volse, gli si avvicinò e si fermò dietro di lui posandogli una mano sulla spalla.
"Mi dispiace moltissimo per te, Alan," mormorò, "ma non mi hai lasciato altra scelta. Ho già scritto una lettera: eccola. L'indirizzo lo vedi. Se non mi aiuti", sarò costretto a spedirla. Sai quali saranno le conseguenze. Ma tu mi aiuterai. Non puoi rifiutare, adesso. Ho cercato di risparmiarti. Sarai tanto onesto da ammetterlo. Sei stato severo, aspro, offensivo. Mi hai trattato come nessuno ha mai osato trattarmi... nessuno che sia vivo, almeno. Ho sopportato tutto. Adesso sono io a dettare le condizioni."
Campbell seppellì il volto tra le mani, scosso da un brivido.
"Sì, sono io a dettare le condizioni, Alan. Sai quali sono. La cosa è semplicissima. Avanti, non perdere il controllo dei nervi. La cosa deve essere fatta. Affrontala e falla."
Un gemito sfuggì dalle labbra di Campbell; un tremito lo scuoteva tutto. Il ticchettio dell'orologio sulla mensola del caminetto gli pareva dividesse il tempo in atomi separati di sofferenza, ognuno troppo spaventoso per essere sopportato. Gli parve che un anello di ferro gli si stringesse lentamente intorno alla fronte, come se la disgrazia che lo minacciava fosse già avvenuta. La mano sulla spalla pesava come se fosse di piombo. Era insostenibile, sembrava schiacciarlo.
"Avanti, Alan, devi decidere immediatamente."
"Non posso farlo," disse meccanicamente, come se le parole potessero modificare le cose.
"Devi. Non hai scelta. Non perdere tempo."
Campbell esitò un momento. "C'è del fuoco nella stanza?"
"Sì, una stufa a gas con il corpo di amianto."
"Devo andare a casa a prendere alcune cose in laboratorio."
"No, Alan, non devi lasciare questa casa. Scrivi su un foglio quello che ti occorre e il mio servo prenderà una carrozza e lo porterà qui."
Campbell scarabocchiò alcune righe, le asciugò con la carta assorbente e scrisse su una busta l'indirizzo del suo assistente. Dorian Gray prese il biglietto e lo lesse con attenzione. Poi suonò il campanello, consegnò la busta al cameriere, ordinandogli di tornare il più presto possibile, e di portare le cose con sé.
Quando la porta di casa si chiuse, Campbell ebbe uno scatto e, alzatosi, si diresse verso il caminetto. Tremava come se avesse un attacco di malaria. Per circa venti minuti nessuno dei due pronunciò parola. Una mosca ronzava fastidiosamente nella stanza e i battiti dell'orologio sembravano colpi di martello.
Quando la pendola suonò l'una, Campbell si voltò e, lanciando un'occhiata a Dorian Gray, vide che aveva gli occhi pieni di lacrime. Nella purezza e nella perfezione di quel volto triste c'era qualche cosa che lo fece arrabbiare. "Sei infame, assolutamente infame!" mormorò.
"Zitto, Alan: mi hai salvato la vita," disse Dorian.
"La vita? Santo cielo! Che razza di vita! Sei passato di corruzione in corruzione, e adesso culmini in un delitto. Facendo quel che stai per fare - che mi costringi a fare - non è alla tua vita che penso."
"Ah, Alan," mormorò Dorian con un sospiro, "vorrei che tu provassi per me un millesimo della pietà che io provo per te." Mentre pronunciava queste parole si voltò e rimase immobile, guardando fuori, nel giardino. Campbell non rispose.
Dopo circa dieci minuti si sentì bussare alla porta ed entrò il cameriere con una grande cassa di mogano piena di prodotti chimici, una lunga serpentina di acciaio, un rotolo di filo di platino e due morsetti di ferro di forma insolita.
"Devo lasciare tutto qui, signore?" domandò a Campbell.
"Sì," disse Dorian. "E temo di avere un'altra incombenza per te, Francis. Come si chiama quell'uomo di Richmond che fornisce le orchidee a Selby?"
"Harden, signore."
"Già, Harden. Devi andare subito a Richmond, parlargli personalmente, dirgli di mandare il doppio delle orchidee che ho ordinato, e di metterne il meno possibile di bianche. Anzi, di bianche non ne voglio. È una bella giornata, Francis, e Richmond è un bel posto, altrimenti non ti infastidirei con questa cosa."
"Nessun fastidio, signore. Per che ora devo tornare?"
Dorian guardò Campbell. "Quanto tempo ci vorrà per il tuo esperimento, Alan?" domandò con voce calma e indifferente. La presenza di una terza persona nella stanza sembrava dargli un coraggio straordinario.
Campbell aggrottò le sopracciglia e si morse un labbro. "Ci vorranno cinque ore circa," rispose.
"Allora, sarà sufficiente che tu sia di ritorno per le sette e mezzo, Francis. Anzi, aspetta: basta che tu tiri fuori il mio vestito da sera, poi sarai libero per tutta la serata. Non ceno a casa, quindi non avrò bisogno di te."
"Grazie, signore," disse l'uomo e uscì.
"Adesso, Alan, non c'è un momento da perdere. Com'è pesante questa cassa! Te la porto io. Tu prendi le altre cose." Parlava rapidamente, in tono autoritario. Campbell si sentiva soggiogato. Lasciarono insieme la stanza.
Quando furono giunti sul pianerottolo dell'ultimo piano, Dorian levò di tasca la chiave e la girò nella toppa. Poi si fermò e un'espressione turbata gli apparve negli occhi. Rabbrividì. "Non credo di poter entrare, Alan," mormorò.
"Non importa, non ho bisogno di te," disse Campbell freddamente.
Dorian socchiuse la porta. Nel farlo vide il viso ghignante del ritratto nella luce del sole. Sul pavimento, davanti ad esso, era ammucchiato il drappo che aveva strappato. Ricordò che la notte precedente, per la prima volta in vita sua, aveva dimenticato di nascondere la tela fatale. Stava per precipitarsi a farlo quando arretrò con un brivido.
Che cos'era quella disgustosa rugiada rossa che brillava, umida e lucente, su una delle mani, come se la tela sudasse sangue? Com'era terribile!... ancor più orribile, gli sembrò in quel momento, della cosa silenziosa che sapeva riversa sulla tavola, quella cosa la cui ombra, grottesca e informe sul tappeto macchiato, mostrava che non si era mossa ma era ancora lì, come l'aveva lasciata.
Trasse un profondo respiro, aprì un poco di più la porta e, con gli occhi semichiusi, distogliendo il viso, entrò rapidamente deciso a non posare nemmeno per un attimo gli occhi sul cadavere. Poi, chinatosi, afferrò il drappo e lo gettò sul quadro.
Si fermò, timoroso di voltarsi, con gli occhi fissi sul complicato ricamo che aveva davanti. Sentì Campbell trascinare all'interno la pesante cassa, i ferri e gli altri strumenti necessari per il suo terribile lavoro. Cominciò a chiedersi se lui e Basil Hallward si fossero mai conosciuti e che cosa pensassero l'uno dell'altro.
"Adesso lasciami," disse una voce severa alle sue spalle. Si voltò e uscì in fretta, appena consapevole del fatto che il morto era stato rialzato contro la sedia e che Campbell stava esaminandone il volto giallo e lucente. Mentre scendeva le scale sentì girare la chiave nella toppa.
Le sette erano passate da un pezzo quando Campbell ritornò in biblioteca. Era pallido, ma perfettamente calmo. "Ho fatto quello che mi hai chiesto," mormorò. "E adesso, addio. Facciamo in modo di non vederci più."
"Mi hai salvato dalla rovina, Alan. Non me ne dimenticherò," disse Dorian, semplicemente.
Appena Campbell fu uscito, salì di sopra. Nella stanza c'era un orribile odore di acido nitrico. Ma la cosa che era stata seduta al tavolo era scomparsa.
XV
Quella sera, alle otto e mezzo, Dorian Gray, elegantissimo e con un mazzetto di violette di Parma all'occhiello, entrò nel salotto di Lady Narborough tra gli inchini dei camerieri. Sulla fronte sentiva sussultare, i nervi impazziti e si sentiva in preda a un'eccitazione selvaggia, Ma mentre si chinava sulla mano della sua ospite, i suoi modi erano come sempre sciolti e pieni di grazia. Forse non ci si sente mai a proprio agio come quando si recita una parte. Certo quella sera nessuno, guardando Dorian Gray, avrebbe potuto credere che era appena uscito da una tragedia orribile, come tutte le tragedie del nostro tempo. Non era possibile che quelle dita sottili avessero afferrato un coltello per commettere un delitto, né che quelle labbra sorridenti avessero bestemmiato contro Dio e contro la bontà. Lui stesso non poteva fare a meno di meravigliarsi della propria calma e per un momento provò acutamente il piacere di vivere una doppia vita.
Al party c'era poca gente, messa insieme in fretta da Lady Narborough, una donna molto intelligente, dotata di quelli che Lord Henry era solito chiamare i resti di una bruttezza davvero notevole. Si era dimostrata moglie eccellente di uno dei nostri ambasciatori più noiosi e, dopo aver sepolto correttamente il marito in un mausoleo di marmo da lei stessa ideato, aveva maritato le figlie a degli uomini più ricchi e piuttosto anziani e si era data ai piaceri del romanzo francese, della cucina francese e dell'esprit francese, quando riusciva a capirlo.
Dorian era uno dei suoi favoriti: gli diceva sempre che era estremamente felice di non averlo incontrato in gioventù. "Sono sicura, mio caro, che mi sarei follemente innamorata di lei," era solita dire, "e per lei "avrei lasciato il cappello dietro il mulino". È stata una grande fortuna che, a quel tempo, lei non fosse nemmeno un'intenzione. Del resto, i nostri cappelli erano così brutti e i nostri mulini erano così occupati a far vento, che non ho mai avuto nemmeno un flirt. Comunque, è stata tutta colpa di Narborough. Era tremendamente miope e non c'è nessun gusto quando si ha un marito che non vede nulla."
Gli ospiti della serata erano piuttosto noiosi. Il fatto era, come spiegò a Dorian Gray dietro un ventaglio piuttosto male in arnese, che una delle figlie sposate era venuta improvvisamente a stare per qualche tempo con lei e, per peggiorare le cose, aveva portato il marito. "Credo proprio che sia stato poco gentile da parte sua, mio caro," sussurrò. "È vero che d'estate sono loro ospite quando ritorno da Homburg, ma dopotutto una vecchia come me deve prendere un po' d'aria fresca ogni tanto e d'altra parte li rianimo un po'. Non immagina che vita fanno laggiù. Pura e intatta vita di campagna. Si alzano presto perché hanno moltissimo da fare e vanno a letto presto perché hanno pochissimo da pensare. Non c'è stato uno scandalo nelle vicinanze dai tempi della regina Elisabetta e così si addormentano subito dopo pranzo. Non deve mettersi vicino a nessuno dei due, lei si metterà vicino, a me e mi farà divertire."
Dorian mormorò un complimento gentile e si guardò intorno. Sì, era proprio un party noioso. C'erano due ospiti che non aveva mai visto; gli altri erano Ernest Harrowden, una di quelle mediocrità di mezza età che sono così comuni nei club londinesi, privi di nemici, ma accuratamente antipatici agli amici; Lady Ruxton, una donna sui quarantasette vestita con troppo lusso, con il naso a becco, che cercava continuamente di compromettersi, ma così scialba che, con suo grande disappunto, nessuno avrebbe mai pensato qualcosa di male sul suo conto; la signora Erlynne, un'arrivista senza qualità, con una deliziosa balbuzie e i capelli rosso veneziano; Lady Alice Chapman, figlia dell'ospite, una ragazza ottusa e malvestita; con una di quelle caratteristiche facce britanniche che una volte viste non si ricordano mai più, e il marito, un essere rubizzo dalle basette bianche che, come molti della sua classe, pensava che una giovialità disordinata possa compensare un'assoluta mancanza di idee.
Era piuttosto pentito di essere venuto, quando Lady Narborough guardando il grande orologio di bronzo dorato, adagiato in ricche volute sulla mensola del camino coperta da un panno mauve, esclamò: "È indecente, da parte di Henry Wotton, arrivare così in ritardo! L'ho fatto avvertire stamattina sperando di trovarlo, e mi ha assicurato che non mi avrebbe delusa."
Il fatto che Henry dovesse arrivare lo consolò, e quindi, quando la porta si aprì e Dorian udì la voce lenta e musicale dare una veste affascinante a una falsa scusa, non si sentì più annoiato.
Ma a pranzo non riuscì a mangiare nulla. I Piatti passavano uno dopo l'altro senza che li toccasse. Lady Narborough continuava a sgridarlo per quello che chiamava "un insulto al povero Adolphe, che ha composto il menù apposta per lei" e, di tanto in tanto, Lord Henry gli lanciava un'occhiata, stupito del suo silenzio e dei suoi modi distratti. Ogni tanto il cameriere gli riempiva il bicchiere di champagne. Beveva avidamente ma la sete sembrava aumentare di continuo.
"Dorian," disse Lord Henry alla fine, mentre veniva servito lo chaud-froid, "che cosa ti succede, stasera? Mi sembri di pessimo umore."
"Credo che sia innamorato," esclamò Lady Narborough, "ma che abbia paura di dirmelo perché teme che io sia gelosa. Ha assolutamente ragione: lo sarei di certo."
"Cara Lady Narborough," mormorò Dorian sorridendo, "è da una settimana che non sono innamorato... da quando è partita Madame Ferrol."
"Mi domando come facciate, voi uomini, a innamorarvi di quella donna!" esclamò la vecchia signora. "Non riesco proprio a capirlo."
"Semplicemente, perché assomiglia a lei da bambina, Lady Narborough,", disse Lord Henry. "È l'unico legame che rimane tra noi e i suoi vestitini."
"Non ricorda proprio per niente i miei vestitini, Lord Henry. Ma la ricordo benissimo a Vienna trent'anni fa e ricordo anche l'ampiezza dei suoi décolletés."
"L'ampiezza c'è ancora," disse Lord Henry prendendo un'oliva con le lunghe dita; "e quando è molto elegante ricorda l'edition de luxe di un brutto romanzo francese. È davvero stupefacente e piena di sorprese. L'intensità dei suoi affetti familiari è straordinaria: quando morì il suo terzo marito divenne completamente bionda per il dispiacere."
"Henry, come puoi... !" esclamò Dorian Gray.
"È una spiegazione molto romantica," rise l'ospite. "Ma, il suo terzo marito, Lord Henry! Non vorrà dire che Ferrol è il quarto."
"Certo, Lady Narborough."
"Non ci credo assolutamente."
"Bene, lo chieda al signor Gray. È uno dei suoi più intimi amici."
"È vero, signor Gray?"
"Me lo ha assicurato lei, Lady Narborough," disse Dorian. "Le ho domandato se, come Margherita di Navarra, aveva fatto imbalsamare i loro cuori e li aveva appesi alla cintura. Mi ha detto che non lo aveva fatto perché nessuno di loro aveva un cuore."
"Quattro mariti! Parola mia, questo si chiama trop de zèle."
"Trop d'audace, io le ho detto," disse Dorian Gray.
"Oh, Madame Ferrol è audace in tutto, mio caro. E che tipo è il marito? Non lo conosco."
"I mariti delle donne molto belle appartengono alla categoria dei criminali," disse Lord Henry sorseggiando il vino.
Lady Narborough lo colpì con il ventaglio. "Lord Henry, non mi sorprende affatto che il mondo dica che lei è estremamente maligno."
"Ma quale mondo?" domandò Lord Henry, alzando le sopracciglia. "Non può essere che l'altro mondo, dato che questo mondo ed io siamo in ottimi rapporti."
"Tutti quelli che conosco dicono che lei è molto maligno," esclamò la vecchia signora, scuotendo il capo.
Lord Henry prese per un momento un'aria seria. "È assolutamente mostruoso," disse alla fine, "il modo che ha oggi la gente di dire alle nostre spalle cose che sono assolutamente e completamente vere."
"Non è incorreggibile?" esclamò Dorian Gray, piegandosi sulla sedia.
"Lo spero," disse la sua ospite ridendo. "Ma davvero se tutti voi adorate Madame Ferrol in questo modo ridicolo, sarò costretta a sposarmi per essere di moda."
"Lei non si sposerà più, Lady Narborough," interruppe Lord Henry. "È troppo felice. Quando una donna si risposa lo fa perché detestava il primo marito. Quando si risposa un uomo, lo fa perché adorava la prima moglie. Le donne mettono alla prova la loro fortuna, gli uomini la mettono a repentaglio."
"Narborough non era perfetto," disse la vecchia signora.
"Se lo fosse stato, lei non l'avrebbe amato, mia cara," fu la risposta, "Le donne ci amano per i nostri difetti. Se ne abbiamo a sufficienza, ci perdonano tutto, persino l'intelligenza. Dopo aver detto queste cose, temo che lei non mi inviterà più a pranzo, Lady Narborough; comunque sono cose vere."
"Certo che sono cose vere, Lord Henry. Se noi donne non vi amassimo per i vostri difetti, che cosa sarebbe di tutti voi? Nessuno di voi si sposerebbe. Sareste una massa di disgraziati scapoli. Non è che con questo le cose cambierebbero molto: di questi tempi tutti gli uomini sposati vivono da scapoli e tutti gli scapoli da sposati."
"Fin de siècle," mormorò Lord Henry.
"Fin du globe," replicò la padrona di casa.
"Vorrei che fosse davvero fin du globe," disse Dorian con un sospiro. "La vita è una grande delusione."
"Ah, mio caro," disse Lady Narborough infilandosi i guanti, "non mi dica che ha esaurito la vita. Quando un uomo dice una cosa simile, si è sicuri che la vita ha esaurito lui. Lord Henry è molto maligno e a volte vorrei esserlo stata anch'io: ma lei è fatto per essere buono, ha l'aria di esserlo. Devo trovarle una bella moglie. Lord Henry, non pensa che il signor Gray dovrebbe sposarsi?"
"Glielo dico sempre, Lady Narborough," disse Lord Henry con un inchino.
"Bene, dobbiamo cercargli un partito conveniente. Stasera sfoglierò attentamente il Debrett e ne tirerò fuori una lista di tutte le giovani fanciulle desiderabili."
"Con le rispettive età, Lady Narborough?" domandò Dorian.
"Naturalmente, con le rispettive età, in edizione leggermente riveduta. Ma non bisogna agire frettolosamente. Voglio che sia quello che il Morning Post chiamerebbe un matrimonio ben assortito, e voglio che siate felici tutti e due."
"Quante assurdità si dicono sui matrimoni felici!" esclamò Lord Henry. "Un uomo può essere felice con qualsiasi donna, finché non ne è innamorato."
"Ah! Che cinico!" esclamò la vecchia signora, scostando la sedia e facendo un cenno a Lady Ruxton. "Deve ritornare presto a cena da me. Lei è veramente un tonico straordinario, molto meglio di quello che mi prescrive Sir Andrew. Deve dirmi chi le piacerebbe incontrare. Voglio che sia una riunione piacevolissima."
"Mi piacciono gli uomini che hanno un futuro e le donne che hanno un passato," rispose Lord Henry. "O pensate che sarebbe un party di sole sottane?"
"Temo di sì," rispose la donna ridendo e si alzò. "Mille scuse, mia cara Lady Ruxton," aggiunse. "Non mi ero accorta che non aveva finito la sigaretta."
"Non importa, Lady Narborough. Fumo troppo. Ho intenzione di controllarmi, in futuro."
"Non lo faccia, per favore, Lady Ruxton," disse Lord Henry. "La moderazione è fatale. L'abbastanza è cattivo come un pasto, il troppo è buono come un banchetto."
Lady Ruxton lo guardò interessata. "Deve venire qualche pomeriggio a casa mia a spiegarmelo, Lord Henry. Mi pare una teoria affascinante," mormorò e scivolò fuori dalla stanza.
"Adesso, cercate di non discutere troppo di quella vostra politica e di scandali," esclamò Lady Narborough dalla porta. "Altrimenti, di sopra litigheremo di sicuro."
Gli uomini risero e il signor Chapman si alzò solennemente, spostandosi da un estremo all'altro della tavola. Dorian Gray cambiò posto e andò a sedere accanto a Lord Henry. Il signor Chapman cominciò a parlare a voce alta della situazione alla Camera dei Comuni, dileggiando i suoi avversari. La parola doctrinaire, parola terrorizzante per una mente inglese, riappariva di tanto in tanto tra le sue esplosioni di risa. Un prefisso allitterativo serviva da ornamento alla sua retorica. Issò l'Union Jack sui pinnacoli del pensiero. L'ereditaria stupidità della razza - da lui giovialmente definita sano buonsenso inglese - venne presentata come il giusto baluardo della società.
Un sorriso incurvò le labbra di Lord Henry che si voltò verso Dorian osservandolo.
"Ti senti meglio, caro amico?" domandò. "A cena sembravi piuttosto di malumore."
"Sto benissimo, Harry. Sono stanco. Tutto qui."
"Ieri sera eri affascinante. La piccola duchessa ti è completamente devota. Mi ha detto che verrà a Selby."
"Mi ha promesso di venire il venti."
"Ci sarà anche Monmouth?"
"Oh, sì, Harry."
"È terribilmente noioso, per me, quasi quanto per lei. Lei è molto intelligente, troppo per una donna. Le manca il fascino indefinibile della debolezza. Sono i piedi d'argilla che valorizzano l'oro della statua. I suoi piedi sono molto graziosi, ma non sono d'argilla. Piedi di porcellana bianca, se vuoi. Sono passati attraverso il fuoco e quello che il fuoco non distrugge, indurisce. Ha avuto delle esperienze."
"Da quanto tempo è sposata?" domandò Dorian.
"Da un'eternità, mi ha detto. Credo da dieci anni, stando all'almanacco nobiliare, ma dieci anni con Monmouth devono essere un'eternità più un po' di tempo ancora. Chi saranno gli altri?"
"Oh, i Willoughby, Lord Rugby con la moglie, la nostra ospite, Geoffrey Clouston: il solito giro. Ho chiesto a Lord Grotrian di venire."
"Mi è simpatico," disse Lord Henry, "a moltissimi non lo è, ma io lo trovo piacevole. Si fa perdonare il fatto di essere qualche volta un po' troppo ben vestito, con quello di essere sempre troppo ben educato. È un tipo molto moderno."
"Non so se potrà venire, Harry. Forse dovrà andare a Montecarlo con il padre."
"Ah, che seccatura i parenti! Cerca di farlo venire. A proposito, Dorian, te ne sei scappato molto presto ieri sera, prima delle undici. Che cosa hai fatto dopo? Sei andato subito a casa?"
Dorian gli lanciò una rapida occhiata, accigliandosi. "No, Harry," disse alla fine, "sono stato fuori fino alle tre circa."
"Sei andato al club?"
"Sì," rispose. Poi si morse un labbro. "No, non intendevo questo, non sono stato al club. Sono andato in giro. Ho dimenticato cosa ho fatto... Come sei indiscreto, Harry! Vuoi sempre sapere che cosa fa la gente. Io cerco sempre di dimenticare quel che ho fatto. Sono rientrato alle due e mezzo, se vuoi sapere l'ora precisa. Avevo dimenticato la chiave a casa e ha dovuto aprirmi il mio cameriere. Se vuoi una testimonianza che appoggi la mia dichiarazione, puoi domandarglielo."
Lord Henry si strinse nelle spalle. "Mio caro amico, come se me ne importasse qualche cosa! Andiamo in salotto. Niente sherry, grazie, signor Chapman. Ti è successo qualche cosa, Dorian. Dimmi di che cosa si tratta. Questa sera non sei il solito."
"Non badare a me, Harry. Sono nervoso e di cattivo umore. Verrò a trovarti domani o dopo. Fa' le mie scuse a Lady Narborough. Non vengo di sopra, vado a casa. Devo andare a casa."
"D'accordo, Dorian. Penso che ti vedrò domani all'ora del tè. Ci sarà anche la duchessa."
"Cercherò di venire, Harry," disse Dorian lasciando la stanza. Mentre tornava a casa in carrozza si rese conto che il senso di terrore che credeva di aver soffocato, lo aveva nuovamente sopraffatto. Le domande casuali di Lord Henry per un momento gli avevano fatto perdere il controllo dei nervi e voleva averli saldi. Bisognava distruggere alcune cose pericolose. Rabbrividì: solo l'idea di toccarle gli dava un estremo fastidio.
Tuttavia era necessario. Se ne rese conto e, dopo aver chiuso a chiave la porta della biblioteca, aprì il ripostiglio segreto nel quale aveva nascosto il cappotto e la borsa di Basil Hallward. Nel caminetto ardeva un grande fuoco. Vi gettò un altro ceppo. L'odore della stoffa e del cuoio che bruciavano era orribile. Ci vollero tre quarti d'ora prima che tutto fosse consumato. Alla fine si sentì fiacco e nauseato. Accese alcune pastiglie algerine in un braciere di rame traforato e bagnò mani e fronte con fresco aceto muschiato.
Improvvisamente sussultò. Gli occhi assunsero una strana luminosità e si morse nervosamente il labbro inferiore. Tra due finestre c'era un grande stipo fiorentino di ebano intarsiato di avorio e lapislazzuli blu. Lo guardò come se fosse una cosa a un tempo affascinante e spaventosa, come se contenesse qualche cosa di cui fosse bramoso e, insieme, disgustato. Fu sopraffatto da una folle bramosia. Accese una sigaretta, poi la gettò via. Le palpebre si abbassarono finché le lunghe frange delle ciglia gli sfiorarono le guance. Ma continuava a fissare lo stipo. Alla fine si alzò dal divano dove era sdraiato, si avvicinò al mobile e toccò una molla nascosta. Un cassetto triangolare uscì lentamente. Le sue dita si avvicinarono istintivamente, vi entrarono, si chiusero su qualche cosa. Era una piccola scatola cinese di lacca nera e oro minutamente lavorata, i fianchi erano decorati a motivi ondulati; dalla scatoletta pendevano due cordoncini di seta, intrecciati con filo metallico terminanti in due cristalli rotondi. L'aprì. Conteneva una pasta verde, lucente come cera, dall'odore stranamente greve e persistente.
Esitò qualche istante, con un sorriso stranamente immobile sul volto. Poi, rabbrividì, sebbene nella stanza ci fosse un caldo terribile, si raddrizzò e guardò l'orologio. Mancavano venti minuti a mezzanotte. Rimise la scatoletta al suo posto, richiuse il cassetto e si trasferì in camera da letto.
A mezzanotte, mentre nell'aria nebbiosa vibravano rintocchi di bronzo, Dorian Gray indossò un abito modesto, mise una sciarpa al collo e scivolò silenziosamente fuori di casa. In Bond Street trovò una carrozza con un buon cavallo. La chiamò con un cenno e a bassa voce diede un indirizzo al vetturino.
L'uomo scosse il capo. "Troppo lontano per me," brontolò.
"Ecco una sovrana," disse Dorian. "Se va in fretta ne avrà un'altra."
"D'accordo, signore," disse l'uomo, "ci sarà entro un'ora." E, dopo aver intascato il prezzo della corsa, fece girare il cavallo e si avviò rapido verso il fiume.
XVI
Cominciò a cadere una pioggia fredda; i lampioni offuscati proiettavano una luce debole nella bruma mista a pioggia. I locali pubblici stavano chiudendo e gruppi indistinti di uomini e donne si andavano raccogliendo davanti agli ingressi. Da qualche bar provenivano orribili scoppi di risa. In altri, degli ubriachi si azzuffavano e gridavano.
Adagiato contro il fondo della carrozza, con il cappello abbassato sulla fronte, Dorian Gray osservava distrattamente la sordida vergogna della grande città e, di tanto in tanto, ripeteva tra sé le parole che Lord Henry gli aveva detto il primo giorno del loro incontro, "Curare l'anima con i sensi e i sensi con l'anima". Sì, questo era il segreto. Lo aveva sperimentato diverse volte, e adesso lo avrebbe sperimentato di nuovo. C'erano le fumerie d'oppio, dove si poteva comperare l'oblio, rifugi di orrore dove era possibile distruggere il ricordo di vecchi peccati con la follia di peccati nuovi.
La luna era sospesa in basso nel cielo, come un teschio giallo. Di tanto in tanto, una grossa nube informe allungava un lungo braccio nascondendola. I lampioni a gas si andavano facendo più rari e le strade più strette e buie. Ad un certo punto il vetturino sbagliò strada e fu costretto a ritornare indietro per mezzo miglio. Un velo di vapore saliva dal cavallo quando schizzava intorno a sé l'acqua delle pozzanghere. I finestrini laterali della carrozza erano appannati da una nebbia grigia.
"Curare l'anima con i sensi e i sensi con l'anima!" Come gli risuonavano nelle orecchie queste parole! Certo, la sua anima era mortalmente malata. Era proprio vero che i sensi potevano curarla? Era stato versato del sangue innocente. Come sarebbe stato possibile espiarlo? Ah! Non c'era espiazione per questo; ma se il perdono non era possibile, era ancora possibile dimenticare, e lui era deciso a farlo, ad annientare quella cosa, a schiacciarla come si schiaccia la vipera che ci ha morso. In realtà, che diritto aveva Basil di parlargli in quel modo? Chi l'aveva autorizzato a giudicare? Aveva detto cose spaventose, orribili, insopportabili.
La carrozza continuava ad avanzare lentamente e gli sembrava che rallentasse ad ogni passo. Alzò il divisorio e disse all'uomo di andare più in fretta. L'orribile fame d'oppio cominciava a roderlo. La gola gli bruciava e le mani delicate si torcevano nervosamente. In un gesto folle, colpì il cavallo con il bastone. Il vetturino rise e usò la frusta. Rispose a sua volta con una risata: l'uomo rimase in silenzio.
La via sembrava interminabile, le strade parevano la nera tela di un ragno enorme. La monotonia divenne insopportabile e, quando la nebbia cominciò a diventare più fitta, si sentì prendere dalla paura.
Passarono davanti a fornaci solitarie. Qui la nebbia era meno fitta e poté vedere gli strani forni a forma di bottiglia e le lingue di fuoco che ne uscivano, simili a ventagli arancione. Un cane abbaiò al loro passare e lontano nell'oscurità si sentì lo strido di un gabbiano vagante. Il cavallo inciampò in un solco, poi scartò e si lanciò al galoppo.
Dopo qualche tempo lasciarono la via di terra battuta e ripresero a sobbalzare su strade dal lastricato irregolare. Quasi tutte le finestre erano buie, ma, di tanto in tanto, ombre fantastiche si disegnavano in trasparenza contro le tende. Dorian le osservava con curiosità. Si muovevano come mostruose marionette e gesticolavano come creature vive. Le odiò. Una cupa ira gli gonfiava il cuore. Mentre svoltavano all'angolo di una strada, da una porta una donna gridò loro qualche cosa e due uomini rincorsero la carrozza per un centinaio di metri. Il conducente li colpì con la frusta.
Dicono che la passione costringa il pensiero in circoli viziosi. Certo, con una mostruosa iterazione, le labbra di Dorian Gray formavano e riformavano quelle sottili parole sull'anima e sui sensi, finché trovò in esse la piena espressione, per così dire, del suo stato d'animo, giustificando con l'approvazione dell'intelletto passioni che altrimenti lo avrebbero dominato. Da una cellula all'altra del cervello passò quell'unico pensiero e il selvaggio desiderio di vivere, il più terribile degli istinti umani, diede una nuova forza ai nervi e alle fibre tremanti. La bruttezza, che un tempo gli era stata odiosa perché rende le cose reali, adesso per la stessa ragione gli era cara. La bruttezza era l'unica realtà. Le risse volgari, i covi disgustosi, la cruda violenza della vita disordinata, persino la bassezza dei ladri e degli emarginati, nella loro intensa impressione di realtà erano più vividi di tutte le forme piene di grazia dell'arte, delle ombre sognanti del canto. Erano quel che gli era necessario per dimenticare. In tre giorni si sarebbe liberato.
Improvvisamente il conducente arrestò la vettura con uno strappo all'inizio di un vicolo buio. Oltre i tetti bassi e la lunga fila ineguale dei comignoli si levavano neri alberi di navi. Lembi di nebbia si aggrappavano ai pennoni come vele spettrali.
"È da queste parti, vero, signore?" domandò brusco il vetturino attraverso il divisorio.
Dorian si riscosse e si guardò attorno. "Va bene qui," disse. Scese in fretta, diede al vetturino la sovrana che gli aveva promesso e si diresse rapido verso le banchine. Di quando in quando appariva la lanterna di poppa di qualche grosso mercantile. La luce si rifletteva tremolando nelle pozzanghere. Un bagliore rosso proveniva da un vapore in partenza che stava rifornendosi di carbone. Il fondo viscido sembrava un incerato bagnato.
Si avviò in fretta verso sinistra, guardandosi ogni tanto alle spalle per vedere se lo seguiva qualcuno. Dopo sette o otto minuti arrivò davanti ad una casetta miserabile, stretta tra due fabbriche squallide. Una delle finestre in alto era illuminata. Si fermò e bussò in modo particolare.
Pochi istanti dopo udì dei passi nel corridoio e qualcuno tirò il catenaccio. La porta si aprì silenziosamente. Dorian entrò senza dire una parola alla figura acquattata e informe che si appiattì nell'ombra al suo passaggio. Il fondo del vestibolo era chiuso da una tenda verde che ondeggiò e fremette nel vento entrato con lui dalla strada. La scostò ed entrò in un locale lungo e basso che aveva l'aria di essere stata una sala da ballo di terz'ordine. Stridenti becchi a gas che si riflettevano offuscati e distorti negli specchi macchiati dalle mosche, erano allineati lungo le pareti. Dietro di essi erano posti dei riflettori di latta scanalata, sporchi di unto che proiettavano incerti circoli luminosi. Il pavimento era coperto di segatura color ocra a tratti ridotta a fango dal calpestio e macchiata da cerchi scuri dove era stato rovesciato del liquore. Alcuni malesi, accoccolati vicino a una piccola stufa a carbone, giocavano con tessere di osso, e parlavano mettendo in mostra i denti candidi. In un angolo, un marinaio era riverso su un tavolo con la testa nascosta tra le braccia; accanto al bancone dipinto a colori vistosi che teneva tutta una parete, due donne disfatte prendevano in giro un vecchio che si passava le mani sulle maniche della giacca con un'espressione di disgusto. "Crede di avere addosso delle formiche rosse," disse ridendo una delle donne mentre Dorian le passava accanto. L'uomo la guardò terrorizzato e cominciò a piagnucolare.
In fondo alla stanza c'era una scaletta che portava in una stanza debolmente illuminata. Mentre Dorian saliva in fretta i tre gradini traballanti, fu investito da un pesante odore di oppio. Trasse un profondo respiro e le narici fremettero di piacere. Appena entrato, un giovane dai capelli biondi e lisci che era chino su una lampada ad accendere una lunga pipa sottile, alzò lo sguardo verso di lui, e gli rivolse un esitante cenno di saluto.
"Tu qui, Adrian?" mormorò Dorian.
"Dove dovrei essere?" rispose l'altro in tono indifferente. "Nessuno degli amici mi rivolge più la parola."
"Pensavo che te ne fossi andato dall'Inghilterra."
"Darlington non intende fare nulla. Mio fratello mi ha pagato la cambiale, finalmente. Anche George non mi rivolge più la parola... ma non mi importa," aggiunse con un sospiro. "Finché c'è questa roba, non si ha bisogno di amici. Penso di averne avuti troppi."
Dorian rabbrividì e fece passare lo sguardo sugli esseri grotteschi che giacevano in pose incredibili sui materassi consunti. Lo affascinavano le membra contorte, le bocche spalancate, senza luce. Sapeva in quali strani paradisi stessero soffrendo e quali cupi inferni stessero insegnando loro il segreto di qualche nuovo piacere. Stavano meglio di lui. Lui era prigioniero del pensiero. La memoria, come, una terribile malattia, gli stava divorando l'anima. Di quando in quando, gli pareva di vedere gli occhi di Basil Hallward che lo fissavano. Tuttavia sentiva che non poteva rimanere: la presenza di Adrian Singleton lo turbava. Voleva essere in un posto dove nessuno lo conoscesse. Voleva sfuggire a se stesso.
"Vado nell'altro posto," disse, dopo un silenzio.
"Sulla banchina?."
"Sì."
"Ci troverai di certo quella gatta arrabbiata. Qui non la vogliono più, adesso."
Dorian scrollò le spalle. "Sono nauseato dalle donne innamorate di me. Le donne che odiano sono molto più, interessanti Inoltre, la roba è migliore là."
"La stessa, più o meno."
"A me piace di più. Vieni a bere qualche cosa. Devo bere qualche cosa."
"Non voglio nulla," mormorò il giovane.
"Non importa."
Adrian Singleton si sollevò a fatica e seguì Dorian Gray al bar. Un mezzosangue che portava un turbante consunto e un ulster male in arnese li accolse con un sorriso ripugnante, mentre posava davanti a loro una bottiglia di brandy e due bicchieri. Le donne si accostarono esitando e cominciarono a chiacchierare. Dorian voltò loro le spalle e disse qualche cosa a bassa voce ad Adrian Singleton.
Un sorriso contorto come un kriss malese passò come un tremito convulso sul viso di una delle donne.
"Siamo molto superbi, stasera," disse in tono di scherno.
"Per l'amor di Dio, piantala," esclamò Dorian Gray battendo il piede a terra. "Che cosa vuoi? Soldi? Eccoli. Ma stattene zitta."
Due lampi rossi balenarono per un momento negli occhi acquosi della donna, poi guizzarono via lasciandoli vitrei e privi di vita. La donna scosse il capo e prese i soldi dal banco con dita avide. La sua compagna la osservava con invidia.
"È inutile," sospirò Adrian Singleton. "Non mi importa di ritornare indietro. Che cosa significa? Qui sono felice."
"Mi scriverai, se avrai bisogno di qualche cosa, non è vero?" disse Dorian dopo un silenzio.
"Forse."
"Buona notte, allora.
"Buona notte," rispose il giovane risalendo gli scalini e passandosi il fazzoletto sulla bocca inaridita.
Dorian si diresse verso la porta con un'espressione di sofferenza in viso. Mentre scostava la tenda una disgustosa risata uscì dalle labbra rosse della donna che aveva preso i soldi. "Il Patto col Diavolo se ne va!" singhiozzò con voce rauca.
"Maledetta!" si rivoltò lui. "Non chiamarmi così."
La donna schioccò le dita. "Ti piacerebbe farti chiamare Principe Azzurro, vero?" gli gridò dietro.
A quelle parole il marinaio addormentato balzò in piedi e si guardò attorno con un'espressione selvaggia. Gli giunse alle orecchie il rumore della porta di ingresso che si chiudeva. Si precipitò fuori come se volesse inseguire qualcuno.
Dorian Gray si affrettava lungo la banchina sotto la pioggia sottile. L'incontro con Adrian Singleton lo aveva stranamente commosso e si chiedeva se fosse davvero sua la responsabilità di quella giovane vita distrutta, come aveva detto Basil Hallward con un tono così insultante. Si morse le labbra e, per un momento, una luce di tristezza gli si accese negli occhi. Sì, dopotutto, che cosa gliene importava? La vita era troppo breve per caricarsi sulle spalle anche gli errori degli altri. Ogni uomo vive la propria vita e paga il proprio prezzo per viverla. Peccato solo che così di frequente si dovesse pagare per un unico errore. In realtà, si paga molte e molte volte Nei suoi rapporti con gli uomini il destino non chiude mai conti..
Secondo gli psicologi ci sono momenti, in cui la passione per i peccati, o per quelli che il mondo chiama peccati, domina talmente una persona che ogni fibra del corpo, ogni cellula del cervello, paiono imbevute di impulsi di terrore. In questi momenti uomini e donne perdono la padronanza della volontà. Si muovono come automi verso la loro terribile fine. Non hanno più la facoltà di scelta e la coscienza è morta o, se è viva, lo è solo per dare alla ribellione il suo fascino, le sue attrattive alla disobbedienza. Tutti i peccati, infatti, come i teologi non si stancano di ripeterci, sono peccati di disobbedienza. Quando quello spirito superiore, quella stella mattutina del male, cadde dal cielo, fu perché si era ribellato.
Insensibile, concentrato nel male, con la mente guasta e l'anima assetata di ribellione, Dorian Gray si affrettava a passi sempre più veloci ma, mentre piegava sotto un portico buio che molte volte aveva usato come scorciatoia per raggiungere il luogo malfamato dove era diretto, si sentì afferrare improvvisamente alle spalle e, prima che avesse la possibilità di difendersi, venne spinto contro il muro e una mano brutale lo afferrò alla gola.
Lottò follemente per la sopravvivenza e, con uno sforzo terribile, riuscì a strappare le dita che lo attanagliavano. In un secondo udì lo scatto di una rivoltella, vide il bagliore di una canna lucida puntata diritta contro la sua testa, e la sagoma indistinta di un uomo basso e tarchiato che gli si parava davanti.
"Che cosa vuoi?" ansimò.
"Sta' calmo," disse l'uomo. "Se ti muovi ti sparo."
"Sei pazzo. Che cosa ti ho fatto?"
"Hai distrutto la vita di Sibyl Vane," fu la risposta; "e Sibyl Vane era mia sorella. Si è uccisa. Lo so. La sua morte è colpa tua.. Ho giurato che ti avrei ucciso. Ti ho cercato per anni. Non avevo tracce, non avevo indizi: le uniche due persone che ti conoscevano erano morte. Sapevo solo il soprannome che lei ti aveva dato. L'ho risentito questa sera per caso. Raccomanda l'anima a Dio, perché questa notte morirai."
Dorian si sentì prendere dal terrore. "Non l'ho mai conosciuta," balbettò. "Non l'ho mai sentita nominare. Sei pazzo."
"È meglio che tu confessi i tuoi peccati perché, quanto è vero che io sono James Vane, tu morirai." Ci fu un momento terribile. Dorian non sapeva che cosa dire o che cosa fare. "Inginocchiati!" gridò rauco l'uomo. "Ti do un minuto per dire le ultime preghiere. Non di più. Mi imbarco stanotte per l'India e prima devo sbrigare questa faccenda. Un minuto. È tutto."
Dorian Gray lasciò cadere le braccia. Paralizzato dal terrore, non sapeva che cosa fare. Improvvisamente una folle speranza gli attraversò la mente. "Fermati," gridò. "Da quando è morta tua sorella? Dimmelo, presto!"
"Da diciotto anni," disse l'uomo. "Perché me lo domandi? Che cosa contano gli anni?"
"Diciotto anni," rise Dorian Gray, con una nota di trionfo nella voce. "Diciotto anni! Portami sotto un fanale e guardami in faccia!"
James Vane esitò un attimo, senza capire. Poi afferrò Dorian Gray e lo trascinò fuori dal portico.
Nonostante la luce fosse incerta e indebolita dal vento, fu sufficiente per rivelare a James Vane il terribile equivoco, - almeno così pareva - nel quale era caduto, perché il viso dell'uomo che aveva cercato di uccidere aveva tutta la freschezza dell'adolescenza, tutta l'intatta purezza della giovinezza. Sembrava un ragazzo di poco più di vent'anni, appena più vecchio; forse, di sua sorella quando si erano separati, tanti anni prima. Era ovvio che non poteva essere questo l'uomo che aveva distrutto la sua vita.
Lasciò la stretta e arretrò. "Mio Dio, mio Dio!" esclamò, "ed io che stavo per ucciderti."
Dorian Gray trasse un lungo respiro. "Lei è stato sul punto di commettere un terribile delitto, amico," disse fissandolo con uno sguardo severo. "Che questo le serva da avvertimento a non cercare la vendetta con le proprie mani."
"Mi perdoni, signore," mormorò James Vane. "Sono stato ingannato. Una parola che ho sentito per caso in quella maledetta taverna mi ha messo su una pista sbagliata."
"Farebbe meglio ad andare a casa e a mettere via quella pistola, se non vuole finire nei pasticci," disse Dorian voltandosi e incamminandosi lentamente lungo la via.
James Vane rimase immobile, sconvolto.
Tremava da capo a piedi. Poco dopo, un'ombra nera che era strisciata lungo il muro grondante di pioggia, uscì sotto la luce e si avvicinò a lui cautamente. Sentì una mano posarglisi su un braccio e si guardò intorno sussultando. Era una delle donne che bevevano al bar.
"Perché non l'hai ucciso?" sibilò, avvicinando a lui il viso devastato. "Sapevo che gli stavi correndo dietro quando sei uscito da Daly. Stupido! Avresti dovuto ucciderlo. Ha un mucchio di soldi ed è cattivo come pochi."
"Non è l'uomo che cerco," rispose lui, "e non voglio i soldi di nessuno. Voglio la vita di un uomo. L'uomo che sto cercando deve essere sulla quarantina. Questo era poco più di un ragazzo. Grazie a Dio non mi sono sporcato le mani con il suo sangue."
La donna scoppiò in un'amara risata. "Poco più di un ragazzo!" disse in tono di scherno. "Sono quasi diciotto anni che il Principe Azzurro mi ha ridotta in questo stato."
"Tu menti!" gridò James Vane. La donna sollevò le braccia al cielo. "Giuro davanti a Dio che dico la verità," disse a voce alta.
"Davanti a Dio?"
"Che diventi muta se non è vero. È il peggiore tra tutti quelli che vengono qui. Dicono che si sia venduto al diavolo per conservare la sua bella faccia. Sono quasi diciannove anni che lo conosco e da allora non è cambiato molto. Io sì, invece," aggiunse con una smorfia di disgusto.
"Lo giuri?"
"Lo giuro," fu l'eco rauca che uscì da quella bocca avvilita. "Ma non, tradirmi," piagnucolò, "ho paura di lui. Dammi qualche cosa per andare a dormire."
James Vane si allontanò da lei bestemmiando e si precipitò all'angolo della strada, ma Dorian Gray era scomparso. Quando si guardò indietro, anche la donna era svanita.
XVII
Una settimana dopo, Dorian Gray, seduto nella serra di Selby Royal, conversava con la graziosa duchessa di Monmouth che, insieme al marito, un uomo sulla sessantina dall'aria affaticata, era tra i suoi ospiti. Era l'ora del tè e la luce morbida della grande lampada di merletto posta sopra la tavola accendeva le delicate porcellane e gli argenti battuti. La duchessa si era incaricata del servizio e le bianche mani si muovevano agilmente tra le tazze mentre le labbra, rosse e piene, sorridevano a qualche cosa che Dorian Gray le aveva sussurrato. Lord Henry, sdraiato in una sedia di vimini rivestita di seta, li guardava. Su un divano color pesca era seduta Lady Narborough che fingeva di ascoltare il duca, immerso nella descrizione dell'ultimo scarabeo brasiliano che aveva aggiunto alla sua collezione. Tre giovani in eleganti smoking servivano pasticcini ad alcune signore. La compagnia era composta da una dozzina di persone; se ne attendevano altre il giorno dopo.
"Di che cosa state parlando?" domandò Lord Henry avvicinandosi al tavolo e posando la tazza. "Spero che Dorian ti abbia parlato del mio progetto di ribattezzare tutto, Gladys. È una bellissima idea."
"Ma io non voglio essere ribattezzata, Henry," obiettò la duchessa, alzando su di lui due splendidi occhi.
"Sono soddisfattissima del mio nome, e sono sicura che il signor Gray è soddisfatto del suo."
"Mia cara Gladys, non vorrei cambiare né l'uno né l'altro per nulla al mondo. Sono perfetti. Mi riferivo soprattutto ai fiori. Ieri ho colto un'orchidea per metterla all'occhiello. Era splendidamente maculata, forte e viva come i sette peccati capitali. In un momento di distrazione ne chiesi il nome ad uno dei giardinieri. Mi disse che era un bell'esemplare di Robinsoniana, o qualche altro nome altrettanto orribile. È la triste verità, ma abbiamo perduto la capacità di dare bei nomi alle cose. I nomi sono tutto. Io non litigo mai con le azioni. Litigo solo con le parole. Per questo odio il realismo volgare nella letteratura. Chi chiama vanga una vanga dovrebbe essere costretto ad usarla. È l'unica cosa per cui è adatto."
"E allora come dovremmo chiamarti, Harry?"
"Il suo nome è Principe Paradosso," disse Dorian.
"Gli sta alla perfezione," esclamò la duchessa.
"Non ne voglio sapere," rise Lord Henry, sprofondando in una sedia. "A un'etichetta non c'è scampo! Rifiuto il titolo."
"I sovrani non possono abdicare," avvertirono le belle labbra.
"Allora vuoi che difenda il trono?"
"Sì."
"Io do le verità di domani."
"Preferisco gli errori di oggi," lei rispose.
"Tu mi disarmi, Gladys," esclamò lui cogliendo l'allusione.
"Del tuo scudo, Harry, non della tua spada."
"Non combatto mai contro la bellezza," disse lui con un gesto della mano.
"È qui che sbagli, Harry, credimi. Dai alla bellezza un valore troppo grande."
"Come puoi dire una cosa simile? Ammetto di ritenere che sia meglio essere belli che essere buoni ma, d'altra parte, nessuno è più pronto di me ad ammettere che è meglio essere buoni piuttosto che brutti."
"Allora la bruttezza è uno dei sette peccati capitali," esclamò la duchessa. "E che cosa succede del tuo paragone a proposito delle orchidee?"
"La bruttezza è una delle sette virtù mortali, Gladys. E tu, da buona conservatrice, non devi sottovalutarle. La birra, la Bibbia e le sette virtù mortali hanno ridotto la nostra Inghilterra nelle attuali condizioni.
"Allora non ti piace il tuo paese?" domandò.
"Ci vivo."
"Per poterlo criticare meglio."
"Vuoi che ti dica il parere dell'Europa?" domandò lui.
"Che cosa dicono di noi?"
"Che Tartufo è emigrato in Inghilterra e ha messo bottega."
"È tua, Harry?"
"Te la regalo."
"Non potrei usarla. È troppo vera."
"Non devi aver paura. I nostri compatrioti non riconoscono mai una descrizione."
"Sono pratici."
"Sono più furbi che pratici. Quando fanno il bilancio, contrappongono la stupidità alla ricchezza, e il vizio all'ipocrisia."
"Però abbiamo fatto grandi cose."
"Ce le hanno tirate addosso, Gladys."
"Ne abbiamo sopportato il peso."
"Solo fino alla Borsa."
Lei scosse il capo. "Credo nella razza," esclamò.
"La razza è solo la sopravvivenza degli arrivisti."
"Ha uno sviluppo."
"Mi interessa di più la decadenza."
"E l'arte?" domandò lei.
"È una malattia."
"L'amore?"
"Un'illusione."
"La religione?"
"Un surrogato alla moda della fede."
"Sei uno scettico."
"Niente affatto! Lo scetticismo è l'inizio della fede."
"Che cosa sei, allora?"
"Definire significa limitare."
"Dammi un filo da seguire."
"I fili si spezzano. Perderesti la strada nel labirinto."
"Mi disorienti. Parliamo di qualcun altro."
"Il nostro ospite è un soggetto piuttosto piacevole. Anni fa, fu battezzato Principe Azzurro."
"Ah, non ricordarmi queste cose," esclamò Dorian Gray.
"Il nostro ospite è un po' ispido stasera," notò la duchessa arrossendo. "Suppongo pensi che Monmouth mi abbia sposato esclusivamente per interesse scientifico, come il miglior esemplare di farfalla moderna che sia riuscito a trovare."
"Bene, spero che non la vorrà infilare con degli spilli, duchessa," disse Dorian, ridendo.
"Oh, lo fa già la mia cameriera quando è arrabbiata con me, signor Gray."
"E che cosa la fa arrabbiare con lei, duchessa?"
"Le cose più futili, signor Gray, le assicuro. Di solito perché arrivo alle nove meno dieci e le dico che devo essere vestita per le otto e mezzo."
"È davvero irragionevole. Dovrebbe farle una ramanzina."
"Non ne ho il coraggio, signor Gray. Sa, è lei che inventa i miei cappelli. Ricorda quello che portavo per il ricevimento all'aperto di Lady Hilstone? No, naturalmente. Ma è gentile da parte sua fingere di sì. Bene, l'ha messo insieme con niente. Tutti i bei cappelli sono fatti con niente."
"Come tutte le buone reputazioni, Gladys," interruppe Lord Henry. "Ogni volta che si ottiene un certo successo ci si fa un nemico. Per essere benvoluti da tutti bisogna essere mediocri."
"Non vale per le donne," disse la duchessa scuotendo il capo, "e sono le donne che governano il mondo. Le assicuro che non riusciamo a sopportare la mediocrità. Noi donne, come ha detto qualcuno, amiamo con le orecchie, proprio come voi uomini amate con gli occhi, se pure amate."
"A me pare che non facciamo nient'altro," mormorò Dorian.
"Ah, ma allora lei non ama veramente, signor Gray," replicò la duchessa in tono scherzosamente triste.
"Mia cara Gladys," esclamò Lord Henry. "Come puoi dirlo? Un idillio sentimentale vive ripetendosi e la ripetizione trasforma il desiderio in arte. Inoltre, ogni volta che si ama è l'unica volta. La diversità dell'oggetto non muta l'unicità della passione ma si limita a intensificarla. Nel migliore dei casi in tutta la vita si riesce ad avere una sola esperienza, e il segreto della vita sta nel ripeterla il più spesso possibile."
"Anche quando si è rimasti scottati, Lord Henry?" domandò la duchessa dopo una pausa di silenzio.
"Specialmente quando si è rimasti scottati," rispose Lord Henry.
La duchessa si voltò e guardò Dorian Gray con una strana espressione negli occhi. "Che cosa ne pensa, signor Gray?"
Dorian esitò un attimo. Poi gettò all'indietro la testa e rise. "Sono sempre d'accordo con Harry, duchessa."
"Anche quando sbaglia?"
"Henry non sbaglia mai."
"E la sua filosofia la rende felice?"
"Non ho mai cercato la felicità. Chi la vuole? Ho cercato il piacere."
"E lo ha trovato, signor Gray?"
"Spesso. Troppo spesso."
La duchessa sospirò. "Io cerco la pace," disse, "e se non vado a vestirmi, questa sera non ne avrò affatto."
"Lasci che le colga qualche orchidea, duchessa," disse Dorian balzando in piedi e allontanandosi nella serra.
"Stai flirtando con lui scandalosamente," disse Lord Henry alla cugina. "È meglio che tu stia attenta: è molto affascinante."
"Se non lo fosse, non ci sarebbe nessuna lotta."
"I greci contro i greci, allora?"
"Io sono dalla parte dei troiani. Hanno combattuto per una donna."
"Ma sono stati sconfitti."
"Ci sono cose peggiori della cattura," lei rispose.
"Stai galoppando a briglia sciolta."
"È l'andatura a determinare la vita," fu la risposta.
"Lo scriverò nel mio diario, questa sera."
"Che cosa?"
"Che un bambino scottato ama il fuoco."
"Non mi sono nemmeno bruciacchiata. Le ali sono intatte."
"Le usi per tutto, fuorché per volare."
"Il coraggio è passato dagli uomini alle donne. È una nuova esperienza per noi."
"Hai una rivale."
"Chi è?"
Lui rise. "Lady Narborough," sussurrò. "Lo adora."
"Mi metti in ansia. Il richiamo dell'antichità è fatale per noi romantiche."
"Romantiche! Avete tutti i metodi della scienza."
"Ci hanno educate gli uomini."
"Ma non vi hanno spiegate."
"Prova a definirci come sesso," lo sfidò.
"Sfingi senza segreti."
Lei lo guardò sorridendo. "Quanto tempo ci mette, il signor Gray!" disse. "Andiamo a dargli una mano. Non gli ho ancora detto il colore del mio vestito."
"Ah, ma devi intonare il vestito ai suoi fiori, Gladys."
"Sarebbe una resa prematura."
"L'arte romantica comincia dal punto culminante."
"Devo lasciarmi una via di ritirata."
"Alla maniera dei Parti?"
"Loro si salvarono nel deserto. Io non potrei farlo."
"Le donne non sempre hanno la possibilità di scelta," rispose, ma aveva appena finito la frase quando, dall'altra estremità della serra, giunse un gemito soffocato, seguito dal tonfo sordo di un corpo che cade pesantemente. Tutti balzarono in piedi. La duchessa era impietrita dal terrore. Con la paura negli occhi, Lord Henry si precipitò tra le palme alitanti e trovò Dorian Gray disteso con il volto contro il pavimento di mattoni, svenuto.
Venne immediatamente portato nel salotto azzurro e disteso su un divano. Dopo poco tempo rinvenne e si guardò intorno con un'espressione inebetita.
"Che cosa è successo?" domandò. "Oh! ricordo. Sono al sicuro qui?" Cominciò a tremare.
"Mio caro Dorian," rispose Lord Henry, "sei semplicemente svenuto, tutto qui. Devi esserti stancato troppo. È meglio che tu non scenda a cena. Prenderò io il tuo posto."
"No, scenderò," disse Dorian rimettendosi in piedi. "Preferisco scendere. Non devo stare solo."
Salì in camera sua e si vestì. A tavola fu di un'allegria sfrenata e noncurante, ma ogni tanto lo scuoteva un fremito di terrore quando ricordava di aver visto, premuto contro il vetro della serra come un fazzoletto bianco, il viso di James Vane che lo fissava.
XVIII
Il giorno dopo non uscì di casa ma passò quasi tutto il tempo nella sua stanza, in preda ad una folle paura della morte e tuttavia indifferente alla vita. Cominciava a dominarlo la consapevolezza di essere cacciato, spiato, preso. Sussultava se il vento muoveva appena una tenda. Le foglie morte che urtavano i vetri piombati gli sembravano i suoi proponimenti sprecati e i suoi folli rimpianti. Quando chiudeva gli occhi, rivedeva il viso del marinaio che lo spiava attraverso i vetri annebbiati e, di nuovo, gli pareva che l'orrore gli avvolgesse il cuore.
Forse, però, era stata solo la sua fantasia che aveva gridato vendetta nel buio della notte mettendogli dinanzi agli occhi le orrende immagini della punizione. La vita concreta è un caos, ma c'è qualche cosa di tremendamente logico nell'immaginazione. È l'immaginazione che spinge il rimorso sulle tracce del peccato. È l'immaginazione che fa sopportare a ogni delitto le sue conseguenze deformi. Nella realtà di ogni giorno i malvagi non vengono puniti, né i buoni ricompensati: il successo premia i forti, il fallimento schiaccia i deboli. Nient'altro. D'altra parte, se intorno alla casa si fosse aggirato un estraneo i domestici o i custodi lo avrebbero visto. Se i giardinieri avessero scoperto delle impronte sulle aiuole lo avrebbero riferito. Sì, era stata solo la sua fantasia. Il fratello di Sibyl Vane non era ritornato per ucciderlo. Era salpato con la sua nave per naufragare in qualche bufera invernale. Da lui, ad ogni modo, era al sicuro. Dopotutto quell'uomo non sapeva chi fosse: non poteva saperlo. La maschera della giovinezza lo aveva salvato.
Se però era stata semplicemente un'illusione, quanto era terribile pensare che la coscienza potesse far sorgere così terribili fantasmi, dare loro forma visibile, farli muovere davanti a noi! Che vita sarebbe mai stata la sua se giorno e notte le ombre del suo delitto l'avessero spiato da angoli silenziosi, l'avessero deriso da luoghi nascosti, gli avessero bisbigliato all'orecchio durante i banchetti, l'avessero svegliato con dita di ghiaccio mentre dormiva! Mentre quest'idea si impadroniva lentamente della sua mente, divenne pallido di paura e l'aria gli parve farsi improvvisamente gelida. Oh! in quale selvaggio istante di follia aveva ucciso il suo amico! Com'era orribile il solo ricordo della scena. La rivedeva tutta. Ogni disgustoso particolare tornava a lui ancora più orribile. Dalla nera caverna del tempo, terribile e fasciata di scarlatto, sorgeva l'immagine della sua colpa. Quando Lord Henry alle sei entrò nella sua stanza lo trovò che piangeva come se gli si spezzasse il cuore.
Soltanto tre giorni dopo si arrischiò ad uscire. Nell'aria limpida e odorosa di pino, di quel mattino d'inverno c'era qualche cosa che sembrava restituirgli l'allegria e la voglia di vivere. Ma non erano state solo le condizioni ambientali a produrre il cambiamento: la sua natura si era ribellata all'eccessiva angoscia che aveva cercato di tarpare e di guastare la sua perfetta serenità. Ai temperamenti delicati e complicati succede sempre così: le forti passioni, li schiacciano o ne vengono schiacciate, li uccidono o ne vengono uccise. Solo le passioni o i dispiaceri superficiali continuano a vivere, mentre i grandi amori, o i grandi dolori, sono distrutti dalla loro stessa, pienezza. D'altra parte, si era convinto di essere stato vittima della sua immaginazione sconvolta dal terrore, e ripensava alle sue paure con un po' di pietà e non poco disprezzo.
Dopo colazione fece una passeggiata di un'ora nel giardino con la duchessa, poi attraversò in carrozza il parco per raggiungere la partita di caccia. Uno strato di brina scricchiolante ricopriva l'erba come se fosse sale. Il cielo era una coppa rovesciata di metallo blu. Un sottile strato di ghiaccio orlava lo stagno coperto di giunchi.
All'angolo della pineta scorse Sir Geoffrey Clouston, fratello della duchessa, che estraeva dal fucile due cartucce esplose. Scese con un salto dalla carrozza e, dopo aver detto al servo di riportare la cavalla nella scuderia, andò in direzione dell'ospite facendosi strada tra i rami spogli e il fitto, sottobosco.
"Hai fatto buona caccia, Geoffrey?" domandò.
"Non tanto, Dorian. Credo che la maggior parte degli uccelli sia andata, all'aperto. Penso che le cose miglioreranno dopo mezzogiorno, quando, passeremo in un'altra zona."
Dorian si incamminò al suo fianco. L'aria sottile e profumata, le luci rosse e brune che balenavano nel bosco, le grida rauche dei battitori che si levavano ogni tanto, i secchi colpi di fucile che le seguivano, lo affascinavano e lo colmavano di un senso di deliziosa libertà. Si sentiva dominato dalla spensieratezza della felicità, dall'estrema indifferenza della gioia. Improvvisamente, da un ciuffo di erba secca una ventina di metri davanti a loro, le orecchie dalla punta nera erette, le lunghe zampe posteriori scattanti, uscì di corsa una lepre e fuggì verso un folto di ontani. Sir Geoffrey imbracciò il fucile, ma nella grazia dei movimenti dell'animale c'era qualche cosa che incantava stranamente Dorian Gray; gridò subito: "Non sparare, Geoffrey. Lasciala vivere."
"Che assurdità, Dorian!" rispose il compagno. E sparò mentre la lepre si infilava nel folto.
Si sentirono due grida: quello terribile di una lepre ferita, e quello di un uomo colpito a morte, più terribile ancora.
"Santo cielo! Ho colpito un battitore!" esclamò Sir Geoffrey. "Che somaro a mettersi di fronte a un fucile! Smettete di sparare, laggiù!" gridò a tutta voce. "C'è un ferito."
Il capocaccia arrivò di corsa con un bastone in mano.
"Dove, signore? Dov'è?" gridò. Contemporaneamente, lungo la linea dei cacciatori gli spari cessarono.
"Qui," rispose rabbioso Sir Geoffrey, correndo verso il folto. "Perché diavolo non tiene indietro i suoi uomini? Mi ha rovinato la caccia per tutta la giornata."
Dorian li osservò entrare nel boschetto di ontani, scostando i rami. Pochi momenti dopo ne uscirono trascinando un corpo alla luce del sole. Si girò sopraffatto dall'orrore. Pareva che la sfortuna lo seguisse ovunque andasse. Udì Sir Geoffrey domandare se l'uomo era morto davvero e la risposta affermativa del guardiacaccia. Gli parve che il bosco si fosse improvvisamente animato di facce. Si sentiva il calpestio di migliaia di piedi e un sommesso mormorio. Un grande fagiano dal petto color rame passò alto sopra i rami, battendo le ali.
Dopo pochi istanti, che nel suo turbamento gli parvero ore di sofferenza interminabili, sentì una mano posarglisi sulla spalla. Sobbalzò e si guardò intorno..
"Dorian," disse Lord Henry, "sarebbe meglio dire che per oggi la caccia è sospesa. Non farebbe una bella impressione se si continuasse."
"Vorrei che venisse sospesa per sempre, Harry," rispose amaro. "È una cosa ripugnante e crudele. Quell'uomo è... ?"
"Temo di sì," rispose Lord Henry. "Si è preso tutta la scarica nel petto. Deve essere morto quasi istantaneamente. Vieni, andiamo a casa."
Camminarono insieme lungo il viale per una cinquantina di metri, in silenzio. Poi Dorian guardò Lord Henry e disse, con un profondo sospiro: "È un cattivo presagio, Harry, molto cattivo."
"Che cosa?" domandò Lord Henry. "Oh, l'incidente, suppongo. Mio caro amico, non lo si poteva evitare. È stata colpa dell'uomo. Perché si è messo davanti ai fucili? D'altra parte, non ci riguarda direttamente. È piuttosto scocciante per Geoffrey, naturalmente. La gente poi dice che uno non sa sparare. E Geoffrey non se lo merita: ha un'ottima mira. Ma è inutile parlare ancora di questa faccenda."
Dorian scosse il capo. "È un cattivo presagio, Harry. Sento come se, qualche cosa di terribile dovesse capitare a qualcuno di noi. A me, forse," aggiunse, passandosi una mano sugli occhi con un gesto di sofferenza.
Il più anziano dei due rise. "L'unica cosa terribile al mondo è l'ennui, Dorian. È l'unico peccato per il quale non esiste perdono. Ma non è probabile che ne soffriremo, a meno che gli amici non si mettano a parlare della faccenda a pranzo. Devo dire loro che l'argomento è tabù. E per quanto riguarda i presagi, cose simili non esistono. Il destino non invia araldi. È troppo saggio o troppo crudele per farlo. D'altronde, che cosa ti potrebbe capitare, Dorian? Hai tutto ciò che un uomo può desiderare. Non esiste nessuno che non sarebbe felice di essere al tuo posto."
"E non esiste nessuno con cui non sarei disposto a cambiarlo, Harry. Non ridere così. Ti sto dicendo la verità. Quel disgraziato contadino che è appena morto, sta meglio di me. Non ho paura della morte. È il suo approssimarsi che mi fa paura. Mi sembra che le sue ali mostruose battano intorno a me nell'aria plumbea. Santo cielo! Non vedi un uomo che si muove tra gli alberi, laggiù, che mi sta osservando, che mi aspetta?"
Lord Henry guardò nella direzione che la mano coperta dal guanto indicava tremando. "Sì," disse sorridendo. "Vedo il giardiniere che ti aspetta. Immagino che voglia chiederti quali fiori vuoi sulla tavola stasera. Sei assurdamente nervoso, mio caro! Quando ritorneremo in città dovrai andare dal mio medico."
Dorian sospirò di sollievo, vedendo avvicinarsi il giardiniere. L'uomo si toccò il berretto, diede un'occhiata esitante a Lord Henry, poi estrasse una lettera e la porse al padrone. "Sua Grazia mi ha detto di aspettare la risposta," mormorò.
Dorian infilò la lettera in tasca. "Di' a Sua Grazia che sto rientrando," disse freddamente. L'uomo si voltò e si diresse rapido verso la casa.
"Le donne hanno la passione di fare le cose pericolose," disse ridendo Lord Henry. "È una delle doti che ammiro di più in loro. Una donna sarebbe disposta a flirtare con chiunque purché la notassero."
"E tu hai la passione di dire le cose pericolose, Harry. In questo momento sei completamente fuori strada. La duchessa mi piace molto ma non l'amo."
"E la duchessa ti ama molto, ma le piaci molto meno, quindi siete perfettamente assortiti."
"Stai facendo pettegolezzi, Harry, e i pettegolezzi, non hanno mai una base."
"La base di tutti i pettegolezzi è una certezza immorale," disse Lord Henry accendendo una sigaretta.
"Tu, Harry, saresti disposto a sacrificare chiunque sull'altare di una battuta."
"La gente sale sull'altare di sua volontà," fu la risposta.
"Vorrei poter amare," esclamò Dorian Gray con una commozione profonda nella voce. "Ma mi pare di aver perso la passione e dimenticato il desiderio. Mi concentro troppo su me stesso. La mia personalità si è fatta un peso. Voglio fuggire, andarmene via, dimenticare. Ho fatto una sciocchezza a venire qui. Credo che spedirò un telegramma a Harvey perché mi faccia allestire lo yacht. Su uno yacht si è al sicuro."
"Al sicuro da che cosa, Dorian? Tu devi trovarti in qualche guaio. Perché non mi dici di che cosa si tratta? Sai che ti aiuterei."
"Non posso dirtelo, Harry," rispose Dorian tristemente. "E forse si tratta solo di una mia fantasia. Questo disgraziato incidente mi ha sconvolto. Ho l'orribile presentimento che succederà anche a me qualche cosa del genere."
"Che assurdità."
"Lo spero, ma non posso fare a meno di sentire così. Ah, ecco la duchessa: sembra Artemide con un abito su misura. Come vede, siamo tornati, duchessa."
"Ho saputo tutto, signor Gray," lei rispose. "Il povero Geoffrey è terribilmente sconvolto. E pare che lei gli abbia chiesto di non sparare. Che strano!"
"Sì, è molto strano. Non so che cosa mi abbia spinto a dirlo. Un capriccio, immagino. Mi pareva un animaletto bellissimo. Mi dispiace che le abbiano raccontato di quell'uomo. È un argomento odioso."
"È un argomento noioso," interruppe Lord Henry. "Non ha nessun interesse psicologico. Quanto sarebbe stato interessante, invece, se Geoffrey lo avesse fatto apposta! Mi piacerebbe conoscere qualcuno che ha commesso un delitto vero e proprio."
"È orribile da parte tua, Harry!" esclamò la duchessa. "Non le pare, signor Gray? Il signor Gray si sente male di nuovo. Sta per svenire."
Dorian Gray si riprese con uno sforzo e sorrise. "Non è nulla, duchessa," mormorò, "ho i nervi terribilmente scossi, tutto qui. Temo di aver camminato troppo questa mattina. Non ho sentito quel che ha detto Harry. Era una cosa molto brutta? Devi dirmela, in qualche altra occasione. Credo di dover andare a stendermi un poco. Mi scusate, vero?"
Erano arrivati alla grande gradinata che portava dalla serra al terrazzo. Appena la porta a vetri si fu chiusa alle spalle di Dorian, Lord Henry si voltò e si rivolse alla duchessa, fissandola con i suoi occhi sonnolenti. "Ne sei molto innamorata?" domandò.
Per un po' la duchessa non rispose; osservava immobile il paesaggio. "Vorrei saperlo," rispose alla fine.
Lord Henry scosse il capo. "Il saperlo sarebbe fatale. È l'incertezza che affascina. La nebbia rende le cose meravigliose."
"Si può perdere la strada."
"Mia cara Gladys, tutte le strade conducono allo stesso punto."
"E cioè?"
"Alla disillusione."
"È stato il mio debut nella vita," sospirò lei.
"Ti è arrivato con la corona."
"Sono stanca delle sue foglie di fragola."
"Ti stanno bene."
"Solo in pubblico."
"Ti mancherebbero," disse Lord Henry.
"Non vorrei perderne nemmeno una."
"Monmouth ha le orecchie."
"I vecchi sono duri d'orecchio."
"Non è mai stato geloso?"
"Vorrei che lo fosse stato."
Lord Henry si guardò intorno cercando qualcosa. "Che cosa stai cercando?" domandò lei.
"Il bottone del tuo fioretto," rispose Lord Henry. "Lo hai lasciato cadere."
Lei rise. "Ho ancora la maschera."
"Ti abbellisce gli occhi," fu la risposta.
La duchessa rise di nuovo. I denti apparvero come minuscoli semi bianchi in un frutto scarlatto.
Sopra, nella sua stanza, Dorian Gray, sdraiato su un divano, fremeva di terrore in ogni fibra. D'improvviso la vita era diventata un fardello troppo pesante da sopportare. L'orribile morte dello sfortunato battitore, colpito nel boschetto come un animale selvatico, gli pareva prefigurare anche la sua morte. Le parole che Lord Henry aveva detto in un moto casuale di scherzoso cinismo, per poco non lo avevano fatto svenire.
Alle cinque suonò per il cameriere e gli ordinò di preparargli le valige, in tempo per il rapido della sera per Londra, e di far preparare la carrozza alla porta per le otto e mezzo. Era deciso a non dormire a Selby Royal una notte di più. Era un luogo di malaugurio. La morte vi appariva alla luce del sole. L'erba del bosco era macchiata di sangue.
Poi scrisse un biglietto per Lord Henry, dicendogli di intrattenere gli ospiti durante la sua assenza. Mentre stava infilandolo nella busta, bussarono alla porta e il cameriere lo informò che il sovrintendente desiderava vederlo. Si accigliò e si morse le labbra. "Fallo entrare," mormorò, dopo alcuni attimi di esitazione.
Appena l'uomo fu entrato Dorian tirò fuori il libretto degli assegni da un cassetto e lo aprì davanti a sé.
"Immagino che lei sia venuto per la disgrazia di questa mattina, Thornton," disse, prendendo la penna.
"Sì, signore," rispose il capocaccia.
"Era sposato quel poveretto? Aveva qualcuno a carico?" domandò Dorian con espressione annoiata. "In caso positivo, non vorrei che questa gente si trovasse in difficoltà e farò loro avere qualunque somma lei ritenga necessaria."
"Non sappiamo chi sia, signore. Per questo mi sono preso la libertà di venire da lei."
"Non sa chi sia?" domandò Dorian in tono indifferente. "Che cosa intende dire? Non era uno dei suoi uomini?"
"No, signore. Mai visto prima. Sembra un marinaio, signore."
Dorian lasciò cadere la penna di mano e gli parve che il cuore avesse improvvisamente smesso di battere. "Un marinaio?" gridò. "Ha detto un marinaio?"
"Sì, signore. Ha l'aria di essere stato qualche cosa di simile. Ha tatuaggi su tutte e due le braccia e roba del genere."
"Aveva qualche cosa addosso?" domandò Dorian, piegandosi in avanti e guardando l'uomo con occhi sbarrati. "Qualche cosa che permetta di identificarlo?"
"Un po' di soldi, signore... non molti, e una pistola a sei colpi. Ma nessun nome. Sembra una persona come si deve, signore, ma un po' rude. Una specie di marinaio, diremmo."
Dorian balzò in piedi. Una terribile speranza aleggiava in lui e vi si aggrappò follemente. "Dov'è il corpo?" esclamò. "Presto! Devo vederlo!"
"È in una stalla vuota alla fattoria, signore. I contadini non lo vogliono in casa: dicono che un morto porta disgrazia."
"Alla fattoria! Vada là immediatamente e mi aspetti. Dica a uno dei mozzi di portarmi qui un cavallo. No. Non importa. Andrò alla scuderia a piedi, farò prima."
Meno di un quarto d'ora dopo Dorian Gray galoppava a briglia sciolta sul lungo viale. Gli alberi sembravano passargli a fianco in una spettrale processione, mentre ombre tumultuose si gettavano davanti a lui. La cavalla scartò a un cancello bianco e per poco non lo disarcionò. La colpì sul collo col frustino. L'animale fendeva l'aria nebbiosa come una freccia. I sassi schizzavano via sotto gli zoccoli.
Alla fine raggiunse la fattoria. Due uomini oziavano sull'aia. Balzò di sella e gettò le redini a uno dei due. Nella stalla più lontana tremolava una luce. Qualche cosa sembrava dirgli che il corpo era là. Si affrettò verso la porta e posò una mano sul chiavistello.
Si arrestò un attimo, sentendo che stava per fare una scoperta che gli avrebbe ridato la vita o gliel'avrebbe distrutta. Quindi spalancò la porta ed entrò.
Nell'angolo più lontano, su un mucchio di sacchi, era disteso il corpo senza vita di un uomo vestito con una camicia grezza e un paio di calzoni blu. Sul volto gli avevano messo un fazzoletto sudicio. Accanto crepitava una candela grezza, infilata in una bottiglia.
Dorian Gray rabbrividì. Si rese conto che, con le sue mani, non sarebbe stato in grado di togliere il fazzoletto e chiamò uno degli uomini della fattoria.
"Togligli quell'affare dalla faccia. Voglio vederlo," disse, appoggiandosi allo stipite per sostenersi.
Quando l'uomo ebbe eseguito, avanzò di un passo. Un grido di gioia gli sfuggì dalle labbra. L'uomo che era stato colpito nel folto era James Vane.
Rimase immobile per alcuni minuti a guardare il cadavere. Mentre cavalcava verso casa, aveva gli occhi pieni di lacrime, perché sapeva di essere salvo.
XIX
"È inutile che tu mi dica che hai l'intenzione di diventare buono," esclamò Lord Henry, immergendo le bianche dita in una coppetta di rame rosso riempita di acqua di rose. "Così sei perfetto. Ti prego di non cambiare."
Dorian scosse il capo. "No, Harry. Ho commesso troppe cose orribili nella mia vita. Non voglio commetterne più. Ho cominciato ieri le mie buone azioni."
"Dove sei stato ieri?"
"In campagna, Harry. In una piccola locanda, da solo."
"Mio caro ragazzo," esclamò Lord Henry, sorridendo, "in campagna tutti possono essere buoni: non ci sono tentazioni. Per questo chi non vive in città è così profondamente incivile. La civiltà non è affatto facile da raggiungere. Ci si può arrivare solo in due modi: attraverso la cultura o attraverso la corruzione. La gente di campagna non ha la possibilità di essere né colta né corrotta: per questo ristagna."
"Cultura e corruzione," gli fece eco Dorian Gray. "Ho conosciuto un poco sia l'una che l'altra. Mi Pare terribile ora che si debba sempre trovarle insieme. Adesso infatti ho un nuovo ideale, Harry. Sto cambiando, credo di essere già cambiato."
"Non mi hai ancora raccontato la tua buona azione. Oppure mi hai detto di averne fatta più di una?" domandò l'amico, ammucchiando nel piatto una minuscola piramide cremisi di fragole e spolverandola di zucchero con un cucchiaio traforato a forma di conchiglia.
"Te la posso dire, Harry, ma non è una storia che potrei raccontare a chiunque. Ho risparmiato una persona. Potrà sembrarti vanità, ma capisci cosa voglio dire. Era molto bella e assomigliava moltissimo a Sibyl Vane. Forse per questo mi ha attratto, all'inizio. Ricordi Sibyl, non è vero? Quanto tempo sembra che sia passato! Bene, Hatty non era una del nostro ceto, naturalmente. Era solo una ragazza di campagna, ma l'amavo davvero. Sono sicuro che l'amavo. Per tutto questo splendido mese di maggio sono andato a trovarla due o tre volte alla settimana. Ieri ci siamo incontrati in un piccolo frutteto. I fiori del melo le cadevano di continuo sui capelli e lei rideva. Avremmo dovuto fuggire insieme questa mattina all'alba. Improvvisamente decisi di lasciarla pura come un fiore, come l'avevo trovata."
"Direi che la novità dell'emozione debba averti procurato un brivido di vero piacere, Dorian," lo interruppe Lord Henry. "Ma posso finire io la storia di questo idillio. Le hai dato dei buoni consigli e le hai spezzato il cuore. Questo è stato l'inizio della tua redenzione."
"Harry, sei terribile! Non devi dire queste cose tremende. Non ho spezzato il cuore di Hatty. Naturalmente ha pianto, e così via. Ma non l'ha colpita nessuna disgrazia. Può continuare a vivere, come Perdita, nel suo giardino di menta e calendule."
"E piangere su un infedele Florizel," disse Lord Henry ridendo e abbandonandosi all'indietro sulla sedia. "Mio caro Dorian, sei stranamente infantile. Credi che questa ragazza, adesso, sarà mai veramente soddisfatta con uno della sua condizione? Immagino che un giorno la sposeranno a un rozzo carrettiere o a un bifolco dall'espressione ebete. Bene, il semplice fatto di averti incontrato, di averti amato, le insegnerà a disprezzare il marito e sarà rovinata. Dal punto di vista morale, non mi pare che la tua grande rinuncia abbia un notevole valore. Anche come inizio, è misero. D'altra parte, come fai ad essere sicuro che in questo momento questa Hatty non stia galleggiando in qualche stagno illuminato dalla luna, circondata da belle ninfee come Ofelia?"
"È insopportabile, Harry! Ridi di tutto e poi suggerisci le peggiori tragedie. Ora mi dispiace di avertelo raccontato. Ma non mi importa di ciò che mi dici. So di aver avuto ragione comportandomi così. Povera Hatty! Questa mattina mentre passavo a cavallo davanti alla fattoria ho visto alla finestra il suo pallido viso, come un tralcio di gelsomini. Non parliamone più e non cercare di convincermi che la prima buona azione che ho fatto da anni, il mio primo piccolo sacrificio, sia in realtà una specie di peccato. Voglio essere migliore. Ma parlami un poco di te. Che cosa succede in città? Non vado al club da diversi giorni."
"La gente parla sempre della scomparsa del povero Basil."
"Pensavo che se ne fossero stancati, ormai," disse Dorian, versandosi un po' di vino e aggrottando leggermente le sopracciglia.
"Mio caro ragazzo, ne parlano soltanto da sei settimane e il pubblico britannico non ha assolutamente le capacità intellettuali di trovare più di un argomento nuovo ogni tre mesi. Tuttavia, negli ultimi tempi ha avuto molta fortuna. Ci sono stati il mio processo di divorzio e il suicidio di Alan Campbell. Adesso c'è la misteriosa scomparsa di un artista. Scotland Yard insiste ancora nel dire che l'uomo dall'ulster grigio partito il nove di novembre per Parigi con il treno di mezzanotte fosse il povero Basil mentre la polizia francese dichiara che Basil non è affatto giunto a Parigi. Immagino che fra un paio di settimane verremo a sapere che è stato visto a San Francisco. È strano, ma tutti quelli che scompaiono li vedono a San Francisco. Dev'essere una città deliziosa, dotata di tutte le attrattive dell'altro mondo."
"Che cosa credi che sia successo a Basil?" domandò Dorian, osservando controluce il borgogna e chiedendosi come mai potesse parlare con tanta calma dell'argomento.
"Non ne ho la minima idea. Se Basil decide di nascondersi, non è affar mio. Se è morto, non voglio pensarci. La morte è l'unica cosa che mi terrorizza. La odio."
"Perché?" domandò il giovane con voce stanca.
"Perché," disse Lord Henry, passandosi sotto le narici la griglia dorata di una boccettina di sali, "oggi a tutto si può sopravvivere fuorché a questo. La morte e la volgarità, nel diciannovesimo secolo, sono gli unici due fenomeni che non si riescono a spiegare. Andiamo a prendere il caffè nella sala da musica, Dorian. Devi suonarmi Chopin. L'uomo con cui è scappata mia moglie suonava Chopin divinamente. Povera Victoria! Le volevo molto bene. La casa è vuota senza di lei. Ovviamente la vita coniugale è solo un'abitudine, una cattiva abitudine. Ma si rimpiangono sempre le perdite, anche delle peggiori abitudini. Forse sono quelle che si rimpiangono di più. Sono una parte così essenziale della nostra personalità."
Dorian non disse nulla ma si alzò e, trasferitosi nella stanza accanto, sedette al pianoforte facendo scorrere le dita sull'avorio bianco e nero dei tasti. Quando ebbero portato il caffè, si interruppe e, guardando Lord Henry, disse.: "Harry, hai mai pensato che Basil possa essere stato assassinato?"
Lord Henry sbadigliò. "Basil era simpatico a tutti e portava sempre un orologio Waterbury. Perché avrebbero dovuto assassinarlo? Non era abbastanza intelligente per avere nemici. Naturalmente, per la pittura aveva un talento straordinario, ma si può dipingere come Velasquez ed essere tuttavia la persona più ottusa del mondo. Basil era davvero alquanto ottuso. Mi ha interessato una sola volta, quando mi ha detto che aveva per te un'adorazione folle e che eri il motivo dominante della sua arte."
"Volevo molto bene a Basil," disse Dorian con una nota di tristezza nella voce. "Ma non si dice che è stato assassinato?"
"Oh, lo sostengono alcuni giornali. A me però sembra del tutto improbabile. So che ci sono dei posti pericolosi a Parigi, ma Basil non era il tipo da frequentarli. Non era curioso. Era il suo principale difetto."
"Che cosa diresti, Harry, se ti confessassi che sono stato io ad uccidere Basil?" disse il giovane osservandolo attentamente mentre pronunciava queste parole.
"Direi, mio caro amico, che cerchi di recitare una parte che non ti si addice. Ogni delitto è volgare, proprio come è un delitto la volgarità. Commettere un delitto, Dorian, non è da te. Mi dispiacerebbe ferire la tua vanità, dicendoti questo, ma ti assicuro che è vero. Il delitto è un'esclusività delle classi inferiori, e non le biasimo affatto per questo. Immagino che per loro rappresenti quello che per noi è l'arte: semplicemente un metodo per procurarsi straordinarie sensazioni."
"Un metodo per procurarsi sensazioni? Allora, secondo te, chi ha commesso un delitto una volta ne potrebbe commettere un altro? Non mi dirai una cosa simile."
"Oh, ogni cosa si trasforma in un piacere se la si fa troppo spesso," disse Lord Henry ridendo. "Questo è uno dei più importanti segreti dell'esistenza. Tuttavia, secondo me il delitto è sempre un errore. Non si dovrebbe mai fare nulla di cui non si possa parlare dopo pranzo. Ma lasciamo perdere il povero Basil. Vorrei poter credere che abbia avuto davvero una morte romantica come quella che hai immaginato, ma non posso. Forse è caduto nella Senna da un omnibus e il conduttore ha soffocato lo scandalo. Sì, suppongo che questa sia stata la sua fine. Lo vedo disteso supino sotto quell'acqua verde sporco mentre le chiatte gli passano sopra e le lunghe alghe gli si impigliano nei capelli. Sai, penso che non avrebbe più fatto nulla di buono. Negli ultimi dieci anni la sua pittura era molto calata di tono."
Dorian sospirò; Lord Henry attraversò la stanza e cominciò ad accarezzare uno strano pappagallo di Giava, un grosso uccello dalle piume grige con la cresta e la coda rosa, in equilibrio su un trespolo di bambù. Al tocco delle dita affusolate, l'uccello lasciò cadere la bianca pellicola rugosa delle palpebre sui neri occhi di cristallo e cominciò a oscillare avanti e indietro.
"Sì," proseguì voltandosi e levando di tasca il fazzoletto, "la sua pittura era assolutamente calata di tono. Mi pareva che avesse perso qualche cosa. Aveva perduto, un ideale. Da quando non foste più grandi amici, cessò di essere un grande artista. Che cosa vi aveva divisi? Immagino che ti sia venuto a noia. Se è così, non te lo perdonò mai. È tipico delle persone noiose. A proposito, che cosa è successo di quel meraviglioso ritratto che ti fece? Non mi sembra di averlo visto da quando fu terminato. Ah, ricordo: un giorno, anni fa, mi hai detto che lo avevi spedito a Selby e che era stato rubato o era andato perduto durante il viaggio. Non l'hai più ritrovato? Che peccato! Era davvero un capolavoro. Ricordo che volevo comperarlo. Vorrei averlo fatto, ora. Era del miglior periodo di Basil. Da allora la sua pittura è stata quel curioso, miscuglio di pessima pittura e di ottime intenzioni che permette sempre a un uomo di essere chiamato un esponente rappresentativo dell'arte britannica. Hai fatto delle inserzioni per ritrovarlo? Dovresti farlo."
"Me ne sono dimenticato," disse Dorian. "Forse le ho fatte. Ma non mi è mai piaciuto veramente. Mi dispiace di aver posato: il suo ricordo mi è odioso. Perché ne parli? Mi ha sempre ricordato quegli strani versi di una commedia - l'Amleto mi pare - come dicono?
"Come il ritratto di una pena
un volto senza cuore,"
Sì, era proprio così."
Lord Henry rise. "Se un uomo ha con la vita un rapporto artistico, ha il cervello nel cuore," rispose, affondando in una poltrona.
Dorian Gray scosse il capo e toccò alcune note basse. "Come il ritratto di una pena," ripeté, "un volto senza cuore."
Il più anziano si allungò sulla poltrona e lo guardò socchiudendo gli occhi. "A proposito, Dorian," disse dopo un silenzio, ""che cosa guadagna un uomo se conquista il mondo intero e perde" - com'è la citazione? - "e perde l'anima?""
La musica ebbe una dissonanza. Dorian Gray sussultò poi fissò l'amico. "Perché me lo domandi, Harry?"
"Mio caro amico," disse Lord Henry inarcando meravigliato le sopracciglia, "te lo chiedo perché pensavo che fossi capace di darmi una risposta. Tutto qui. Domenica scorsa attraversavo il Park; vicino a Marble Arch c'era una piccola folla di straccioni che ascoltava uno dei soliti predicatori di strada. Mentre passavo sentii urlare questa domanda all'auditorio. Mi colpì perché era piuttosto drammatica. Londra ti dà molte impressioni di questo genere: una domenica piovosa, un cristiano arruffato con un impermeabile, un cerchio di facce pallide e malaticce sotto un tetto ineguale di ombrelli gocciolanti e una magnifica frase lanciata nell'aria da una voce stridula, isterica... era davvero bellissimo, a suo modo, molto suggestivo. Pensavo di rispondere al profeta che l'arte ha un'anima, l'uomo no. Temo però che non mi avrebbe capito." "No, Harry. L'anima è una terribile realtà; la si può comperare, vendere e barattare. La si può avvelenare o rendere perfetta. Ognuno di noi ha un'anima. Lo so."
"Ne sei assolutamente certo, Dorian?"
"Assolutamente certo."
"Ah! Allora dev'essere un'illusione. Le cose di cui si è assolutamente certi non sono mai vere. È questa la fatalità della fede, la lezione del sentimento. Che aria solenne! Non essere così serio. Che cosa abbiamo a che fare, tu ed io, con le superstizioni della nostra epoca? No: abbiamo abbandonato la nostra fede nell'anima. Suonami qualche cosa, suonami un notturno, Dorian. E mentre suoni, dimmi a bassa voce come hai fatto a conservare la giovinezza. Devi avere un segreto. Ho solo dieci anni più di te e sono pieno di rughe, sono logoro e ingiallito. Sei proprio meraviglioso, Dorian. Non sei mai stato bello come stasera. Mi ricordi il giorno in cui ti vidi per la prima volta. Eri piuttosto sfacciato, molto timido e assolutamente straordinario. Certo sei cambiato, ma non nell'aspetto. Vorrei che mi dicessi il tuo segreto. Farei di tutto per ritrovare la giovinezza, fuorché ginnastica, alzarmi presto e comportarmi come si deve. Giovinezza! Non c'è nulla che la equivalga. È assurdo parlare dell'ignoranza della giovinezza. Le sole persone di cui oggi ascolto le opinioni con un certo rispetto sono molto più giovani di me. Mi pare che siano più avanti di me. La vita ha rivelato loro le sue più recenti meraviglie. Quanto ai vecchi, li contraddico sempre. Per motivi di principio. Se chiedi qual'è il loro punto di vista su un fatto accaduto ieri, ripetono solennemente le opinioni -correnti del 1820 quando la gente portava il colletto alto, credeva a tutto e non sapeva assolutamente nulla. Che bello il pezzo che stai suonando! Chissà se Chopin l'ha scritto a Maiorca mentre il mare singhiozzava intorno alla villa e gli spruzzi salmastri si frangevano contro i vetri? È meravigliosamente romantico. È una benedizione che ci sia rimasta un'arte non contraffatta! Non smettere. Stasera ho voglia di musica. Mi pare che tu sia il giovane Apollo e io Marsia che l'ascolta. Intimamente soffro, Dorian, per cose che nemmeno tu sai. La tragedia della vecchiaia non sta nel fatto di essere vecchi ma in quello di essere giovani. A volte la mia stessa sincerità mi sorprende. Ah, Dorian, come sei felice! Che vita splendida hai avuto! Hai bevuto a sazietà ogni cosa, hai mangiato l'uva direttamente dal grappolo, nulla ti è rimasto nascosto e tutto è stato per te solo il suono della musica. Non ti ha logorato. Sei sempre lo stesso."
"Non sono lo stesso, Harry."
"Sì, lo sei. Mi domando come sarà il resto della tua vita. Non rovinarlo con rinunce. Attualmente sei perfetto. Non togliere qualcosa alla tua perfezione. Non hai difetti, ora. Non far segno di no: lo sai benissimo. E poi, Dorian, non ingannare te stesso. La vita non è retta dalla volontà o dalle intenzioni. La vita è una questione di nervi di fibre e di cellule in lenta formazione, in cui il pensiero si nasconde e la passione elabora i suoi sogni. Puoi immaginare di essere salvo e crederti forte, ma una nota casuale di colore in una stanza o nel cielo mattutino, un particolare profumo che un tempo hai amato e che associ a sottili ricordi, il verso di una poesia dimenticata che ti si ripresenta:, il ritmo di un pezzo musicale che hai smesso di suonare... ti dico, Dorian, da cose come queste dipende la vita. Browning lo ha scritto da qualche parte, ma i nostri sensi lo immaginano per noi. Ci sono momenti in cui l'odore di lilas blanc mi colpisce all'improvviso e sono costretto a rivivere quello strano mese della mia vita. Vorrei essere al tuo posto, Dorian. La gente ha sempre parlato male di noi due ma per te ha sempre avuto un'adorazione e ti adorerà sempre. Tu sei il modello di ciò che la nostra epoca sta cercando e che teme di aver trovato. Sono così contento che non hai mai fatto nulla, che non hai mai scolpito una statua, dipinto un quadro o creato qualche cosa se non te stesso! La vita è stata la tua arte: ti sei dato alla musica e i tuoi giorni sono i tuoi sonetti."
Dorian si alzò dal pianoforte passandosi una mano fra i capelli. "Sì, la vita è stata squisita," mormorò, "ma non condurrò più questa vita, Harry. E non devi dirmi queste cose bizzarre. Di me non sai tutto. Credo che se lo sapessi, anche tu ti allontaneresti da me. Ridi, ma non è il caso."
"Perché hai smesso di suonare, Dorian? Torna al pianoforte e suonami di nuovo quel notturno. Guarda quella grande luna color miele sospesa nell'aria fosca. Aspetta che tu la incanti e, se suoni, si avvicinerà alla terra. Non vuoi? Andiamo al club, allora. È stata una serata affascinante e dobbiamo finirla in modo affascinante. C'è una persona da White che desidera infinitamente conoscerti: il giovane Lord Poole, il figlio minore di Bournemouth. Ha già copiato le tue cravatte e mi ha pregato di presentartelo. È molto piacevole e ti assomiglia un poco."
"Spero di no," disse Dorian con un'espressione di tristezza nello sguardo. "Ma stasera sono stanco, Harry. Non verrò al club. Sono quasi le undici e voglio andare a letto presto."
"Rimani. Non hai mai suonato bene come questa sera. C'era nel tuo tocco qualche cosa di meraviglioso: una forza espressiva che non avevo mai sentito prima."
"È perché sto per diventar buono," rispose Dorian, sorridendo. "Un poco sono già cambiato."
"Per me non puoi cambiare, Dorian," disse Lord Henry. "Tu ed io saremo sempre amici."
"Tuttavia una volta mi hai avvelenato con un libro e non lo dimenticherò. Harry, promettimi che non presterai a nessuno quel libro: è dannoso."
"Mio caro ragazzo, adesso fai davvero il moralista. Tra poco andrai in giro come i convertiti e i revivalisti a mettere in guardia la gente contro i peccati di cui ti sei stancato. Ma sei troppo bello per farlo. E, d'altra parte, è inutile: tu ed io siamo quel che siamo e saremo quel che saremo. Quanto all'essere avvelenato da un libro, è una cosa impossibile. L'arte non ha nessuna influenza sulle azioni: annulla il desiderio di agire. I libri che la gente dice immorali sono quelli che rivelano alla gente le sue vergogne. Tutto qui. Ma non voglio discutere di letteratura. Fatti vedere, domani. Andrò a cavalcare alle undici. Potremmo andare insieme e dopo ti porterò a cena da Lady Branksome. È una donna piena di fascino e vorrebbe il tuo parere su alcune tappezzerie che intende comperare. Ricordati di venire. Oppure andremo a pranzo con la nostra duchessina? Dice che non ti ha più visto. Ti sei forse stancato di Gladys? Lo pensavo. Quei suoi discorsi intelligenti danno sui nervi. Bene, ad ogni modo, vieni alle undici."
"Devo proprio venire?"
"Certo. Il Park è molto bello in questo periodo. Non credo che ci siano stati dei lillà così belli da quando ti ho conosciuto."
"Benissimo. Sarò qui alle undici," disse Dorian. "Buona notte Harry." Quando fu sulla soglia esitò un attimo, come volesse dire ancora qualche cosa, poi sospirò ed uscì.
XX
Era una bella nottata, così tiepida che gettò il soprabito sul braccio e non si avvolse nemmeno la sciarpa di seta intorno al collo. Mentre si dirigeva verso casa fumando una sigaretta, due giovani in abito da sera gli passarono accanto. Sentì uno dei due sussurrare all'altro: "Quello è Dorian Gray." Ricordò come gli faceva piacere una volta quando lo indicavano, lo fissavano o parlavano di lui. Adesso era stanco di sentire ripetere il suo nome. Il fascino del piccolo villaggio dove era stato tanto spesso negli ultimi tempi era dovuto per metà al fatto che nessuno sapeva chi fosse. Aveva detto molte volte alla ragazza che aveva lusingato a innamorarsi di lui, di essere povero e lei gli aveva creduto. Una volta le aveva detto di essere malvagio e lei aveva riso, dicendogli che i malvagi sono sempre vecchi e brutti. Quella sua risata pareva il canto di un tordo. E come era bella con i suoi vestitini di cotone e i suoi grandi cappelli! Non sapeva nulla ma aveva tutto ciò che lui aveva perduto.
A casa trovò il cameriere che lo attendeva. Lo mandò a letto, si distese sul divano della biblioteca e cominciò a pensare ad alcune delle cose che Lord Henry gli aveva detto.
Era proprio vero che è impossibile cambiare? Provava un desiderio sfrenato per l'immacolata purezza dell'adolescenza: la sua infanzia bianco rosata, come l'aveva chiamata una volta Lord Henry. Sapeva di essersi macchiato, di aver colmato lo spirito di corruzioni, di aver nutrito di orrori la sua fantasia; sapeva di aver avuto un'influenza maligna sugli altri e di aver provato una gioia terribile nel farlo; e sapeva che delle vite che avevano attraversato la sua, proprio le più belle e le più ricche di promesse, erano state da lui condotte all'infamia. Ma era irreparabile, tutto questo? Non aveva nessuna speranza?
Ah! in quale mostruoso attimo di orgoglio e di passione aveva invocato che il ritratto portasse il peso dei suoi giorni, lasciando a lui l'immacolato candore dell'eterna giovinezza! A questo era dovuto il suo fallimento. Sarebbe stato meglio, per lui, se ogni peccato avesse portato con sé il suo castigo certo e immediato. Il castigo purifica. Non "perdona i nostri peccati", ma "colpiscici per le nostre iniquità" dovrebbe essere la preghiera dell'uomo nei confronti di un Dio più giusto.
Lo specchio stranamente intagliato che Lord Henry gli aveva regalato molti anni prima era sulla tavola e, come un tempo, gli amorini dalle bianche membra ridevano tutto intorno alla cornice. Lo sollevò, come aveva fatto in quella notte tremenda quando per la prima volta aveva notato il cambiamento nel quadro fatale, e guardò la liscia superficie con occhi disperati e colmi di lacrime. Una volta, una persona che lo aveva amato terribilmente gli aveva scritto una lettera folle che terminava con queste parole di adorazione: "Il mondo è cambiato perché tu sei fatto di avorio e d'oro. La curva delle tue labbra riscrive la storia." La frase gli ritornò alla mente e la ripeté più volte tra sé, poi imprecò contro la propria bellezza e, gettato lo specchio sul pavimento, lo ridusse a schegge d'argento sotto i tacchi. La bellezza lo aveva rovinato, la bellezza e la giovinezza da lui invocata. Senza queste due cose, la sua vita avrebbe potuto essere senza macchie. La sua bellezza era stata solo una maschera, la gioventù solo una beffa. Che cos'era la gioventù, nel migliore dei casi? Un'età verde, acerba, un'età di amori superficiali e di pensieri morbosi. Perché ne aveva indossato la livrea? La gioventù lo aveva rovinato.
Meglio non pensare al passato. Nulla poteva mutarlo. A se stesso, al suo futuro, doveva pensare. James Vane era sepolto in una tomba senza nome nel cimitero di Selby. Alan Campbell si era sparato una sera nel suo laboratorio, senza però rivelare il segreto che era stato costretto a conoscere. L'eccitazione per la scomparsa di Basil Hallward si sarebbe esaurita presto. Stava già affievolendosi. Da quel lato si sentiva al sicuro. E, d'altra parte, non era la morte di Basil Hallward che gli opprimeva la mente. Lo preoccupava piuttosto la morte vivente della sua anima. Basil aveva dipinto il ritratto e gli aveva rovinato la vita. Non glielo poteva perdonare. Il ritratto era la causa di tutto. Basil gli aveva detto delle cose intollerabili e tuttavia le aveva sopportate pazientemente. L'omicidio era stato solo un atto di follia momentanea. Per quanto riguardava Alan Campbell, poi, era lui che si era ucciso. Lo aveva fatto di sua volontà, la cosa non lo riguardava affatto.
Una nuova vita! Ecco che cosa voleva. Ecco che cosa attendeva. Certo l'aveva già iniziata. In ogni caso aveva risparmiato una creatura innocente. Non avrebbe mai più insidiato l'innocenza, sarebbe stato buono.
Pensando a Hatty Merton, si domandò se il ritratto nella camera chiusa fosse cambiato. Certo, non doveva più essere così orribile. Forse, se fosse riuscito a purificare la sua vita, sarebbe stato in grado di eliminare dal viso le tracce di ignobili passioni. Forse le tracce del male erano già scomparse. Sarebbe andato a vedere.
Prese la lampada sulla tavola e salì cautamente le scale. Mentre apriva la porta, un sorriso di gioia gli sfiorò il viso stranamente giovane e indugiò un attimo sulle labbra. Sì, sarebbe stato buono e l'orrenda cosa nascosta non lo avrebbe più terrorizzato. Gli parve che il peso gli fosse già stato tolto di dosso.
Entrò tranquillamente, chiuse la porta alle sue spalle, come era solito fare, e tolse il panno cremisi dal ritratto. Un grido di dolore e di indignazione gli sfuggì dalle labbra. Non riusciva a scorgere nessun cambiamento, se non negli occhi che avevano assunto un'espressione scaltra e nella bocca sulla quale erano apparse le rughe dell'ipocrisia. La cosa era sempre disgustosa - più ripugnante di prima, se possibile - e la rugiada scarlatta che macchiava la mano sembrava più brillante, più simile a sangue appena versato. Allora cominciò a tremare. Solo per vanità aveva compiuto la sua unica buona azione? Oppure per desiderio di una nuova sensazione, come aveva suggerito Lord Henry con la sua risata beffarda? O per quel desiderio di recitare una parte che a volte ci fa compiere azioni migliori di noi? O forse per tutte queste cose insieme? E come mai la macchia rossa si era allargata? Pareva essersi diffusa come un'orribile malattia sulle dita rugose. C'era del sangue sui piedi come se fosse colato, sangue anche sulla mano che non aveva impugnato il coltello. Confessare? Voleva dire che doveva confessare? Denunciarsi e farsi condannare a morte? Rise. L'idea gli sembrava mostruosa. D'altra parte, se anche avesse confessato, chi gli avrebbe creduto? Della vittima non rimanevano tracce. Tutto quello che gli apparteneva era stato distrutto. Lui stesso aveva bruciato le cose che erano rimaste dabbasso. La gente avrebbe detto semplicemente che era matto. Se avesse insistito lo avrebbero chiuso in manicomio... Tuttavia era suo dovere confessare per soffrire pubblicamente la vergogna che gliene sarebbe venuta e per espiare davanti a tutti. C'era un Dio che imponeva agli uomini di rivelare i peccati in terra così come in cielo. Qualunque sua azione non lo avrebbe mondato finché non avesse confessato la sua colpa. La sua colpa? Scosse le spalle. La morte di Basil Hallward gli sembrava una cosa di minima importanza. Pensava a Hatty Merton: non era infedele, questo specchio della sua anima che stava fissando. Vanità? Curiosità? Ipocrisia? Solo questi erano i motivi della sua rinuncia? No, c'era stato qualche cosa di più. Almeno così pensava. Ma chi poteva dirlo? ... No, non c'era stato nient'altro. L'aveva risparmiata per vanità, per ipocrisia aveva indossato la maschera della bontà, per curiosità era stato spinto alla rinuncia. Ora se ne rendeva conto.
Ma questo delitto... lo avrebbe perseguitato per tutta la vita? Sarebbe sempre stato costretto a sopportare il peso del suo passato? Doveva proprio confessare? Mai. Era rimasto solo un elemento di prova contro di lui. Il ritratto: ecco la prova. Lo avrebbe distrutto. Perché lo aveva conservato per tanto tempo? Una volta gli faceva piacere vederlo cambiare e invecchiare. Negli ultimi tempi questo piacere era scomparso. Lo teneva sveglio la notte. Quando era lontano lo terrorizzava l'idea che altri potessero vederlo, aveva portato la malinconia nelle sue passioni, il suo ricordo gli aveva rovinato diversi momenti di gioia. Per lui aveva rappresentato la coscienza. Sì, era stato una coscienza. L'avrebbe distrutto.
Si guardò in giro e vide il coltello che aveva colpito Basil Hallward. Lo aveva pulito molte volte e non vi era rimasta nessuna macchia: era liscio e lucente. Come aveva ucciso il pittore così avrebbe ucciso la sua opera e tutto ciò che essa significava. Avrebbe ucciso il passato e, quando il passato fosse morto, sarebbe stato libero. Avrebbe ucciso la mostruosa vita della sua anima e, senza i suoi infami avvertimenti, si sarebbe sentito in pace. Afferrò il coltello e colpì la tela.
Si udì un grido poi un tonfo. Un grido di agonia così terribile che i domestici si svegliarono spaventati e uscirono intimoriti dalle loro stanze. Due signori che passavano nella piazza si fermarono e guardarono in alto, verso la grande casa. Proseguirono finché incontrarono un poliziotto e lo condussero lì. L'uomo suonò diverse volte il campanello ma non ottenne risposta. Tranne una finestra illuminata all'ultimo piano, la casa era immersa nell'oscurità. Dopo un poco si allontanò, si fermò sotto un portico vicino e rimase a osservare.
"Di chi è questa casa, agente?" domandò il più giovane dei due.
"Del signor Dorian Gray, signore," rispose il poliziotto.
I due uomini si guardarono e si allontanarono con una smorfia di scherno. Uno dei due era lo zio di Sir Henry Ashton.
All'interno, nei quartieri della servitù, i domestici semisvestiti parlavano tra loro a bassa voce. La vecchia signora Leaf piangeva e si torceva le mani. Francis era pallido come un morto.
Dopo un quarto d'ora circa prese con sé un cocchiere e uno degli uomini di fatica. Bussarono, ma non ottennero risposta. Chiamarono. Tutto era silenzioso. Alla fine, dopo aver tentato invano di forzare la porta, salirono sul tetto e si calarono sul balcone. La finestra cedette facilmente: la serratura era vecchia.
Quando furono entrati, videro appeso alla parete uno splendido ritratto del loro padrone come lo avevano visto l'ultima volta, in tutto lo splendore della sua gioventù e della sua bellezza. Disteso sul pavimento c'era un uomo, in abito da sera, con un coltello piantato nel cuore. Era sfiorito, rugoso, con un volto ripugnante. Solo quando esaminarono i suoi anelli lo riconobbero.
FINE
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AUDIOBOOK IN VERSIONE ORIGINALE
I
Lo studio era pervaso dall'odore intenso delle rose e, quando tra gli alberi del giardino spirava la leggera brezza estiva, dalla porta spalancata entrava l'intenso odore dei lillà, o il più delicato profumo dei fiori rosa dell'eglantina.
Dall'angolo del divano di coperte da sella persiane, sul quale era sdraiato, fumando com'era sua abitudine innumerevoli sigarette, Lord Henry Wotton coglieva lo splendore dei fiori di liburno del colore e della dolcezza del miele, i cui tremuli rami parevano appena sopportare il peso della loro fiammeggiante bellezza. Ogni tanto, l'ombra fantastica di un uccello in volo saettava, con un fuggevole effetto giapponese, sulle lunghe tende di seta grezza tese dinanzi all'enorme finestra ricordandogli quei pittori di Tokio dal viso di pallida giada che, con i mezzi di un'arte necessariamente immobile, cercano di rendere il senso della velocità e del moto. Il cupo ronzio delle api che vagavano tra le alte erbe non falciate o roteavano con monotona insistenza intorno agli stami coperti di polvere dorata degli sparsi caprifogli sembrava rendere ancora più opprimente la sensazione di immobilità. Il rombo sommesso della città di Londra ricordava le note basse di un organo lontano.
In mezzo alla stanza, fissato a un cavalletto, stava il ritratto a figura intera di un giovane di straordinaria bellezza e di fronte, poco lontano, sedeva l'autore, Basil Hallward, la cui improvvisa scomparsa alcuni anni prima aveva suscitato tanto scalpore e fatto sorgere tante strane congetture.
Mentre il pittore guardava la forma bella e piena di grazia che con tanta abilità artistica aveva raffigurato, un sorriso di compiacimento gli attraversò il volto e parve volervisi fermare. Ma, improvvisamente, si alzò e chiudendo gli occhi posò le dita sulle palpebre, come se volesse tener prigioniero nella mente uno strano sogno da cui temeva ridestarsi.
"È la tua opera migliore, Basil, la più bella cosa che hai mai fatto," disse languido Lord Henry. "Devi assolutamente esporla al Grosvenor. L'Accademia è troppo grande e troppo volgare. Ogni volta che ci sono andato c'era tanta di quella gente che non sono riuscito a vedere i quadri, il che è tremendo, oppure tanti di quei quadri che non sono riuscito a vedere la gente, il che è anche peggio. Davvero, il Grosvenor è l'unico posto possibile."
"Penso che non lo esporrò in nessun posto," rispose il pittore gettando all'indietro il capo in quello strano modo che provocava le risate dei suoi compagni di Oxford. "No, non lo esporrò in nessun posto."
Lord Henry inarcò le sopracciglia e lo guardò stupito attraverso le sottili spire di fumo che salivano in fantastici arabeschi dalla sigaretta grevemente oppiata. "Non vuoi esporlo? Perché, mio caro amico? C'è qualche motivo? Che strani tipi siete, voi pittori! Fate qualunque cosa per ottenere una reputazione, poi non appena l'avete raggiunta pare che la vogliate gettare via. È una sciocchezza, perché al mondo c'è una sola cosa peggiore del far parlare di sé ed è il non far parlare di sé. Un ritratto come questo ti porrebbe più in alto di tutti i giovani inglesi e ti farebbe invidiare dai vecchi, posto che i vecchi siano in grado di provare emozioni."
"So che riderai di me," rispose il pittore, "ma non posso davvero esporlo. Vi ho messo dentro troppo di me."
Lord Henry si allungò sul divano ridendo.
"Sì, sapevo che avresti riso; comunque è proprio vero."
"Troppo di te! Parola mia, Basil, non ti credevo così vanitoso; e non riesco proprio a trovare nessuna rassomiglianza tra te, con quel tuo viso forte e marcato e i capelli neri come il carbone, e questo giovane Adone che pare fatto di avorio e petali di rosa. Infatti, mio caro Basil, lui è un Narciso e tu... ecco, naturalmente hai un'espressione intelligente e tutto il resto, ma la bellezza, la vera bellezza, finisce dove inizia l'espressione intelligente. L'intelletto è di per se stesso una sorta di eccesso e in qualunque volto distrugge l'armonia. Non appena uno comincia a pensare, diventa tutto naso o tutta fronte, oppure qualcosa di orrendo. Guarda quelli che hanno avuto successo nelle professioni intellettuali. Sono assolutamente disgustosi. Eccetto, naturalmente, gli uomini di chiesa. Ma, del resto, gli uomini di chiesa non pensano. A ottant'anni un vescovo continua a ripetere quello che gli è stato insegnato a diciotto e, come naturale conseguenza, ha sempre un aspetto delizioso. Questo tuo misterioso amico di cui non mi hai mai detto il nome, ma il cui ritratto trovo davvero affascinante, non pensa mai. Ne sono assolutamente sicuro. È una creatura bella e priva di cervello, una creatura che si dovrebbe avere sempre vicina d'inverno, quando non ci sono fiori da ammirare e d'estate, quando si sente il bisogno di qualcosa che rinfreschi l'intelligenza. Non illuderti, Basil, non gli assomigli minimamente."
"Non mi hai capito, Harry," replicò l'artista. "Naturalmente non gli assomiglio. Lo so perfettamente. In realtà mi dispiacerebbe assomigliargli. Scuoti le spalle? No, dico la verità. In ogni genere di distinzione, sia intellettuale che fisica, c'è una fatalità, quel genere di fatalità che, nella storia, pare in agguato sui passi incerti dei re. È meglio non essere diversi dal nostro prossimo. I brutti e gli stupidi hanno la parte migliore del mondo. Possono mettersi seduti a loro agio e godersi lo spettacolo. Se della vittoria non sanno nulla, gli viene perlomeno risparmiata la consapevolezza della sconfitta. Vivono come tutti dovremmo vivere: senza turbamenti, indifferenti e senza preoccupazioni. Non fanno male agli altri e non ricevono male da mani altrui. La tua nobiltà e la tua ricchezza, Harry, la mia intelligenza, per quel che può essere, la mia arte per quel che può valere, la bellezza di Dorian Gray: tutti soffriremo di ciò che gli dei ci hanno donato, ne soffriremo terribilmente tutti."
"Dorian Gray? Si chiama così?" domandò Lord Henry, muovendosi verso Basil Hallward.
"Sì, si chiama così. Non volevo dirtelo."
"Perché no?"
"Oh, non saprei spiegartelo. Quando una persona mi piace moltissimo, non dico mai a nessuno il suo nome. È come cederne una parte. Sono giunto ad amare la segretezza. Pare essere l'unica cosa che può renderci piena di meraviglia e di mistero la vita moderna. Basta nasconderla, e la più banale delle cose diventa deliziosa. Quando parto da Londra, non dico mai ai miei dove vado. Se lo dicessi, perderei ogni piacere. È una stupida abitudine, certo, ma in un certo qual modo pare che porti una grossa dose di romanticismo nella nostra vita. Immagino che mi riterrai tremendamente stupido."
"Niente affatto," rispose Lord Henry, "niente affatto. Forse dimentichi che sono sposato e l'unico elemento di fascino del matrimonio sta nella necessità di una vita di inganni tra i coniugi. Io non so mai dov'è mia moglie e lei non sa mai che cosa sto facendo. Quando ci incontriamo, succede qualche volta, se usciamo insieme a cena o andiamo dal duca, ci raccontiamo con l'espressione più seria le cose più assurde. In questo mia moglie è molto brava, molto più brava di me. Non confonde mai i suoi appuntamenti, mentre a me capita regolarmente. Ma quando mi coglie in fallo, non mi fa scenate. A volte vorrei che me le facesse, ma lei si limita a prendermi in giro."
"Non sopporto il modo che hai di parlare della tua vita matrimoniale, Harry," disse Basil Hallward, dirigendosi verso la porta che dava sul giardino. "Ritengo che tu sia un ottimo marito, ma che ti vergogni moltissimo delle tue virtù. Sei un tipo straordinario. Non dici mai una sola parola morale e non fai mai una cosa sbagliata. Il tuo cinismo è semplicemente una posa."
"La naturalezza è semplicemente una posa, e la più irritante che conosca," esclamò Lord Henry ridendo. I due uomini uscirono insieme nel giardino e si accomodarono su un lungo sedile di bambù all'ombra di un alto cespuglio di alloro. Il sole scivolava sulle foglie lucide, bianche margherite fremevano nell'erba.
Dopo una pausa, Lord Henry estrasse l'orologio. "Mi dispiace, Basil, ma devo andare," mormorò, "e prima di andarmene vorrei che tu rispondessi a una domanda che ti ho fatto poco fa."
"Quale domanda?" domandò il pittore, tenendo gli occhi fissi a terra.
"Lo sai benissimo."
"Non lo so, Harry."
"Bene, te la ripeterò. Voglio che tu mi spieghi perché non vuoi esporre il ritratto di Dorian Gray. Voglio sapere il vero motivo."
"Te l'ho detto."
"No. Hai detto che non volevi, perché in esso c'era troppo di te. Ora, questo è infantile."
"Harry," disse Basil Hallward, guardandolo negli occhi, "ogni ritratto dipinto con sentimento è un ritratto dell'artista, non del modello. Il modello è solamente un accidente, l'occasione. Non è lui quello che viene rivelato dal pittore; è piuttosto il pittore che sulla tela dipinta rivela se stesso. Il motivo per cui non esporrò questo quadro è che ho il timore di avervi messo in evidenza il segreto della mia anima."
Lord Henry rise. "E qual è questo segreto?"
"Te lo dirò," disse Hallward, ma sul viso gli apparve un'espressione perplessa.
"Sono impaziente, Basil," insistette l'amico lanciandogli un'occhiata.
"Oh, c'è davvero molto poco da dire, Harry," rispose il pittore, "e temo che ti sarà difficile capirlo. Forse non lo crederai nemmeno."
Lord Henry sorrise, si chinò a raccogliere nell'erba una margherita dai petali rosati e la esaminò. "Sono sicuro che ti capirò," replicò fissando attentamente il minuscolo disco d'oro piumato di bianco, "e per quanto riguarda il credere, posso credere a qualunque cosa purché sia del tutto incredibile."
Il vento fece cadere alcuni boccioli dagli alberi e i pesanti lillà con i loro grappoli di stelle oscillarono nell'aria languida. Accanto al muro una cavalletta iniziò a emettere il suo lieve stridio e una lunga e sottile libellula fluttuò nell'aria come un filo azzurro sulle ali di seta bruna. Lord Henry aveva l'impressione di percepire il palpito del cuore di Basil Hallward. Si chiese che cosa stesse avvenendo.
"La storia è semplicemente questa," disse il pittore dopo qualche attimo. "Due mesi fa andai a un ricevimento da Lady Brandon. Sai che noi poveri artisti di tanto in tanto ci dobbiamo far vedere in società, solo per ricordare al pubblico che non siamo selvaggi. Sei stato tu una volta a dirmi che, con un abito da sera e una cravatta bianca, chiunque, persino un agente di cambio, può guadagnarsi la reputazione di creatura civile. Bene, mi trovavo nella stanza da una decina di minuti e stavo parlando con enormi matrone troppo vestite e con noiosi accademici, quando improvvisamente mi resi conto che qualcuno mi stava guardando. Mi girai a metà e per la prima volta vidi Dorian Gray. Quando i nostri occhi si incontrarono mi sentii impallidire. Fui preso da una strana sensazione di terrore. Mi rendevo conto di trovarmi di fronte a un uomo il cui semplice fascino personale era tale che, se mi fossi lasciato andare, se glielo avessi permesso, avrebbe assorbito in sé la mia vera natura, la mia vera anima, persino la mia arte. Non voglio influenze esterne nella mia vita. Tu stesso, Harry, sai quanto io sia indipendente di natura. Sono sempre stato padrone di me stesso o almeno lo sono stato finché non ho incontrato Dorian Gray. Allora... ma non so come spiegartelo. Qualcosa pareva dirmi che ero sull'orlo di una terribile crisi. Avevo la strana sensazione che il destino avesse in serbo per me gioie squisite e squisite tristezze. Ebbi paura e mi voltai per lasciare la stanza. Non era la coscienza che mi spingeva a farlo, quanto piuttosto una sorta di viltà. Non mi vanto di aver cercato di fuggire."
"La coscienza e la viltà sono esattamente la stessa cosa, Basil. La coscienza è semplicemente il marchio di fabbrica della ditta: tutto qui."
"Non credo, Harry, e non credo nemmeno che tu ne sia convinto. In ogni modo, qualunque fosse il motivo, può anche darsi che fosse l'orgoglio, dato che sono molto orgoglioso, è certo che mi diressi decisamente verso la porta. E qui, naturalmente, inciampai in Lady Brandon. "Non intenderà lasciarci così presto, signor Hallward?" gridò. La conosci quella sua voce stranamente stridula."
"Sì, assomiglia in tutto a un pavone, fuorché nella bellezza," disse Lord Henry, facendo a pezzi la margherita con le lunghe dita nervose.
"Non riuscii a liberarmi di lei. Mi portò dalle Altezze Reali, da gente con Stelle e Giarrettiere, da vecchie dame con diademi giganteschi e nasi da pappagallo. Parlava di me come se fossi il suo più caro amico. In precedenza l'avevo incontrata solo una volta, ma si era messa in testa di esibirmi. Mi pare che in quel periodo uno dei miei quadri avesse riscosso un grande successo, o perlomeno se ne era parlato sui quotidiani popolari che nel diciannovesimo secolo rappresentano il sigillo dell'immortalità. E, improvvisamente, mi trovai faccia a faccia con il giovane la cui personalità mi aveva così stranamente turbato. Eravamo vicinissimi, quasi ci toccavamo. I nostri occhi si incontrarono una volta ancora. Fu un atto incauto da parte mia, ma chiesi a Lady Brandon di presentarmelo. Forse, dopotutto, non fu un atto così incauto: era semplicemente inevitabile. Ci saremmo parlati anche senza nessuna presentazione, ne sono certo. In seguito Dorian me lo disse. Anche lui aveva avuto la sensazione che fossimo destinati a conoscerci."
"E che cosa ti disse Lady Brandon di questo meraviglioso giovane?" domandò l'amico. "So che si dedica sempre a esporre un breve précis di tutti i suoi ospiti. Ricordo che una volta mi presentò a un vecchio gentiluomo dall'aria truculenta e dal volto scarlatto tutto coperto di nastri e decorazioni, sussurrandomi all'orecchio in un tragico bisbiglio, che probabilmente fu udito da tutti nella stanza, particolari stupefacenti. Semplicemente, scappai. Mi piace scoprire la gente da solo. Ma Lady Brandon tratta i suoi ospiti esattamente come un banditore tratta la sua merce: o li presenta in forma completamente sbagliata, oppure dice sul loro conto tutto, salvo quello che uno desidera sapere."
"Povera Lady Brandon! Sei duro con lei!" disse Hallward distrattamente.
"Mio caro, ha cercato di mettere in piedi un salon ed è riuscita solo ad aprire un ristorante. Come potrei ammirarla? Ma, dimmi, che cosa ti ha detto del signor Dorian Gray?"
"Oh, qualcosa come "Un ragazzo affascinante... la sua povera madre e io eravamo davvero inseparabili. Non ricordo assolutamente che cosa faccia... temo che... non faccia nulla... oh, sì, suona il pianoforte... o il violino, signor Gray?" Scoppiammo a ridere tutti e due e diventammo subito amici."
"Il ridere non è un brutto modo per iniziare un'amicizia, ed è senz'altro il migliore per terminarla," disse il giovane Lord, cogliendo un'altra margherita.
Hallward scosse il capo. "Tu non sai che cosa sia l'amicizia, Harry," mormorò, "né che cosa sia l'inimicizia, del resto. A te piace chiunque, il che equivale a dire che tutti ti sono indifferenti."
"Sei terribilmente ingiusto!" esclamò Lord Henry spingendo all'indietro il cappello e alzando lo sguardo verso le piccole nubi che, come intricate matasse di lucente seta bianca, veleggiavano nel cavo turchese del cielo estivo. "Sì, sei terribilmente ingiusto. Io faccio molta differenza tra le persone. Scelgo gli amici per la bellezza, i conoscenti per il buon carattere e i nemici per l'intelligenza. Non si è mai abbastanza attenti nella scelta dei propri nemici. Io non ne ho nemmeno uno che sia stupido. Sono tutti persone dalle notevoli capacità intellettuali e, di conseguenza, mi apprezzano. È una manifestazione di vanità da parte mia? Io penso di sì."
"Pare anche a me, Harry. Ma, secondo questa classificazione, io sono soltanto un conoscente."
"Vecchio mio, tu sei molto più di un conoscente."
"E molto meno di un amico. Una specie di fratello, immagino."
"Oh, i fratelli! Non mi interessano i fratelli! Mio fratello maggiore non vuol morire, e i miei fratelli più giovani pare che non facciano altro."
"Harry!" esclamò Hallward, aggrottando le sopracciglia.
"Caro amico, non dico sul serio. Ma non posso fare a meno di detestare i miei parenti. Immagino che sia dovuto al fatto che nessuno può sopportare chi possiede gli stessi suoi difetti. Ho molta simpatia per la rabbia che la democrazia inglese nutre nei confronti di quelli che chiamano i vizi delle classi superiori. Le masse pensano che l'ubriachezza, la stupidità e l'immoralità debbano essere una loro speciale prerogativa e che, se qualcuno di noi si comporta da deficiente, va a caccia nelle loro riserve. Quando il povero Southwark si presentò di fronte al tribunale dei divorzi, la loro indignazione fu spettacolare. E tuttavia non penso che il dieci per cento del proletariato viva nell'onestà."
"Non sono d'accordo su una sola parola di ciò che hai detto, Harry, e quel che è di più sono sicuro che nemmeno tu lo sei."
Lord Henry si lisciò la bruna barba appuntita e assestò un colpetto alla scarpa di vernice con il fiocco del bastone di ebano. "Come sei inglese, Basil! È la seconda volta che fai questa osservazione. Quando si espone un'idea a un vero inglese, il che è sempre un atto temerario, costui non si sogna nemmeno di valutare se l'idea è giusta o sbagliata. L'importante per lui è sapere se chi l'ha esposta ne è convinto o meno. Ora, il valore di un'idea non ha nulla a che vedere con la sincerità di chi la espone. In realtà, la cosa più probabile è che quanto meno uno è sincero tanto più intellettualmente pura sia l'idea perché non sarà inquinata né dai suoi difetti, né dai suoi desideri o dai suoi pregiudizi. Tuttavia non intendo discutere di politica, di sociologia o di metafisica con te. Mi piacciono le persone più dei principi e più di qualunque altra cosa mi piacciono le persone senza principi. Parlami ancora del signor Dorian Gray. Lo vedi spesso?"
"Ogni giorno. Non sarei contento se non lo vedessi ogni giorno. Mi è assolutamente necessario."
"Straordinario! Pensavo che ti interessasse solo la tua arte."
"In questo momento lui rappresenta per me tutta la mia arte," disse gravemente il pittore. "Harry, a volte penso che nella storia del mondo ci siano solo due momenti importanti. Il primo è quando appare un nuovo mezzo artistico, il secondo quando appare una nuova personalità artistica. Quello che per i veneziani fu l'invenzione dei colori ad olio, fu per la tarda scultura greca il volto di Antinoo e un giorno sarà per me il volto di Dorian Gray. Non solo perché dipingo, disegno, schizzo prendendolo come modello. Naturalmente ho fatto tutte queste cose, ma Dorian è per me molto più di un modello o di un soggetto. Non ti dirò che non sono soddisfatto di quel che ho tratto da lui, né che la sua bellezza è tale che l'arte non è in grado di esprimerla. Non c'è nulla che l'arte non possa esprimere e so che ciò che ho fatto da quando ho conosciuto Dorian è un buon lavoro, il miglior lavoro della mia vita. Ma in qualche strano modo, spero che mi capirai, la sua personalità mi ha suggerito uno stile e una forma artistica completamente nuovi. Vedo diversamente le cose e le penso diversamente. Adesso sono in grado di ricreare la vita in una forma che prima mi era preclusa. "Un sogno di forma in giorni di pensiero": chi l'ha detto? Me ne sono dimenticato ma proprio questo Dorian Gray ha rappresentato per me. La sola presenza di questo ragazzo, perché mi sembra un ragazzo, anche se ha più di vent'anni, la sua sola presenza... ah! Mi chiedo se ti puoi rendere conto di che cosa tutto questo significhi. Inconsciamente lui mi delinea una nuova scuola, una scuola che dovrà avere in sé tutta la passione dello spirito romantico e tutta la perfezione dello spirito greco. L'armonia di anima e corpo... che cosa grande! Nella nostra follia noi li separiamo e abbiamo inventato un realismo che è volgare e un idealismo che è vuoto. Henry, se tu appena sapessi che cosa rappresenta per me Dorian Gray! Ricordi quel mio paesaggio che Agnew si era offerto di comperare per una somma altissima, ma dal quale non ho voluto separarmi? È una delle cose migliori che ho mai dipinto. E perché? Perché, mentre lo dipingevo, Dorian Gray era seduto accanto a me. Qualche sottile influenza passava da lui a me e, per la prima volta in vita mia, ho visto in una boscaglia la meraviglia che avevo sempre cercato e sempre mancato."
"È straordinario, Basil. Devo vedere Dorian Gray."
Hallward si alzò e fece qualche passo avanti e indietro nel giardino. Dopo qualche momento ritornò. "Harry," disse, "per me Dorian Gray è un semplice spunto artistico. In lui tu potresti non vedere nulla, mentre io ci vedo tutto. Non è mai tanto presente nella mia opera come quando in essa non appare nulla di lui. Come ti ho detto, Dorian ha ispirato il mio nuovo stile: lo ritrovo in certe linee, nella dolcezza e nell'elusività di certi colori. Solo questo."
"E allora perché non vuoi esporre il suo ritratto?" domandò Lord Henry.
"Perché, senza averne l'intenzione, vi ho inserito qualche manifestazione di questa strana idolatria artistica di cui, naturalmente, non mi sono mai curato di parlargli. Lui non ne sa nulla. E non ne saprà mai nulla. Ma il mondo potrebbe intuirlo e io non metterò a nudo la mia anima sotto i suoi occhi superficiali e curiosi. Non metterò mai il mio cuore sotto il microscopio del mondo. In quel ritratto c'è troppo di me, Harry... davvero troppo!"
"I poeti non hanno i vostri scrupoli. Sanno quanto la passione sia utile per pubblicare. Oggi, un cuore spezzato lo si stampa in molte edizioni."
"Li odio proprio per questo," esclamò Hallward. "Un artista dovrebbe creare cose belle, ma non dovrebbe inserirvi nulla della propria vita. Viviamo in un'epoca in cui gli uomini ritengono che l'arte sia una specie di autobiografia. Abbiamo perduto il senso della bellezza astratta. Un giorno mostrerò al mondo che cosa sia, e proprio per questo il mondo non vedrà mai il mio ritratto di Dorian Gray."
"Secondo me hai torto, Basil, ma non voglio discutere con te. Discute continuamente solo chi ha esaurito l'intelligenza. Dimmi, Dorian Gray prova un affetto intenso per te?"
Il pittore rifletté un poco. "Gli piaccio," rispose dopo qualche attimo; "so che gli piaccio. Naturalmente io lo adulo spaventosamente. Provo uno strano piacere a dirgli cose che so benissimo poi mi pentirò di avergli detto. Di regola è molto gentile con me, sediamo insieme nello studio e parliamo di una quantità di cose. Ogni tanto, però, si dimostra terribilmente irriflessivo e pare che si diverta davvero a farmi soffrire. Allora, Harry, ho la sensazione di aver ceduto la mia anima a qualcuno che la tratta come se fosse un fiore da mettere all'occhiello, una piccola decorazione per appagare la sua vanità, l'ornamento di un giorno d'estate."
"I giorni d'estate, Basil, favoriscono gli indugi," mormorò Lord Henry. "Forse ti stancherai prima di lui. È triste pensarlo, ma senza dubbio il genio è più duraturo della bellezza. Questo spiega perché noi tutti ci diamo tanta pena per istruirci all'eccesso. Nella lotta selvaggia per l'esistenza, cerchiamo di avere qualcosa di durevole e perciò ci riempiamo la mente di cose inutili e di fatti, sperando stupidamente di mantenere la nostra posizione. L'uomo che sa tutto: ecco l'ideale moderno. E la mente dell'uomo che sa tutto è una cosa terribile. È come un negozio di cianfrusaglie, pieno di polvere e di mostruosità, dove ogni cosa ha un prezzo superiore di quel che vale. Comunque, penso che sarai il primo a stancarti. Un giorno guarderai il tuo amico e ti sembrerà un po' sfuocato, oppure non ti piacerà il tono del suo colore o qualche cosa di simile. Dentro di te, lo rimprovererai con durezza e penserai seriamente che si è comportato molto male nei tuoi confronti. Quando si farà nuovamente vivo, sarai assolutamente freddo e indifferente. Sarà un grosso peccato, perché questo produrrà in te un cambiamento. Quello che mi hai raccontato è un vero romanzo, lo si potrebbe chiamare un romanzo d'arte e la cosa peggiore che capita quando si vive un romanzo di qualunque tipo è che ci lascia completamente privi di sentimenti romantici."
"Non parlare in questo modo, Harry. La personalità di Dorian Gray mi dominerà finché vivrò. Non puoi sentire quello che sento io. Sei troppo incostante."
"Ah, mio caro Basil, proprio per questo posso sentirlo. Quelli che sono fedeli conoscono solo il lato banale dell'amore: sono gli infedeli che ne conoscono le tragedie." Lord Henry accese un fiammifero strofinandolo su una squisita scatoletta d'argento e iniziò a fumare una sigaretta con un'aria a un tempo soddisfatta e imbarazzata, come se, in una sola affermazione, avesse riassunto l'essenza del mondo. Tra le verdi foglie di lacca dell'edera si sentiva uno stormire di passeri cinguettanti, sull'erba le ombre azzurrine delle nubi si inseguivano come rondini. Come si stava bene nel giardino! E quant'erano piacevoli le emozioni degli altri!... molto più piacevoli delle loro idee, gli sembrava. La propria anima e le passioni di un amico: queste erano le cose affascinanti dell'esistenza. Con silenzioso piacere si raffigurò il pasto noioso che aveva mancato per rimanere tanto a lungo con Basil Hallward. Se fosse andato da sua zia, avrebbe incontrato di certo Lord Goodbody e si sarebbe parlato solo di come nutrire i poveri e della necessità di dormitori modello. Ciascuna classe avrebbe predicato l'importanza di quelle virtù che nella propria vita non erano necessarie. I ricchi avrebbero magnificato il valore della parsimonia e i pigri avrebbero parlato con eloquenza della dignità del lavoro. Per fortuna a tutto questo era sfuggito! E, mentre stava pensando a sua zia, un'idea parve colpirlo. Rivolgendosi a Hallward, disse: "Caro amico, adesso ricordo."
"Che cosa ricordi, Harry?"
"Dove ho già sentito il nome di Dorian Gray."
"E dove?" domandò Hallward, leggermente accigliato.
"Non fare quella faccia arrabbiata, Basil. È stato da mia zia, da Lady Agatha. Mi ha detto che aveva scoperto un meraviglioso giovanotto che l'avrebbe aiutata nell'East End e che si chiamava Dorian Gray. Devo riconoscere che non mi ha parlato della sua bellezza. Le donne non apprezzano la bellezza, le brave donne almeno. Disse che era molto onesto e che aveva un ottimo carattere. Immaginai immediatamente un tipo dai capelli lunghi, con gli occhiali, tutto coperto di lentiggini e barcollante su un paio di piedi enormi. Vorrei aver saputo che si trattava del tuo amico."
"Sono molto contento che tu non l'abbia saputo, Harry."
"Perché?"
"Perché non voglio che tu lo conosca."
"Non vuoi che lo conosca?"
"No."
"Il signor Dorian Gray è nello studio, signore," disse il maggiordomo scendendo in giardino.
"Adesso dovrai presentarmi," esclamò Lord Henry, ridendo.
Il pittore si rivolse al domestico che, immobile, socchiudeva gli occhi nel sole. "Preghi il signor Gray di attendere, Parker. Rientrerò tra qualche istante." L'uomo si inchinò e risalì lungo il vialetto.
Hallward si rivolse a Lord Henry. "Dorian Gray è il mio più caro amico," disse. "Ha una natura semplice e bella. Quello che ti ha detto tua zia è assolutamente vero. Non lo guastare. Non cercare di influenzarlo: la tua sarebbe una cattiva influenza. Il mondo è grande e in esso ci sono moltissime persone straordinarie. Non allontanare da me l'unica persona che dà alla mia arte tutto il suo fascino; la mia vita come artista dipende da lui. Ricorda, Harry, mi fido di te." Parlava lentamente e le parole parevano uscirgli contro la sua volontà.
"Che stupidaggini stai dicendo!" disse Lord Henry con un sorriso e, prendendolo a braccetto, quasi lo trascinò in casa.
II
Appena entrati, videro Dorian Gray. Sedeva di fronte al piano voltando loro le spalle e sfogliava le pagine di un fascicolo delle "Scene della foresta" di Schumann. "Me li devi prestare, Basil," esclamò. "Voglio studiarli. Sono proprio meravigliosi."
"Dipende da come poserai oggi, Dorian."
"Oh, sono stufo di posare, non ho nessuna voglia di avere un mio ritratto a grandezza naturale," rispose il giovane, girandosi sullo sgabello con un'espressione di arrogante petulanza. Vide Lord Henry e un accenno di rossore gli colorò le guance per un attimo; si alzò in piedi. "Ti prego di scusarmi, Basil. Non sapevo che ci fosse qualcuno con te."
"Questo è Lord Henry Wotton, Dorian, un mio vecchio amico di Oxford. Gli avevo appena detto che eri un modello eccezionale e ora hai guastato tutto."
"Non ha guastato il piacere che provo nel conoscerla, signor Gray," disse Lord Henry, facendosi avanti e tendendogli la mano. "Mia zia mi ha parlato spesso di lei: è uno dei suoi favoriti e, temo, una delle sue vittime."
"In questo momento sono sul libro nero di zia Agatha," rispose Dorian Gray, con una buffa espressione pentita. "Le avevo promesso di accompagnarla in un club di Whitechapel martedì scorso e me ne sono completamente dimenticato. Avremmo dovuto suonare un pezzo a quattro mani... tre pezzi, mi pare. Non so che cosa mi dirà. Sono troppo spaventato per farmi vivo."
"Oh, le farò far pace con la zia. Le vuole molto bene. E non credo che la sua assenza abbia avuto conseguenze di rilievo. Probabilmente il pubblico avrà pensato ugualmente di ascoltare un pezzo a quattro mani. Quando zia Agatha si mette al piano, fa abbastanza rumore per due."
"Questo è terribile verso la zia Agatha e non molto gentile verso di me," rispose Dorian ridendo.
Lord Henry lo osservò. Sì, era davvero meravigliosamente bello con quelle labbra rosse ben disegnate, i franchi occhi azzurri e i riccioli biondi. C'era nel suo volto qualcosa che ispirava immediatamente fiducia: tutto il candore della gioventù e, insieme, della gioventù l'appassionata purezza. Si avvertiva che non si era lasciato segnare dal mondo. Nessuna meraviglia che Basil Hallward lo adorasse.
"Lei è troppo affascinante per dedicarsi alla filantropia, signor Gray, davvero troppo affascinante." Lord Henry si lasciò cadere sul divano e aprì il portasigarette.
Il pittore era intento a mescolare i colori e a preparare i pennelli. Sembrava preoccupato e, nell'udire l'ultimo commento di Lord Henry, gli lanciò un'occhiata, esitò, poi disse: "Harry, vorrei finire il quadro oggi. Ti sembrerei troppo scortese se ti chiedessi di lasciarci?"
Lord Henry sorrise e guardò Dorian Gray. "Devo andarmene, signor Gray?" domandò.
"Oh, la prego, non se ne vada Lord Henry. Vedo che Basil ha uno dei suoi accessi di cattivo umore e quando è così non lo posso sopportare. D'altra parte, voglio che lei mi dica perché non devo dedicarmi alla filantropia."
"Non credo che glielo dirò, signor Gray. È un argomento così noioso che bisognerebbe parlarne seriamente. Ma ora che mi ha chiesto di rimanere, non scapperò via di certo. Non ti dispiace vero, Basil? Mi hai detto tante volte che sei contento se i tuoi modelli hanno qualcuno con cui chiacchierare."
Hallward si morse un labbro. "Se Dorian lo desidera, puoi rimanere, ovviamente. I suoi capricci sono legge per chiunque, tranne che per lui."
Lord Henry prese i guanti e il cappello. "Sei molto insistente, Basil, ma devo andare, mi dispiace. Ho promesso di incontrare una persona all'Orléans. Arrivederci, signor Gray. Venga a trovarmi qualche pomeriggio in Curzon Street. Alle cinque sono quasi sempre in casa. Mi scriva quando verrà. Mi dispiacerebbe molto che non mi trovasse."
"Basil," esclamò Dorian Gray, "se Lord Henry se ne va, me ne vado anch'io. Quando dipingi non dici una parola ed è terribilmente noioso stare immobile su un piedistallo cercando di assumere un'aria piacevole. Chiedigli di restare. Insisto."
"Resta, Harry, per fare un piacere a Dorian e per farlo a me," disse Hallward fissando attentamente il quadro. "È vero, quando lavoro non parlo mai e non ascolto: deve essere una cosa mortalmente noiosa per i miei disgraziati modelli. Ti prego di rimanere."
"Ma quella persona che devo incontrare all'Orléans?"
Il pittore rise. "Non credo che ci saranno difficoltà. Ritorna a sedere, Harry. E adesso, Dorian, sali sul piedistallo, non muoverti troppo e non badare a quello che ti dirà Lord Henry: ha una pessima influenza su tutti i suoi amici. Io sono l'unica eccezione."
Dorian Gray salì sulla piattaforma con l'aria di un giovane martire greco e rivolse una leggera moue di disappunto a Lord Henry per il quale provava già un notevole interesse. Era così diverso da Basil. Insieme, formavano un piacevole contrasto. E aveva una voce così bella. Dopo un momento gli disse: "Ha davvero una così cattiva influenza, Lord Henry? Cattiva come sostiene Basil?"
"Le buone influenze non esistono, signor Gray. Tutte le influenze sono immorali... immorali dal punto di vista scientifico."
"Perché?"
"Perché influenzare qualcuno significa dargli la propria anima: non pensa più con i suoi pensieri spontanei, né arde delle sue passioni spontanee. Non ha virtù proprie. I suoi peccati, se cose come i peccati esistono, sono presi a prestito. Diventa l'eco della musica suonata da un altro, l'interprete di una parte che non è stata scritta per lui. Lo scopo della vita è lo sviluppo di noi stessi. La perfetta realizzazione della nostra natura: questa è la ragione della nostra esistenza. Oggi l'uomo ha paura di sé. Ha dimenticato il più elevato di tutti i doveri, il dovere che ciascuno di noi ha nei confronti di se stesso. Naturalmente è caritatevole, dà da mangiare agli affamati e veste i mendicanti, ma la sua anima langue ed è nuda. Il coraggio ha abbandonato la nostra specie, o forse non lo abbiamo mai realmente avuto. Il timore della società, che è il fondamento della morale, il terrore di Dio, che è il segreto della religione, sono le due cose che ci governano. E tuttavia..."
"Dorian, volta la testa leggermente verso destra, da bravo," disse il pittore, immerso nel suo lavoro e conscio solo del fatto che nel viso del giovane era apparsa un'espressione che non aveva mai visto prima.
"E tuttavia," proseguì Lord Henry con la sua voce bassa e musicale e con quell'elegante ondeggiare della mano che era stato una sua caratteristica fin dai tempi di Eton, "credo che se ognuno dovesse vivere pienamente la sua vita, se desse concretezza a ogni sua sensazione, espressione a ogni pensiero, realtà a ogni sogno, credo che il mondo ne riceverebbe un così fresco impulso di gioia che dimenticheremmo tutti i malanni del medievalismo e ritorneremmo all'ideale ellenico e forse a qualcosa di più bello e più ricco dell'ideale ellenico. Ma il più coraggioso di noi ha paura di se stesso. Le mutilazioni dei selvaggi sopravvivono tragicamente nella repressione del proprio io che deturpa la nostra vita. Siamo puniti per i nostri rifiuti. Ogni impulso che cerchiamo di soffocare fermenta nella nostra mente e ci avvelena. Il corpo pecca una sola volta e supera subito il peccato, perché l'azione è un modo di purificarsi. Allora non rimane più nulla, salvo il ricordo del piacere, o il lusso di un rimpianto. L'unico modo di liberarsi di una tentazione è abbandonarvisi. Resisti, e la tua anima si ammalerà del desiderio delle cose che si è proibite, di passione per ciò che le sue stesse mostruose leggi hanno reso mostruoso e illegale. Si è detto che i grandi avvenimenti dell'umanità si sviluppano nel cervello. Ed è anche nel cervello che si verificano i grandi peccati dell'umanità. Lei, signor Gray, lei stesso durante la sua purpurea gioventù, durante la sua candida adolescenza, ha avuto passioni che l'hanno spaventata, pensieri che l'hanno riempita di terrore, sogni e fantasticherie il cui semplice ricordo dovrebbe farla arrossire di vergogna..."
"Basta!" balbettò Dorian Gray, "basta! Lei mi sconvolge. Non so che cosa risponderle: c'è una risposta ma non la trovo. Non parli, mi lasci pensare. O, meglio, lasci che provi a non pensare."
Rimase immobile per una diecina di minuti, le labbra semiaperte, gli occhi stranamente luminosi. Era oscuramente conscio che in lui agivano forze completamente nuove. E tuttavia gli pareva davvero, che provenissero dal suo intimo. Le poche parole che l'amico di Basil gli aveva detto, parole senza dubbio casuali e volutamente paradossali, avevano toccato qualche corda segreta che non era mai stata toccata prima, ma che ora sentiva vibrare e sussultare di uno strano fremito.
Nell'identico modo l'aveva colpito la musica: ne era stato molte volte sconvolto, ma la musica non è articolata, non crea in noi un nuovo mondo, quanto piuttosto un nuovo caos. Parole! Semplici parole! Quant'erano terribili! Quant'erano chiare, vivide, crudeli! Ad esse non si poteva sfuggire. E tuttavia quale sottile magia contenevano. Sembravano capaci di dare forma plastica a cose informi, sembravano possedere una musica loro, propria, dolce come quella della viola o del flauto. Semplici parole! C'era qualcosa di altrettanto reale quanto le parole?
Sì, nella sua adolescenza c'erano state cose che non aveva capito. Adesso le capiva. Improvvisamente la vita gli apparve del colore della fiamma. Gli sembrò di aver camminato fino a quel momento nel fuoco. Come mai non se ne era reso conto?
Lord Henry lo osservava con un leggero sorriso. Conosceva l'esatto momento psicologico in cui non bisognava dir nulla. Si sentì profondamente interessato. Lo stupiva l'intensa impressione provocata dalle sue parole e, ricordando un libro che aveva letto a sedici anni, un libro che gli aveva rivelato molte cose che non sapeva, si domandò se Dorian Gray non stesse attraversando la stessa esperienza. Aveva semplicemente scagliato una freccia in aria. Aveva colto il bersaglio? Quant'era affascinante quel ragazzo!
Hallward continuava a dipingere con quel suo tocco meravigliosamente sicuro, che possedeva l'autentica finezza e la perfetta delicatezza che nell'arte, in definitiva, vengono solo dalla forza. Non si accorgeva del silenzio.
"Basil, sono stanco di posare," si lamentò improvvisamente Dorian Gray. "Devo andare a sedermi in giardino. Qui si soffoca."
"Mio caro amico, mi dispiace davvero. Quando dipingo non penso ad altro. Ma non hai mai posato così bene. Stavi perfettamente immobile. E sono riuscito a cogliere l'effetto che volevo: le labbra semiaperte e questa luminosità nello sguardo. Non so che cosa ti stesse dicendo Harry, ma ti ha fatto assumere un'espressione meravigliosa. Immagino che ti abbia fatto dei complimenti. Non devi credere a una sola parola di quello che dice."
"Non mi ha fatto nessun complimento. Forse per questo non credo a nulla di ciò che mi ha detto."
"Sa benissimo di credere a tutto, invece," ribatté Lord Henry, fissandolo con quei suoi occhi languidi e sognanti. "La accompagnerò in giardino. Qui nello studio fa un caldo terribile. Basil, facci portare qualcosa di ghiacciato, qualcosa con delle fragole."
"Certo, Harry. Basta suonare il campanello e quando verrà Parker gli dirò che cosa desideri. Io devo lavorare allo sfondo e vi raggiungerò tra poco. Non trattenere troppo a lungo Dorian. Non ho mai dipinto bene come oggi. Questo sarà il mio capolavoro. Già adesso è il mio capolavoro."
Lord Henry uscì in giardino e trovò Dorian Gray che seppelliva il viso nei grandi freschi grappoli di lillà, bevendone il profumo come se fosse un vino. Gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla. "Fa bene," mormorò. "Nulla guarisce l'anima salvo i sensi, come nulla guarisce i sensi salvo l'anima."
Il giovane ebbe uno scatto e arretrò. Era a capo scoperto e le foglie gli avevano scomposto i riccioli ribelli, sconvolgendone la trama dorata. Negli occhi aveva un'espressione di spavento, come capita a chi viene svegliato improvvisamente. Le narici finemente cesellate fremettero e un nervo invisibile scosse le labbra scarlatte lasciandole frementi.
"Sì," proseguì Lord Henry, "questo è uno dei grandi segreti della vita: guarire l'anima con i sensi e i sensi con l'anima. Lei è una meravigliosa creatura. Lei sa più di quanto crede di sapere, proprio come sa meno di quanto vuole sapere."
Dorian Gray aggrottò le sopracciglia e distolse il viso: non poteva fare a meno di subire il fascino del giovane alto e aggraziato che gli stava accanto. Lo interessavano il suo romantico viso olivastro e l'espressione esausta. La sua voce bassa e languida aveva qualcosa di assolutamente affascinante. Anche le mani, bianche e fresche come fiori, possedevano uno strano fascino: quando Lord Henry parlava, si muovevano come una musica e parevano esprimersi in una loro lingua. Ma Dorian aveva paura di lui e si vergognava di aver paura. Perché era stato uno sconosciuto a rivelarlo a se stesso? Conosceva da mesi Basil Hallward, ma l'amicizia che c'era tra loro non lo aveva mai turbato. Improvvisamente, nella sua vita era apparso qualcuno che pareva avergli rivelato i misteri della vita. E, comunque, di che cosa doveva aver paura? Non era né uno scolaretto né una ragazzina. La sua paura era assurda.
"Andiamo a sederci all'ombra," disse Lord Henry. "Parker ha portato fuori le bibite e se lei rimane ancora sotto questo riverbero si sciuperà e Basil non le farà più ritratti. Davvero, non deve lasciare che il sole l'abbronzi. Non le si addice."
"Che importanza ha?" esclamò Dorian Gray ridendo, mentre sedeva sulla panchina in fondo al giardino.
"Per lei dovrebbe significare tutto, signor Gray."
"Perché?"
"Perché lei ha una giovinezza meravigliosa e la giovinezza è l'unica cosa che vale la pena di avere."
"Non mi sembra, Lord Henry."
"No, non le sembra adesso. Un giorno, quando sarà vecchio, rugoso, brutto, quando il pensiero avrà segnato di rughe la sua fronte e quando la passione avrà marcato le sue labbra del suo orrendo fuoco, le sembrerà, le sembrerà terribilmente. Ora, dovunque vada, lei affascina il mondo. Sarà sempre così?... Ha un viso meraviglioso, signor Gray. Non si accigli: lo ha. E la bellezza è una manifestazione del genio. In realtà è più elevata del genio, perché non ha bisogno di spiegazioni. È una delle grandi cose del mondo, come la luce del sole o la primavera, o come il riflesso nell'acqua cupa di quella conchiglia argentea che chiamiamo luna. Non può venire contestata. Regna per diritto divino e rende principi coloro che la possiedono. Lei sorride? Ah! quando l'avrà perduta non sorriderà più... a volte la gente dice che la bellezza è solo superficiale. Può darsi. Ma perlomeno non è superficiale quanto il pensiero. Per me, la bellezza è la meraviglia delle meraviglie. Solo la gente mediocre non giudica dalle apparenze. Il vero mistero del mondo è ciò che si vede, non l'invisibile... Sì, signor Gray, gli dei le sono stati propizi. Ma ciò che gli dei danno, lo tolgono in fretta. Lei ha solo pochi anni da vivere realmente, perfettamente e pienamente. Quando la sua giovinezza se ne sarà andata, la sua bellezza la seguirà e allora improvvisamente si renderà conto che non ci saranno più trionfi per lei, oppure dovrà accontentarsi di quei mediocri trionfi che il ricordo del passato renderà amari più di sconfitte. Ogni mese che passa la avvicina a qualcosa di tremendo. Il tempo è geloso di lei e combatte contro i suoi gigli e le sue rose. Il suo colorito si spegnerà, le guance si incaveranno, gli occhi perderanno luminosità. Soffrirà, orrendamente... Ah! approfitti della giovinezza finché la possiede. Non sprechi l'oro dei suoi giorni ascoltando gente noiosa, cercando di migliorare un fallimento senza speranza o gettando la sua vita agli ignoranti, alla gente mediocre, ai malvagi. Questi sono gli obiettivi malsani, i falsi ideali della nostra società. Deve vivere! Vivere la vita meravigliosa che è in lei! Non lasci perdere nulla! Cerchi sempre sensazioni nuove. Non abbia paura di nulla... Un nuovo edonismo... ecco che cosa vuole il nostro secolo. Lei potrebbe esserne il simbolo palese. Con la sua personalità non c'è nulla che lei non possa fare. Il mondo le appartiene per una stagione... Quando l'ho conosciuta ho capito che lei non si rende conto di chi in realtà è, o di chi in realtà potrebbe essere. Così tante cose mi hanno affascinato in lei, che ho sentito di doverle comunicare qualcosa sul suo conto. Ho pensato quale tragedia sarebbe se lei sprecasse la sua vita. Perché la sua giovinezza sarà così breve... così breve. I semplici fiori di campo appassiscono, ma ritornano a fiorire. Il prossimo giugno l'avorio sarà giallo come ora. Tra un mese questa clematide sarà ricoperta di stelle purpuree e un anno dopo l'altro la verde notte delle sue foglie racchiuderà altre stelle purpuree. Ma la nostra giovinezza, non ritorna mai, i palpiti di gioia che battono dentro di noi a vent'anni si fanno confusi, le nostre membra si indeboliscono, i sensi si corrompono. Degeneriamo in ripugnanti fantocci, nell'ossessione del ricordo di passioni che abbiamo troppo temuto e di squisite tentazioni cui non abbiamo avuto il coraggio di abbandonarci. Giovinezza! Giovinezza! Non c'è assolutamente nulla al mondo, fuorché la giovinezza!"
Dorian Gray lo ascoltava meravigliato, a occhi spalancati. Dalle sue mani il ramo di lillà cadde sulla ghiaia; giunse un'ape vellutata, ronzò per un attimo intorno al grappolo, poi iniziò ad arrampicarsi sul globo ovale, stellato di piccoli fiori. La osservò con quello strano interesse per le cose prive di importanza che cerchiamo di sviluppare quando le cose importanti ci fanno paura, quando ci agita un'emozione nuova che non sappiamo esprimere, o quando un pensiero terrorizzante d'improvviso ci assedia la mente chiedendo la nostra resa. Dopo un poco l'ape volò via. La vide infilarsi nella tromba screziata di un convolvolo di Tiro. Il fiore parve rabbrividire, poi prese a oscillare dolcemente.
D'improvviso, sulla porta dello studio apparve il pittore e li invitò ad entrare con un gesto delle braccia tese. Lord Henry e Dorian Gray si guardarono negli occhi e sorrisero.
"Vi sto aspettando," esclamava Basil. "Entrate. La luce è perfetta, potete portare con voi i bicchieri."
Si alzarono e risalirono insieme il viale. Alle loro spalle svolazzavano due farfalle bianche e verdi, sul pero nell'angolo del giardino un tordo fischiò.
"È contento di avermi incontrato, signor Gray?" disse Lord Henry, fissandolo.
"Sì, sono contento, ora. Mi domando se lo sarò sempre."
"Sempre! Che parola tremenda. Mi fa rabbrividire ogni volta che la sento. Alle donne piace moltissimo usarla. Rovinano tutto ciò che vi è di romantico cercando di farlo durare in eterno. E poi è una parola priva di significato. L'unica differenza tra un capriccio e la passione di una vita è che il capriccio dura un po' più a lungo."
Mentre entravano nello studio, Dorian Gray posò una mano sul braccio di Lord Henry. "In questo caso, speriamo che la nostra amicizia sia un capriccio," mormorò, arrossendo della propria audacia. Salì sulla piattaforma, rimettendosi in posa.
Lord Henry si lasciò cadere in una grande poltrona di vimini e lo osservò. Gli unici rumori che rompevano il silenzio erano i colpetti leggeri e i fruscii del pennello sulla tela, salvo quando, ogni tanto, Hallward indietreggiava per osservare a distanza il lavoro. Il pulviscolo dorato danzava nei raggi di sole che fluivano obliqui dal finestrone aperto. Su ogni cosa pareva incombere l'intenso odore delle rose.
Dopo circa un quarto d'ora Hallward smise di dipingere e con le sopracciglia aggrottate osservò lungamente Dorian Gray poi a lungo il quadro, mordendo l'estremità di uno dei suoi grossi pennelli. "È completamente finito," esclamò alla fine e, chinatosi, scrisse il suo nome a lunghe lettere vermiglie nell'angolo sinistro della tela.
Lord Henry si avvicinò ed esaminò il quadro. Senza dubbio era una meravigliosa opera d'arte e anche la rassomiglianza era meravigliosa.
"Mio caro amico, ti faccio le mie più vive congratulazioni," disse. "È il più bel ritratto dell'epoca moderna. Signor Gray, venga e si guardi."
Il giovane ebbe un sussulto, come se si fosse destato da un sogno. "È davvero finito?" mormorò scendendo dalla piattaforma.
"Completamente finito," ripeté il pittore. "E oggi hai posato magnificamente. Te ne sono davvero riconoscente."
"È tutto merito mio," intervenne Lord Henry. "Non è vero signor Gray?"
Dorian non rispose, ma passò con aria svogliata davanti al quadro e si voltò per osservarlo. Quando lo vide arretrò leggermente e per un attimo arrossì di piacere. Gli occhi gli si illuminarono di gioia, come se per la prima volta si fosse riconosciuto. Rimase immobile, stupito. Sentiva debolmente che Hallward gli diceva qualcosa, ma non capiva il significato delle parole. Il senso della sua bellezza lo colpì come una rivelazione. Non se ne era mai reso conto, prima. I complimenti di Basil Hallward gli erano sembrati solo le piacevoli esagerazioni di un amico; li aveva ascoltati, ne aveva riso, li aveva dimenticati. Non avevano avuto nessuna influenza sul suo carattere. Poi era venuto Lord Henry Wotton con quel suo strano panegirico sulla giovinezza e il terribile avvertimento della sua brevità. Sul momento la cosa lo aveva colpito e ora, mentre contemplava l'ombra della propria bellezza, la piena realtà di quella descrizione lo attraversò come un lampo. Sì, un giorno il suo volto sarebbe divenuto rugoso e avvizzito, gli occhi deboli e scoloriti, la grazia della sua figura rotta e deforme. Le labbra avrebbero perduto il colore scarlatto, l'oro sarebbe scomparso dai capelli. La vita, che avrebbe formato la sua anima, avrebbe distrutto il suo corpo. Sarebbe diventato orribile, ripugnante, goffo.
Mentre pensava a queste cose, un'acuta fitta di dolore lo attraversò come una coltellata, facendo rabbrividire ogni nervo della sua delicata natura. Gli occhi assunsero un color ametista e li velò una nebbia di lacrime. Gli sembrò che una mano di ghiaccio gli avesse stretto il cuore.
"Non ti piace?" esclamò finalmente Basil Hallward un poco colpito dal silenzio del giovane e non comprendendone il motivo.
"Certo che gli piace," disse Lord Henry. "A chi non piacerebbe? È una delle migliori opere dell'arte moderna. Ti darò tutto quello che vorrai chiedermi. Devo averlo."
"Non è mio, Harry."
"E di chi é?"
"Di Dorian, naturalmente," rispose il pittore.
"È davvero un individuo fortunato."
"Che cosa triste!" mormorò Dorian Gray, sempre tenendo gli occhi fissi sul ritratto. "Che cosa triste! Io diventerò vecchio, orribile, disgustoso, ma questo quadro resterà sempre giovane. Non sarà mai più vecchio di quanto è oggi, in questa giornata di giugno... Se solo potesse essere il contrario! Se potessi io rimanere sempre giovane e invecchiasse il quadro, invece! Per questo... per questo darei qualunque cosa! Sì, non c'è nulla al mondo che non darei! Darei l'anima!"
"Non credo che saresti soddisfatto di un accordo del genere, Basil," esclamò Lord Henry, ridendo. "Sarebbe una brutta fine per il tuo quadro."
"Sarei nettamente contrario, Harry," disse Hallward.
Dorian Gray si voltò verso di lui e lo guardò. "Lo credo, Basil. Preferisci la tua arte ai tuoi amici. Per te non valgo più di una statuetta di bronzo patinato. Anche meno, oserei dire."
Il pittore lo guardò sconcertato. Era così insolito in Dorian un linguaggio simile. Che cosa era successo? Sembrava piuttosto arrabbiato. Era rosso in volto e aveva le guance ardenti.
"Sì," proseguì, "per te valgo meno del tuo Hermes d'avorio o del tuo fauno d'argento. Quelli ti piaceranno sempre, ma per quanto ti piacerò io? Fino al giorno in cui mi apparirà la prima ruga, immagino. Adesso so che quando si perde la bellezza, qualunque essa sia, si perde tutto. Me lo ha insegnato il tuo quadro. Lord Henry Wotton ha perfettamente ragione. La giovinezza è l'unica cosa che vale la pena di possedere. Quando mi accorgerò di invecchiare mi ucciderò."
Hallward impallidì e gli afferrò la mano. "Dorian! Dorian!" esclamò, "non dire queste cose. Non ho mai avuto un amico come te, e non ne avrò mai un altro. Tu non sei geloso delle cose materiali, non è vero? Tu che sei più bello di tutte loro!"
"Sono geloso di tutto ciò la cui bellezza non muore. Sono geloso del ritratto che hai dipinto. Perché dovrebbe conservare quello che io devo perdere? Ogni attimo che passa toglie qualcosa a me e dà qualcosa al ritratto. Oh, se solo potesse accadere l'inverso! Se il quadro cambiasse e io potessi rimanere come sono adesso! Perché lo hai dipinto? Un giorno mi deriderà... mi deriderà orribilmente!" Calde lacrime gli salirono agli occhi. Strappò la mano da quella di Basil e, lasciatosi cadere sul divano, seppellì il volto tra i cuscini come se pregasse.
"Questo è opera tua, Harry," disse il pittore amaramente.
Lord Henry scosse le spalle. "È il vero Dorian Gray... Tutto qui."
"No, non è il vero Dorian Gray."
"Se non lo è, io che cosa c'entro?"
"Avresti dovuto andartene quando te l'ho chiesto," mormorò Basil.
"Sono rimasto quando me lo hai chiesto," fu la risposta di Lord Henry.
"Harry, non posso litigare contemporaneamente con i miei due migliori amici, ma fra tutti e due mi avete fatto odiare l'opera più bella che ho mai fatto e quindi la distruggerò. Che cos'è se non tela e colore? Non permetterò che si metta tra le nostre tre vite e le rovini."
Dorian Gray sollevò dai cuscini la testa dai capelli d'oro e guardò, pallido in viso e con gli occhi gonfi di lacrime, il pittore che si avvicinava al tavolo di lavoro di abete, sistemato di fronte agli alti tendaggi della finestra. Che cosa intendeva fare? Le sue dita vagavano alla ricerca di qualche cosa nella confusione di tubetti di stagno, di pennelli asciutti. Sì, cercava la lunga spatola dalla sottile lama dì acciaio flessibile. Alla fine la trovò. Stava per fare a pezzi la tela.
Con un singhiozzo soffocato il giovane balzò dal divano e, precipitatosi addosso a Hallward, gli strappò la lama dalle mani e la gettò in fondo allo studio. "No, Basil, non farlo!" gridò. "Sarebbe un delitto!"
"Sono contento che finalmente tu apprezzi il mio lavoro, Dorian," disse freddamente il pittore, quando si fu ripreso dalla sorpresa. "Non l'avrei mai pensato."
"Apprezzare il tuo lavoro? Ne sono innamorato, Basil. È parte di me, lo sento."
"Bene, non appena sarai asciutto, ti vernicerò, ti metterò la cornice e ti manderò a casa. Allora potrai fare di te stesso quello che più ti piacerà." Attraversò la stanza e suonò il campanello per il tè. "Prendi il tè, naturalmente, Dorian? E anche tu, Harry? O avete qualcosa da obiettare contro questi semplici piaceri?"
"Adoro i piaceri semplici," disse Lord Henry. "Sono l'ultimo rifugio delle cose complicate. Ma non mi piacciono le scenate fuorché sul palcoscenico. Che personaggi assurdi siete, tutti e due! Mi domando chi ha mai detto che l'uomo è un animale ragionevole. È stata la definizione più prematura che sia stata data. L'uomo è molte cose, ma non è ragionevole. Del resto, sono contento che non lo sia: avrei preferito che voi due, ragazzetti, non vi azzuffaste a proposito del quadro. Sarebbe stato meglio se tu lo avessi dato a me, Basil. Questo stupido ragazzo in realtà non lo desidera, mentre io sì"
"Se lo dai a qualcun altro, Basil, non ti perdonerò mai!" gridò Dorian Gray, "e non permetto a nessuno di chiamarmi uno stupido ragazzo."
"Sai che il quadro è tuo, Dorian. Te l'ho dato prima ancora che esistesse."
"E lei sa di essere stato leggermente stupido, signor Gray, e sa anche che, in realtà, non le dà affatto fastidio sentirsi ricordare che è molto giovane."
"Avrei avuto moltissimo da obiettare questa mattina, Lord Henry."
"Ah, questa mattina! Da allora lei ha vissuto."
Si sentì bussare alla porta e il maggiordomo entrò reggendo il vassoio del tè che posò su un minuscolo tavolo giapponese. Si udì il tintinnio delle tazze e dei piattini e il sibilo sommesso di un samovar georgiano. Un ragazzo reggeva due ciotole di porcellana cinese. Dorian Gray si mosse e versò il tè. I due uomini si avvicinarono lentamente al tavolino ed esaminarono che cosa c'era sotto i coperchi.
"Andiamo a teatro, stasera," disse Lord Henry. "Deve esserci senz'altro qualcosa, da qualche parte. Ho promesso di pranzare da White, ma si tratta solo di un vecchio amico e quindi posso avvertirlo con un telegramma che sono malato o che non posso andare a causa di un impegno preso successivamente. Penso che questa sia una scusa molto bella: avrebbe in sé tutta la sorpresa dell'innocenza."
"È così noioso dover indossare l'abito da sera," bofonchiò Hallward. "E poi quando lo si ha indossato è così orrendo."
"Sì," rispose Lord Henry con aria sognante, "il modo di vestire del diciannovesimo secolo è detestabile. È così scialbo, così deprimente. L'unico elemento di colore che sia rimasto nella vita moderna è il peccato."
"Non dovresti proprio dire queste cose davanti a Dorian, Harry."
"Davanti a quale Dorian? Quello che ci sta versando del tè o quello del quadro?"
"Davanti ad ambedue."
"Mi piacerebbe venire a teatro con lei, Lord Henry," disse il ragazzo.
"Venga, allora. E verrai anche tu, Basil, non è vero?"
"Proprio non posso. Preferirei di no. Ho molto lavoro da fare."
"Bene, allora andremo noi due soli, signor Gray."
"Mi farebbe moltissimo piacere."
Il pittore si morse il labbro e tenendo la tazza in mano si avvicinò al ritratto. "Io resterò con il vero Dorian," disse tristemente.
"È proprio il vero Dorian?" esclamò, dirigendosi verso di lui, l'originale del ritratto. "Sono davvero cosi?"
"Sì, sei proprio così."
"È meraviglioso, Basil!"
"Perlomeno in apparenza sei così. Ma il ritratto non cambierà mai," sospirò Hallward. "È già qualcosa."
"Quante storie si fanno sulla fedeltà!" esclamò Lord Henry. "Pensa, anche in amore è semplicemente una questione di fisiologia. Non ha nulla a che fare con la nostra volontà. I giovani vorrebbero essere fedeli e non lo sono; i vecchi vorrebbero essere infedeli e non possono. È tutto quello che se ne può dire."
"Dorian, non andare a teatro questa sera," disse Hallward. "Rimani qui a cena con me."
"Non posso, Basil."
"Perché?"
"Perché ho promesso a Lord Henry Wotton di andare con lui."
"Non gli piacerai di più per il fatto di mantenere le tue promesse. Lui non mantiene mai le sue. Ti prego di non andare."
Il giovane esitò e lanciò un'occhiata in direzione di Lord Henry che, accanto al tavolino da tè, li stava osservando con un sorriso divertito.
"Devo andare, Basil," rispose.
"Molto bene," disse Hallward. Si mosse e posò la tazza sul tavolino. "È piuttosto tardi e, dato che vi dovete vestire, è meglio che non perdiate tempo. Arrivederci, Harry. Arrivederci Dorian. Venite presto a trovarmi. Domani."
"Certamente."
"Non te ne dimenticherai?"
"No, certamente no," esclamò Dorian.
"E... Harry!"
"Sì, Basil?"
"Ricorda quello che ti ho chiesto questa mattina, quando eravamo in giardino."
"Me ne sono dimenticato."
"Mi fido di te."
"Vorrei potermi fidare anch'io di me," disse Lord Henry, ridendo. "Venga, signor Gray. La mia carrozza è qui fuori e posso accompagnarla a casa. Arrivederci, Basil. È stato un pomeriggio molto interessante."
Appena la porta si fu chiusa alle loro spalle, il pittore si lasciò cadere su un divano e sul viso gli apparve un'espressione di sofferenza.
III
Il giorno dopo, alle dodici e mezzo, Lord Henry Wotton fece una passeggiata da Curzon Street ad Albany per trovare suo zio, Lord Fermor, uno scapolo allegro anche se di modi un po' bruschi, definito egoista dagli estranei, perché da lui non traevano nessun particolare vantaggio, ma generoso dalla società, perché offriva il pranzo a chi lo divertiva. Il padre era stato ambasciatore inglese a Madrid quando era giovane Isabella e non si pensava ancora a Prim, ma si era poi ritirato dal corpo diplomatico per capriccio, seccato perché non gli era stata offerta l'ambasciata di Parigi, posto che riteneva gli spettasse di diritto per la nascita, l'indolenza, il buon inglese dei suoi rapporti e la disordinata passione per i piaceri. Il figlio, che era segretario del padre, aveva dato le dimissioni insieme al suo superiore, un po' scioccamente come si pensò allora, e, avendo ereditato il titolo pochi mesi dopo, si era seriamente dedicato allo studio della grande arte aristocratica di non fare assolutamente nulla. Possedeva due grandi case in città, ma preferiva vivere in appartamenti d'affitto perché aveva meno seccature e pranzava quasi sempre al club. Dedicava qualche attenzione alla direzione delle sue miniere di carbone nel Midland e si scusava di questo suo vizio industriale col dire che l'unico vantaggio di possedere del carbone era che esso permetteva a un gentiluomo il decoro di bruciare legna nel caminetto. In politica era conservatore, salvo quando i conservatori erano al governo. Allora li accusava esplicitamente di essere un mucchio di radicali. Per il suo cameriere, che lo tiranneggiava, era un eroe e un terrore per la maggior parte dei suoi parenti, che a sua volta tiranneggiava. Avrebbe potuto nascere solo in Inghilterra, e ripeteva di continuo che il paese stava andando in malora. I suoi principi erano antiquati e anche a proposito dei suoi pregiudizi ci sarebbe stato molto da dire.
Quando Lord Henry entrò nella stanza, trovò lo zio, con un ruvido abito da caccia, seduto in poltrona e intento a fumare un sigaro brontolando sul Times. "Bene Henry," disse il vecchio gentiluomo, "come mai sei uscito così presto? Pensavo che voi dandies non vi alzaste mai prima delle due e che non vi si potesse vedere prima delle cinque."
"Puro affetto familiare, ti assicuro, zio George. Ho bisogno di qualche cosa da te."
"Soldi, immagino," disse Lord Fermor assumendo un'espressione brusca. "Bene, siediti e parlamene. Oggigiorno i giovani pensano che il denaro sia tutto."
"Sì," mormorò Lord Henry, slacciando il bottone della giacca, "e quando invecchiano se ne rendono conto. Ma non voglio soldi. Solo la gente che paga i propri conti ne ha bisogno, zio George, e io, i miei, non li pago mai. Il credito è il capitale di un figlio cadetto sul quale è possibile vivere piuttosto bene. Inoltre, tratto sempre con i negozianti di Dartmoor e così non mi seccano mai. Vorrei una informazione, invece, non un'informazione utile naturalmente: un'informazione inutile."
"Bene, posso dirti qualunque cosa scritta in un Libro Azzurro inglese, Harry, anche se la gente oggi scrive un sacco di assurdità. Quando ero in diplomazia, le cose andavano molto meglio. Ma sento che ora si viene ammessi per concorso. Che cosa puoi aspettarti? Gli esami, signori, sono una farsa dall'inizio alla fine. Se uno è un gentiluomo, ne sa quanto basta, e se non lo è, tutto quello che sa va a suo demerito."
"Il signor Dorian Gray non è sui Libri Azzurri, zio George," disse Lord Henry pianamente.
"Il signor Dorian Gray? E chi è?" domandò Lord Fermor aggrottando le folte sopracciglia bianche.
"È questo che volevo sapere da te, zio George. O piuttosto, so chi è. È il nipote dello scomparso Lord Kelso. Sua madre era una Devereux, Lady Margaret Devereux. Voglio che mi parli di sua madre. Com'era? Chi ha sposato? Ai tuoi tempi conoscevi quasi tutti e quindi dovresti saperlo. In questo momento il signor Dorian Gray mi interessa molto. Lo conosco da pochissimo."
"Il nipote di Kelso!" ripeté il vecchio gentiluomo. "Il nipote di Kelso!... Certo... conoscevo sua madre intimamente. Mi pare che sia stato al suo battesimo. Era una ragazza straordinariamente bella, Margaret Devereux, e lasciò tutti gli uomini costernati quando se ne scappò con un tipo senza una lira. Un nessuno, signori, un ufficiale subalterno di un reggimento di fanteria o roba del genere. Certo. Ricordo tutta la storia come se fosse avvenuta ieri. Quel povero giovanotto, rimase ucciso in un duello a Spa, pochi mesi dopo il matrimonio. Una brutta storia. Si disse che Kelso aveva pagato un avventuriero delinquente, un animale belga perché insultasse in pubblico suo genero. Lo pagò, signori, lo pagò perché facesse questo. E quel tizio infilò il suo uomo come un piccione. La cosa venne messa a tacere ma, perdio, dopo questa faccenda, al club Kelso le sue bistecche per qualche tempo se le mangiò da solo. Riprese la figlia con sé, ma lei non gli rivolse più la parola. Oh, sì, una brutta faccenda. Anche la ragazza morì, morì meno di un anno dopo. E lasciò un figlio, non è vero? Me ne ero dimenticato. Com'è il ragazzo? Se assomiglia alla madre deve esser un bel ragazzo."
"È molto bello."
"Spero che capiti in buone mani," proseguì il vecchio, "Se Kelso nei suoi confronti si è comportato come si deve erediterà un bel mucchio di soldi. Anche sua madre era ricca. Ereditò l'intera proprietà di Selby dal nonno. Il nonno odiava Kelso. Lo considerava un bastardo. E del resto lo era. Venne una volta a Madrid, quando, io ero là. Perdio, mi vergognai di lui. La regina mi domandava di continuo notizie di quel nobile inglese che litigava sempre sul prezzo con i cocchieri. Era diventato un argomento diffuso di conversazione. Per un mese non osai mettere piede a corte. Spero che abbia trattato il nipote meglio di quei vetturini."
"Non so," rispose Lord Henry. "Immagino che il ragazzo sia in buone condizioni economiche. Non è ancora maggiorenne. So che è proprietario di Selby. Me lo ha detto lui. E... sua madre era bellissima?"
"Margaret Devereux era una delle creature più belle che io abbia mai visto Henry. Non riuscii mai a capire che cosa la spinse a comportarsi in quel modo. Avrebbe potuto sposare chi voleva. Carlington era impazzito per lei. Però era romantica, lo erano tutte le donne della sua famiglia. Gli uomini erano delle nullità, ma, perdio, le donne erano meravigliose. Carlington andò da lei in ginocchio; me lo disse, lui stesso. Lei gli rise in faccia e a quel tempo a Londra non c'era una ragazza che non gli desse la caccia. E, dato che stiamo parlando di matrimoni sciocchi, che cos'è questa storia che mi ha riferito tuo padre a proposito di Dartmoor che vuole sposare un'americana? Le ragazze inglesi non sono abbastanza buone per lui?"
"In questo momento è molto di moda sposare le americane, zio George."
"Io sosterrò le donne inglesi contro tutto il mondo, Harry," disse Lord Fermor, battendo il pugno sul tavolo.
"Si punta sulle americane."
"Ma si dice che non durano," bofonchiò lo zio.
"Non reggono alla distanza, ma nella corsa ad ostacoli non le batte nessuno. Prendono le cose al volo. Non credo che Dartmoor abbia nessuna possibilità di cavarsela."
"Chi sono i suoi genitori?" brontolò il vecchio. "Ne ha, perlomeno?"
"Le ragazze americane sono brave nel nascondere i genitori tanto quanto le donne inglesi nel nascondere il loro passato," disse alzandosi per andarsene.
"Immagino che vendano carne di maiale in scatola."
"Lo spero, zio George, nell'interesse di Dartmoor. Mi si dice che inscatolare il maiale è in America la professione più lucrosa, dopo la politica."
"È graziosa?"
"Si comporta come se fosse bella. Quasi tutte le americane lo fanno: è il segreto del loro fascino."
"E perché non se ne possono stare nel loro paese queste americane? Non fanno altro che ripeterci che è il paradiso delle donne."
"È vero. Proprio per questo, come Eva, sono eccessivamente ansiose di uscirne," disse Lord Henry. "Arrivederci, zio George. Se rimango ancora farò tardi a colazione. Grazie per avermi dato le informazioni che volevo sapere. Mi piace sempre saper tutto dei miei nuovi amici e nulla dei vecchi."
"Da chi sei a colazione?"
"Da zia Agatha. Le ho chiesto di invitarmi insieme al signor Gray: è il suo ultimo protegé."
"Uff! Devi dire alla tua zia Agatha di non seccarmi più con le sue richieste per beneficenza. Mi danno la nausea. Quella brava donna pensa che io non abbia di meglio da fare che firmare assegni per i suoi stupidi capricci."
"D'accordo, zio George, glielo riferirò, ma sarà inutile. I filantropi perdono ogni senso di umanità: è la loro caratteristica distintiva."
Il vecchio gentiluomo emise un grugnito di approvazione e suonò per il cameriere. Lord Henry passò sotto la bassa arcata che immette in Burlington Street e si incamminò verso Berkeley Square.
Questa dunque era la storia della famiglia di Dorian Gray. Nonostante la crudezza con cui gli era stata riferita, lo attirava per questa sua atmosfera insolitamente moderna e romantica. Una bella donna che metteva tutto a repentaglio per una passione folle. Poche settimane di sfrenata felicità, troncate da un delitto vile e odioso. Dopo mesi di silenziosa sofferenza, un figlio nato nel dolore. La madre strappata via dalla morte, il figlio abbandonato alla solitudine e alla tirannia di un vecchio incapace di amore. Sì, un passato interessante: inquadrava il giovane, lo rendeva per così dire più perfetto. Dietro ogni cosa squisita c'era sempre qualcosa di tragico. Interi mondi dovevano agire per far fiorire un minuscolo fiore... E quanto era stato affascinante la sera prima, durante la cena al club, seduto di fronte a lui con gli occhi stupiti, le labbra socchiuse in uno stato di gioia e di timore. I paralumi rossi diffondevano un rosa più intenso sulla nascente meraviglia del suo viso. Parlare con lui era come suonare un meraviglioso violino: rispondeva a ogni tocco, a ogni fremito dell'archetto... c'era qualcosa di tremendamente esaltante nell'esercitare la propria influenza. Nessun'altra attività la eguagliava. Proiettare la propria anima in una forma piena di grazia e lasciarvela indugiare per un momento; sentir ritornare l'eco delle nostre idee insieme a tutta la musica della passione e della giovinezza; trasferire il proprio temperamento in un'altra persona come se fosse un fluido sottile o uno strano profumo. C'era una vera gioia in tutto ciò: forse la più completa che ci sia rimasta in un'epoca limitata e volgare come la nostra, un'epoca grossolanamente carnale nei suoi piaceri, grossolanamente volgare nelle sue ambizioni... Ed era anche un personaggio meraviglioso, questo ragazzo incontrato nello studio di Basil in un'occasione così insolita; o, comunque, lo si sarebbe potuto trasformare in un personaggio meraviglioso. Possedeva la grazia e la bianca purezza dell'infanzia e una bellezza simile a quella che ci hanno serbato i grandi marmi greci. Di lui si sarebbe potuto fare qualsiasi cosa: lo si poteva rendere un titano o un giocattolo. Che peccato che una bellezza simile fosse destinata ad appassire!... E Basil? Quant'era interessante da un punto di vista psicologico! Questo suo nuovo stile, questo suo nuovo modo di guardare la vita, suggeriti così stranamente dalla semplice presenza di un giovane che non ne aveva la minima consapevolezza; lo spirito silenzioso che abita nella penombra dei boschi e che si avventura non visto tra i campi aperti, gli era apparso improvvisamente come una driade, senza timori perché, nella sua anima che lo cercava, si era risvegliata quella meravigliosa percezione a cui soltanto si rivelano le cose meravigliose; le mere forme e strutture delle cose che, per così dire, si vanno affinando e acquistano una sorta di valore simbolico, come se esse stesse fossero modelli di altre forme più perfette la cui ombra rendevano reale. Quant'era strano tutto questo! Ricordava qualcosa di simile nella storia. Non era forse Platone, l'artista del pensiero, che l'aveva analizzato per primo? Non era forse Michelangelo che lo aveva scolpito nei marmi colorati di un sonetto? Ma nel nostro secolo era strano... Sì, avrebbe cercato di essere per Dorian Gray quello che il ragazzo era per il pittore che aveva dipinto quel meraviglioso ritratto. Avrebbe cercato di dominarlo... e, in realtà, a metà ci era riuscito. Avrebbe fatto suo quel meraviglioso spirito. C'era qualcosa di affascinante in quel figlio dell'amore e della morte.
D'improvviso si fermò e diede un'occhiata alle cose. Si accorse di aver oltrepassato di un pezzo la casa di sua zia e, sorridendo di sé, ritornò sui suoi passi. Quando entrò nel vestibolo un po' buio, il maggiordomo lo avvertì che il pranzo era già iniziato. Consegnò bastone e cappello a uno dei valletti ed entrò in sala da pranzo.
"In ritardo come al solito, Harry," esclamò la zia scuotendo il capo.
Inventò senza difficoltà una scusa e, dopo essersi accomodato nella sedia vuota accanto a lei, si guardò intorno per vedere chi c'era. Dal fondo della tavola, Dorian gli fece un timido inchino, arrossendo di piacere. Di fronte a lui c'era la duchessa di Harley, una signora di ottimo carattere e di ottima salute che piaceva molto a tutti quelli che la conoscevano, dotata di quelle imponenti proporzioni architettoniche che gli storici contemporanei, nelle donne che non sono duchesse, definiscono pinguedine. Alla sua destra sedeva Sir Thomas Burdon, membro radicale del Parlamento che nella vita pubblica seguiva il suo leader e nella vita privata i migliori cuochi: pranzava coi conservatori e pensava con i liberali, secondo una saggia e ben nota regola. Il posto alla sinistra della duchessa era occupato dal signor Erskine di Treadley, un vecchio gentiluomo di notevole fascino e cultura che, tuttavia, aveva preso la cattiva abitudine di tacere perché, come aveva spiegato una volta a zia Agatha, tutto quello che aveva da dire lo aveva detto prima dei trent'anni. La sua vicina era la signora Vandelour, una delle più vecchie amiche di zia Agatha, santa tra le donne, ma vestita talmente male che faceva pensare a un libro di preghiere mal rilegato. Fortunatamente per il signor Erskine, accanto alla signora Vandelour era seduto Lord Faudel, un'intelligentissima mediocrità, vivace come una relazione ministeriale alla Camera dei Comuni, con il quale la donna stava parlando in quel tono estremamente serio che, come aveva notato una volta, era l'unico imperdonabile errore in cui cadono tutte le persone davvero buone, e al quale nessuna di loro riesce a sfuggire.
"Stavamo parlando di quel povero Dartmoor, Lord Henry," esclamò la duchessa facendogli un cenno affabile attraverso la tavola. "Lei pensa che voglia davvero sposare quella bella ragazza?"
"Penso, duchessa, che lei abbia deciso di chiedergli la sua mano."
"Che cosa terribile!" esclamò Lady Agatha. "Davvero, qualcuno dovrebbe intervenire."
"Ho saputo da ottima fonte che il padre ha un negozio di manufatti americani," disse Sir Thomas Burdon in tono arrogante.
"Mio zio poco fa ha suggerito che forse produce maiale in scatola, Sir Thomas."
"Manufatti americani! Che cosa sono i manufatti americani?" domandò la duchessa, sollevando le grandi mani in un gesto di meraviglia calcando il tono sul verbo.
"Romanzi americani," rispose Lord Henry servendosi qualche quaglia.
La duchessa parve perplessa.
"Non dargli retta, cara," sussurrò Lady Agatha. "Non parla mai sul serio."
"Quando l'America fu scoperta," disse il deputato radicale e iniziò a esporre alcuni fatti tediosi. Come tutti coloro che cercano di esaurire un argomento, esauriva i suoi ascoltatori. La duchessa sospirò ed esercitò il suo privilegio d'interruzione. "Vorrei proprio che non fosse mai stata scoperta!" esclamò. "Davvero, le nostre ragazze non hanno più possibilità al giorno d'oggi. È terribilmente ingiusto."
"Forse, dopotutto, l'America non è mai stata scoperta," disse il signor Erskine. "Secondo me, è stata semplicemente identificata."
"Oh, ma io ho visto qualche esemplare delle abitanti," rispose la duchessa in tono vago. "Devo confessare che la maggior parte Sono molto graziose. E inoltre sono ben vestite. Comperano tutti i loro abiti a Parigi. Vorrei poter fare altrettanto."
"Si dice che gli americani buoni, quando muoiono, vadano a Parigi," ridacchiò Sir Thomas che aveva un ben fornito repertorio di battute stantie.
"Davvero! E dove vanno gli americani cattivi quando muoiono?" domandò la duchessa.
"Vanno in America," mormorò Lord Henry.
Sir Thomas aggrottò le sopracciglia. "Temo che suo nipote nutra dei pregiudizi su questo grande paese," disse rivolto a Lady Agatha. "Io l'ho percorso tutto in vetture messe a mia disposizione dalle autorità che, sotto questo aspetto, sono estremamente civili. Le assicuro che è un viaggio estremamente educativo."
"Ma a scopo educativo dovremmo proprio visitare Chicago?" domandò lamentosamente il signor Erskine. "Non me la sento di fare il viaggio."
Sir Thomas agitò una mano. "Il signor Erskine di Treadley ha il mondo nella sua libreria. A noi, persone pratiche, piace vedere direttamente le cose, non leggerne. Gli americani sono un popolo estremamente interessante. Sono dotati di uno spiccato buonsenso. Penso che questa sia la loro principale caratteristica. Sì, signor Erskine, sono dotati di uno spiccato buonsenso. Le assicuro che non fanno mai stupidaggini."
"Che cosa orrenda!" esclamò Lord Henry. "Posso sopportare la forza bruta, ma la ragione bruta è assolutamente insopportabile. C'è un che di sleale nel farne uso. È come tirare un colpo basso all'intelletto."
"Non la capisco," disse Sir Thomas arrossendo alquanto.
"Io sì, Lord Henry," mormorò con un sorriso il signor Erskine.
"I paradossi, a modo loro, vanno tutti molto bene..." ritorse il baronetto.
"Era un paradosso?" domandò il signor Erskine. "A me non sembra. Forse lo era. Ecco, la via dei Paradossi è anche la via della verità. Per saggiare la realtà dobbiamo farla camminare sulla corda tesa. Quando le verità si fanno acrobati, possiamo darne un giudizio."
"Santo cielo," disse Lady Agatha, "in che modo discutete, voi uomini! Non riesco mai a capire di che cosa stiate parlando. Oh, Harry, sono piuttosto arrabbiata con te. Perché cerchi di convincere il nostro caro signor Dorian Gray a lasciar perdere l'East End? Ti assicuro che sarebbe un elemento prezioso. Lo ascolterebbero suonare con molto piacere."
"Voglio che suoni per me," disse Lord Henry, sorridendo. Lanciò una breve occhiata verso l'estremità della tavola e colse uno sguardo radioso in risposta.
"Ma sono così infelici a Whitechapel," insistette Lady Agatha.
"Posso aver compassione per tutto tranne che per la sofferenza," disse Lord Henry, scuotendo le spalle. "Per la sofferenza proprio non posso: è troppo brutta, troppo orribile, troppo tormentosa. Nella simpatia odierna per il dolore c'è qualcosa di tremendamente morboso. Si dovrebbe solidarizzare con il colore, con la bellezza, con la gioia di vivere. Quanto meno si parla dei dolori della vita, tanto meglio."
"Tuttavia l'East End rimane un problema importante," notò Sir Thomas scuotendo gravemente il capo.
"Certo," rispose il giovane Lord. "È il problema della schiavitù e noi cerchiamo di risolverlo divertendo gli schiavi."
L'uomo politico lo fissò. "E allora che cambiamenti proporrebbe lei?"
Lord Henry rise. "Non desidero cambiare nulla in Inghilterra, salvo il clima," rispose. "Mi basta e mi soddisfa la contemplazione filosofica ma, dato che il diciannovesimo secolo è fallito per troppa compassione, suggerisco di rivolgersi alla scienza perché ci rimetta in strada. Le emozioni hanno il vantaggio di condurci fuori strada, mentre il vantaggio della scienza è quello di essere priva di emozioni."
"Ma abbiamo delle così grandi responsabilità," azzardò timidamente la signora Vandelour.
"Tremendamente gravi," fece eco Lady Agatha.
Lord Henry spostò lo sguardo sul signor Erskine.
L'umanità si prende troppo sul serio. È il peccato originale del mondo. Se l'uomo delle caverne fosse stato capace di ridere, la storia sarebbe stata diversa."
"Lei mi consola moltissimo," cinguettò la duchessa. "Ogni volta che vengo a trovare sua zia mi sento sempre in colpa perché non provo nessun interesse per l'East End. In futuro potrò guardarla in faccia senza arrossire."
"Il rossore dona molto, duchessa," fece notare Lord Henry.
"Solo quando si è giovani," lei rispose. "Quando una vecchia come me arrossisce è un gran brutto segno. Ah, Lord Henry, vorrei che lei mi insegnasse come si fa a tornare giovani."
Lord Henry rifletté un momento. "Riesce a ricordare qualche grosso errore commesso in gioventù, duchessa?" le domandò, guardandola attraverso la tavola.
"Moltissimi, temo," esclamò la duchessa.
"E allora tornate a commetterli," disse Lord Henry gravemente. "Per ritornare giovani, basta ripetere le proprie follie."
"Una teoria deliziosa!" esclamò la duchessa. "Devo metterla in pratica."
"Una teoria pericolosa!" uscì dalle labbra tese di Sir Thomas. Lady Agatha scosse il capo ma suo malgrado si divertiva. Il signor Erskine ascoltava.
"Sì" proseguì, "questo è uno dei grandi segreti della vita. Al giorno d'oggi la maggior parte della gente muore come se fosse subdolamente colpita da un attacco di buon senso. Solo quando è troppo tardi si accorge che le uniche cose che non si rimpiangono sono le proprie follie."
Una risata corse per la tavola.
Giocò con l'idea, appassionandosi. La lanciò per aria trasformandola, se la lasciò sfuggire e la ricatturò, la rese iridescente con la fantasia, le diede le ali del paradosso. Proseguì, e l'elogio della follia si elevò a filosofia, la filosofia stessa ritornò giovane e, catturata dalla folle musica del piacere, indossando, come si potrebbe immaginare, una tunica macchiata di vino e cinta d'edera, danzò come una baccante sui monti della vita, sbeffeggiando la sobrietà del pigro Sileno. Dinnanzi a lei i fatti fuggivano come spaventate creature della foresta e i suoi bianchi piedi pigiavano nell'enorme tino accanto al quale siede il saggio Omar, finché lo spumeggiante succo dell'uva sali attorno alle gambe nude in onde di bolle purpuree o sotto forma di rossa schiuma traboccò dagli scuri fianchi inclinati e gocciolanti del tino. Era una straordinaria improvvisazione. Lord Henry sentiva fissi su di sé gli occhi di Dorian Gray e la consapevolezza che nell'uditorio c'era una persona che desiderava affascinare sembrava rendere più incisivo il suo spirito e dar colore alla sua fantasia. Era brillante, fantastico, irresponsabile. Affascinava gli ascoltatori che, dimentichi di sé, seguivano ridendo il suo flauto. Dorian Gray non gli toglieva lo sguardo di dosso ma se ne stava seduto, come preso da un incantesimo. Sulle sue labbra i sorrisi si susseguivano, la meraviglia si faceva sempre più intensa sui suoi occhi scuri. Alla fine, la realtà, indossando una livrea del tempo, si presentò nella sala impersonata da un domestico per annunciare alla duchessa che la carrozza la stava attendendo. La duchessa si torse le mani in un gesto di finta disperazione. "Che seccatura," esclamò. "Devo andare. Devo passare a prendere mio marito al club per accompagnarlo a qualche assurda riunione che lui dovrà presiedere da Willi's Rooms. Se faccio tardi, di sicuro si infurierà e non posso sostenere una scenata con questo cappello. È troppo delicato. Una sola parola dura basterebbe per rovinarlo. No, devo andare, cara Agatha. Arrivederci, Lord Henry, lei è assolutamente delizioso e terribilmente deprimente. Sono certa di non sapere che cosa obiettare alle sue opinioni. Deve venire a pranzo da noi qualche sera. Martedì? È libero martedì?"
"Per lei, duchessa, passerei sopra chiunque," disse Lord Henry con un inchino.
"Ah! Questo è molto bello e anche molto brutto da parte sua," esclamò la duchessa. "Quindi ricordi di venire," e scivolò fuori dalla stanza seguita da Lady Agatha e dalle altre signore.
Appena Lord Henry si fu nuovamente seduto, il signor Erskine girò attorno alla tavola e, presa una sedia accanto a lui, gli posò una mano sul braccio.
"Lei, parlando, getta via libri interi," disse; "perché non ne scrive uno?"
"Mi piace troppo leggere i libri per darmi la pena di scriverne, signor Erskine. Certo, mi piacerebbe scrivere un romanzo; un romanzo grazioso come un tappeto persiano e altrettanto irreale. Ma in Inghilterra esiste un pubblico solo per i giornali, per i libri per ragazzi e le enciclopedie. Di tutti i popoli del mondo, quello inglese è il meno dotato del senso della bellezza letteraria."
"Temo che lei abbia ragione," rispose il signor Erskine. "Anch'io avevo ambizioni letterarie ma le ho lasciate perdere molto tempo fa. E ora, mio caro giovane amico, se lei mi permette di chiamarla così, posso chiederle se crede davvero a tutto ciò che ha detto a tavola?"
"Me ne sono completamente dimenticato," sorrise Lord Henry. "Era così brutto?"
"Sì, molto brutto. In realtà la ritengo una persona molto pericolosa e, se alla nostra buona duchessa dovesse succedere qualche cosa, vedremmo in lei il principale responsabile. Ma mi piacerebbe parlare della vita con lei. La generazione nata con me era noiosa. Un giorno, quando lei sarà stanco di Londra, venga a trovarmi a Treadley e mi spieghi la sua teoria del piacere davanti a una straordinaria bottiglia di Borgogna che ho la fortuna di possedere."
"Ne sarò felice. Una visita a Treadley sarebbe un grande privilegio. Troverei un ospite perfetto e una perfetta biblioteca."
"Lei completerà il tutto," rispose il vecchio gentiluomo con un cortese inchino. "E ora sono costretto a salutare la sua eccellente zia. Mi attendono all'Athenaeum. È, l'ora in cui andiamo a dormire là."
"Tutti voi, signor Erskine?"
"Tutti e quaranta. In quaranta poltrone. Stiamo facendo pratica per l'Accademia Britannica di Lettere."
Lord Henry rise e si alzò. "Io me ne andrò al Park," esclamò.
Mentre stava uscendo, Dorian Gray gli toccò il braccio. "Mi permetta di venire con lei," mormorò.
"Pensavo che lei avesse promesso a Basil Hallward di andare a trovarlo," rispose Lord Henry.
"Preferisco venire con lei. Sì, sento di dover venire con lei. Me lo permetta. E mi promette di parlare per tutto il tempo? Nessuno parla in modo così stupendo."
"Ah! Ho parlato abbastanza per oggi," disse Lord Henry, sorridendo. "Adesso desidero solo osservare la vita. Può osservarla con me, se lo desidera."
IV
Un pomeriggio, un mese dopo, Dorian Gray era sdraiato in una lussuosa poltrona nella piccola biblioteca della casa di Mayfair di Lord Henry. Era a suo modo una stanza molto graziosa, con l'alto rivestimento a pannelli di quercia verde oliva, le decorazioni color avorio e il soffitto a stucchi. Sulla moquette rosso mattone erano stesi tappeti persiani dalle lunghe frange di seta. Su un minuscolo tavolino di legno lucido era posata una statuetta di Clodion e, accanto, una copia di Les Cent Nouvelles rilegata per Margherita di Valois da Clovis Eve e ornata con la margherita d'oro che la regina aveva scelto come stemma. Sulla mensola del caminetto erano disposti alcuni grossi vasi di porcellana azzurra con tulipani a pappagallo, e dai vetri piombati della finestra entrava la luce color albicocca di una giornata estiva londinese.
Lord Henry non era ancora arrivato. Era sempre in ritardo per principio, ritenendo che la puntualità ruba il tempo. Il ragazzo appariva quindi piuttosto annoiato mentre, con dita svogliate, sfogliava le pagine di un'edizione riccamente illustrata di Manon Lescaut che aveva trovato in uno degli scaffali. Il monotono ticchettio regolare di un orologio Luigi XIV lo infastidiva. Per un paio di volte pensò di andarsene.
Alla fine sentì dei passi fuori e la porta si aprì. "Come sei in ritardo, Harry!" mormorò.
"Temo che non sia Harry, signor Gray," rispose una voce, acuta.
Dorian si guardò in giro rapidamente e si alzò in piedi.
"Mi scusi, pensavo..."
"Pensava si trattasse di mio marito. Sono soltanto sua moglie. Permetta che, mi presenti da sola. La conosco benissimo attraverso le fotografie. Credo che mio marito ne abbia diciassette."
"Non diciassette, Lady Wotton."
"Saranno diciotto, allora. Inoltre l'ho vista con lui l'altra sera all'opera." Parlando rideva nervosamente e lo fissava con gli occhi di un incerto color pervinca. Era una donna: strana che indossava abiti che parevano sempre disegnati in un accesso di rabbia e indossati durante una tempesta. Era sempre innamorata di qualcuno e, dato che la sua passione, non era mai corrisposta, aveva mantenute intatte tutte le sue illusioni. Cercava di essere pittoresca, ma riusciva soltanto a sembrare sciatta. Si chiamava Victoria e aveva la mania di andare in chiesa.
"È stato al Lohengrin, Lady Wotton, non è vero?"
"Sì, il mio diletto Lohengrin. La musica di Wagner mi piace più di ogni altra. È così rumorosa che si può parlare per tutto il tempo senza che gli altri capiscano ciò che si dice. È un grande vantaggio, non le pare, signor Gray?"
Lo stesso riso sincopato e nervoso eruppe dalle labbra sottili. Le sue dita presero a giocherellare con un lungo tagliacarte di tartaruga.
Dorian sorrise e scosse il capo: "Mi dispiace, ma non sono d'accordo, Lady Wotton. Non parlo mai durante la musica, perlomeno non durante la buona musica. Quando si ascolta della cattiva musica è un dovere affogarla nella conversazione."
"Ah! Questa è una delle idee di Harry, vero, signor, Gray? Le idee di mio marito le vengo a sapere attraverso i suoi amici. È l'unico modo che ho per conoscerle. Ma non deve credere che non mi piaccia la buona musica. La adoro, ma ne ho paura: mi rende troppo romantica. Ho semplicemente adorato i pianisti... due alla volta, in qualche caso, secondo quanto dice Harry. Non so cosa ci sia in loro. Forse perché sono stranieri. Lo sono tutti, non è vero? Anche quelli nati in Inghilterra diventano stranieri dopo qualche tempo, non le pare? È una cosa così intelligente da parte loro, e un così grande complimento per l'arte. La rende del tutto cosmopolita, non è vero? Lei non è mai venuto a nessuno dei miei party, vero, signor Gray? Deve venirci. Non posso permettermi le orchidee, ma per gli stranieri non bado a spese. Danno un'aria così pittoresca alla casa! Ma ecco Harry... Harry, sono entrata a cercarti per chiederti qualche cosa, non ricordo che cosa, e ho trovato il Signor Gray. Abbiamo fatto una piacevolissima chiacchierata sulla musica. Abbiamo le stesse idee. No, credo che le nostre idee siano completamente diverse, ma lui è stato molto gentile. Sono così contenta di averlo conosciuto."
"Ne sono felice, tesoro, molto felice," disse Lord Henry, inarcando le curve sopracciglia scure e guardandoli con un sorriso divertito. "Mi dispiace tanto di essere in ritardo, Dorian. Sono andato a cercare una pezza di broccato antico in Wardour Street e ho dovuto contrattare per ore intere. Oggi la gente conosce il prezzo di tutto e non conosce il valore di nulla."
"Mi dispiace ma devo andare," disse Lady Wotton, rompendo, con una delle sue sciocche, improvvise risate, un silenzio imbarazzante. "Ho promesso di andare in carrozza con la duchessa. Arrivederci, signor Gray. Arrivederci, Harry. Ceni fuori, immagino. Anch'io. Forse ci vedremo da Lady Thornbury."
"Penso anch'io, cara," disse Lord Henry chiudendo la porta alle sue spalle, mentre la donna scivolava fuori dalla stanza come un uccello del paradiso rimasto tutta la notte sotto la pioggia e lasciando dietro di sé un leggero odore di frangipane. Quindi accese una sigaretta e si accomodò sul divano.
"Non sposare mai una donna con i capelli color paglia, Dorian," disse, dopo qualche boccata.
"Perché, Harry?"
"Perché sono troppo sentimentali."
"Ma a me piacciono le persone sentimentali."
"Non sposarti affatto, Dorian. Gli uomini si sposano perché sono stanchi, le donne perché sono curiose e ambedue rimangono delusi."
"Non credo che mi sposerò facilmente, Harry. Sono troppo innamorato. È uno dei tuoi aforismi. Lo sto mettendo in pratica, come faccio per tutto quello che dici."
"Di chi sei innamorato?" domandò Lord Henry dopo, una pausa.
"Di un'attrice," disse Dorian Gray arrossendo.
Lord Henry scosse le spalle. "È un début piuttosto banale."
"Non diresti così se la conoscessi, Harry."
"Di chi si tratta?"
"Si chiama Sibyl Vane."
"Mai sentita nominare."
"Nessuno l'ha mai sentita nominare, ma un giorno la gente la conoscerà. È un genio."
"Mio caro ragazzo, nessuna donna è un genio. Le donne sono un sesso decorativo. Non hanno mai nulla da dire, ma lo dicono con grazia. Le donne rappresentano il trionfo della materia sull'intelletto, proprio come gli uomini rappresentano il trionfo dell'intelletto sulla morale."
"Harry, come puoi dire una cosa simile?"
"Mio caro Dorian, è assolutamente vero. In questo periodo sto analizzando le donne e quindi dovrei saperlo. L'argomento non è poi così astruso come ritenevo un tempo. Ho scoperto che, in definitiva, ci sono solo due tipi di donne, quelle semplici e quelle che si truccano. Le donne semplici sono molto utili. Se vuoi farti la reputazione di persona rispettabile, devi solo uscire con loro a cena. Le altre donne sono molto affascinanti, ma commettono un errore: si truccano per cercare di essere e di apparire giovani. Le nostre nonne si truccavano per cercare di essere di spirito e di parlare con spirito. Il rouge e l'ésprit viaggiavano di conserva, allora. Adesso è tutto finito. Finché una donna riesce a dimostrare dieci anni di meno di sua figlia è completamente soddisfatta. Per quanto riguarda la conversazione, poi, ci sono solo cinque donne a Londra con cui valga la pena di parlare e due di loro non possono essere accolte nella buona società. Comunque, parlami del tuo genio. Da quanto tempo la conosci?"
"Ah, Harry! Le tue opinioni mi fanno paura."
"Non farci caso. Da quanto tempo la conosci?"
"Da tre settimane circa."
"E come l'hai incontrata?"
"Te lo racconterò, Harry, ma devi essere comprensivo. Dopo tutto, non sarebbe mai successo se non ti avessi incontrato. Mi hai riempito di un folle desiderio di conoscere tutto della vita. Per giorni e giorni, dopo averti incontrato, mi sembrava che qualcosa mi pulsasse nelle vene. Mentre passavo il tempo al Park, o quando passeggiavo per Piccadilly, guardavo tutti quelli che incontravo e mi chiedevo con una folle curiosità, quale tipo di vita facessero. Alcuni mi affascinavano, altri mi riempivano di terrore. Nell'aria c'era uno squisito veleno. Ero innamorato delle sensazioni... Bene, una sera verso le sette decisi di andare in cerca di qualche avventura. Sentivo che questa nostra Londra mostruosa e grigia, con la sua miriade di persone, i suoi peccatori sordidi e i suoi splendidi peccati, come una volta l'hai definita, doveva avere qualcosa in serbo per me. Immaginai mille cose, la semplice sensazione del pericolo mi dava un senso di piacere. Ricordavo quello che mi avevi detto quella sera meravigliosa, la prima volta che cenammo insieme, sul fatto che la ricerca della bellezza è il vero segreto della vita. Non so che cosa mi aspettassi, ma uscii di casa e mi diressi verso est. Mi smarrii quasi subito in un labirinto di stradine buie e di piazze nere e senza aiuole. Verso le otto e mezzo passai davanti ad un assurdo teatrino, con grandi lampade a gas ed enormi manifesti. In piedi, davanti all'ingresso, un ignobile ebreo che indossava il panciotto più stupefacente che mi sia mai capitato di vedere, fumava un sigaro di poco prezzo. Aveva dei riccioli unti e sul petto della camicia inamidata riluceva un enorme diamante. "Vuole un palco, mylord?" domandò quando mi vide, togliendosi il cappello con un gesto straordinariamente servile. C'era in lui qualcosa, Harry, che mi divertiva: era talmente mostruoso. Riderai di me, lo so, ma entrai davvero e pagai un'intera ghinea per il palco. Ancora oggi non riesco a capire perché lo feci; e tuttavia se non lo avessi fatto, mio caro Harry, se non lo avessi fatto, avrei perduto la più grande avventura sentimentale della mia vita. Vedo che ridi: è molto brutto da parte tua!"
"Non sto ridendo, Dorian; perlomeno, non sto ridendo di te. Ma non dovresti dire la più grande avventura sentimentale della tua vita. Dovresti dire la prima avventura sentimentale della tua vita. Tu verrai sempre amato e sarai sempre innamorato dell'amore. Una grande passion è privilegio di chi non ha nulla da fare, l'unico scopo delle classi pigre di un paese. Non temere, ci sono cose squisite in serbo per te. Questo è solo l'inizio."
"Credi che la mia natura sia così superficiale?" esclamò arrabbiato Dorian Gray.
"No, credo che sia molto profonda."
"Che cosa vuoi dire ?"
"Mio caro ragazzo, le persone superficiali sono quelle che amano una sola volta nella loro vita. Quella che essi chiamano lealtà o fedeltà, io la chiamo o letargia dell'abitudine o mancanza d'immaginazione. La fedeltà è, per la vita emotiva, quello che la coerenza è per la vita intellettuale: una semplice confessione di fallimento. Fedeltà! Un giorno dovrò analizzarla. C'è in essa l'amore per il possesso. Ci sono molte cose che getteremmo via se non temessimo che altri, se ne impadronissero. Ma non voglio interromperti. Continua la tua storia."
"Bene, mi ritrovai seduto in un orrendo palchetto, con un sipario di pessimo gusto davanti agli occhi. Diedi un'occhiata da dietro le tende e osservai il locale. Era una cosa di pessimo gusto, tutto amorini e cornucopie, come, una torta nuziale di terza categoria. Il loggione e la platea erano quasi al completo, ma le due file di poltrone consunte erano completamente vuote e in quelli che immagino chiamino i distinti c'era al massimo una persona. Alcune donne andavano in giro vendendo arance e birra e si faceva un gran consumo di noccioline."
"Doveva essere proprio come ai bei tempi della commedia inglese."
"Proprio così, immagino, è molto deprimente. Cominciai a domandarmi che cosa fare, quando mi capitò sotto gli occhi il programma. Che cosa pensi che rappresentassero, Harry?"
"L'Idiota, ovvero Sordo ma Innocente, immagino. Credo che ai nostri padri questo genere di commedia piacesse. Quanto più vivo, Dorian, tanto più avverto la sensazione che quel che andava bene per i nostri padri, non va più bene per noi. Nell'arte, come nella politica, les grand-pères ont toujours tort."
"Lo spettacolo andava bene anche per noi, Harry. Era "Giulietta e Romeo". Devo ammettere che ero piuttosto seccato all'idea di vedere una rappresentazione di Shakespeare in un teatro così scalcinato ma, tuttavia, in un certo qual modo la cosa mi interessava. Decisi comunque di attendere la fine del primo atto. C'era un'orchestra tremenda diretta da un giovane ebreo che sedeva a un pianoforte sgangherato. Quasi mi spinse, ad andarmene, ma finalmente il sipario si alzò e iniziò lo spettacolo. Romeo era un signore anziano e massiccio con le sopracciglia dipinte, una tragica voce raschiante e la figura di un barile di birra. Mercuzio era più o meno allo stesso livello. Lo interpretava un guitto che nel testo aveva inserito delle battute sue ed era in ottimi rapporti con la platea. Erano ambedue grotteschi, come le scene che sembravano tirate fuori da un baraccone. Ma Giulietta! Harry! Immagina un ragazza di neppure diciassett'anni, con un visino come un fiore, una testolina greca con una pettinatura elaborata di riccioli castano scuri, occhi come pozzi viola di passione, labbra come petali di rosa. Era la creatura più bella che avessi visto in vita mia. Una volta mi hai detto che il pathos non ti commuove, ma che la bellezza, la semplice bellezza, ti riempie gli occhi di lacrime. Ti dirò, Harry, che a malapena riuscivo a vedere questa ragazza attraverso il velo di lacrime che mi era salito agli occhi. E la sua voce... non ho mai sentito una voce come quella. Dapprima era molto bassa, con note dolci e profonde, che parevano caderti una alla volta nelle orecchie. Poi diventò un po' più sonora, come un flauto o un oboe lontano. Nella scena del giardino aveva tutta la tremula estasi che si avverte appena prima dell'alba, quando cantano gli usignoli. E più tardi ci furono momenti in cui aveva la selvaggia passione dei violini. Sai quanto possa commuovere una voce. La tua voce e quella di Sibyl Vane sono due cose che non dimenticherò mai. Quando chiudo gli occhi le sento e ciascuna mi dice qualcosa di diverso. Non so quale seguire. Perché non dovrei amarla? Harry, io la amo davvero. Nella mia vita Sibyl è tutto. Vado a vederla recitare ogni sera. Una sera è Rosalind, la sera dopo Imogene. L'ho vista morire nelle tenebre di una tomba italiana, suggendo il veleno dalle labbra del suo amante; l'ho vista vagare nella foresta delle Ardenne, travestita da ragazzetto, con calzoncini, farsetto e un elegante berrettino. Era pazza e si è presentata di fronte a un re colpevole dandogli un cilicio da indossare ed erbe amare da assaggiare. Innocente, il suo collo sottile come un giunco è stato stretto dalle nere mani della gelosia. L'ho vista in ogni epoca e in ogni costume. Le donne comuni non ridestano mai la nostra immaginazione, sono chiuse nei limiti del loro secolo. Nessun incantesimo le trasfigura. Si conosce la loro anima con la stessa facilità con cui si conoscono i loro cappellini. Si può trovarle in ogni momento, non c'è nessun mistero in nessuna di loro. Al mattino vanno a cavallo nel parco, e al pomeriggio chiacchierano al tè. Hanno il loro sorriso stereotipato, i loro modi educati. Sono completamente prevedibili. Ma un'attrice! Com'è diversa un'attrice, Harry! Perché non mi hai detto che un'attrice è l'unica persona che valga la pena di amare?"
"Perché ne ho amate tante, Dorian."
"Oh, sì, donne orribili dai capelli tinti e dal volto truccato."
"Non parlare male dei capelli tinti e dei volti truccati. A volte hanno un fascino straordinario," disse Lord Henry.
"Adesso vorrei non averti parlato di Sibyl Vane."
"Non avresti potuto fare a meno di parlarmene, Dorian. Per tutta la vita mi dirai sempre tutto quello che farai."
"Sì, Harry, credo che tu abbia ragione. Non posso fare a meno di raccontarti le cose. Hai una strana influenza su di me. Se un giorno dovessi commettere un delitto, verrei a confessartelo. Tu mi capiresti."
"Le creature come te, i potenti raggi di sole della vita, non commettono delitti, Dorian. Tuttavia ti sono molto grato del complimento. E adesso dimmi - passami i fiammiferi, da bravo, grazie - attualmente, di che genere sono i tuoi rapporti con Sibyl Vane?"
Dorian Gray scattò in piedi rosso in viso e con gli occhi ardenti. "Harry, Sibyl Vane è sacra!"
"Le cose sacre sono le uniche che valga la pena di toccare, Dorian," disse Lord Henry, con una strana nota di commozione nella voce. "Ma perché dovresti essere seccato? Immagino che un giorno sarà tua. Quando si è innamorati, si comincia sempre ingannando se stessi e si finisce sempre ingannando gli altri. È quello che il mondo chiama sentimentalismo. Comunque la conosci, vero?"
"Certo che la conosco. La prima sera quell'orribile vecchio ebreo, quando la commedia fu finita, venne a gironzolare dalle parti del mio palco e si offrì di portarmi dietro il palcoscenico e di presentarmela. Mi fece infuriare e gli dissi che Giulietta era morta da secoli e che il suo corpo giaceva in una tomba di marmo, a Verona. Dall'espressione vacua e stupefatta che assunse, credo che abbia avuto l'impressione che avessi bevuto troppo champagne o qualcosa del genere."
"Non me ne meraviglio."
"Poi mi chiese se scrivevo per qualche giornale. Gli dissi che non li leggo nemmeno. Mi parve tremendamente deluso e mi confidò che tutti i critici teatrali cospiravano contro di lui e che bisognava comperarli tutti, nessuno escluso."
"Non sarei sorpreso se in questo avesse ragione. Ma del resto, a giudicare dall'apparenza, la maggior parte dei critici non deve essere affatto costosa."
"Be', lui pareva credere che fossero al di là delle sue possibilità," rise Dorian. "Nel frattempo, tuttavia, le luci del teatro erano state spente e fui costretto ad andarmene. Voleva farmi provare alcuni sigari che mi raccomandava caldamente, ma rifiutai. Naturalmente la sera dopo tornai. Quando mi vide mi fece un profondo inchino e mi rassicurò che ero un munifico patrono delle arti. Era un animale insopportabile, nonostante nutrisse un amore straordinario per Shakespeare. Una volta mi disse, con aria orgogliosa, che i suoi cinque fallimenti erano dovuti al "Bardo", come si ostinava a chiamarlo. Pareva ritenerlo un segno di distinzione."
"Era un segno di distinzione, Dorian, un grosso segno. La maggior parte della gente fallisce per aver investito troppo nella prosa della vita. Essere andato in rovina per la poesia è un onore. Ma quando hai conosciuto la signorina Sibyl Vane?"
"La terza sera. Aveva recitato nella parte di Rosalind. Non potei fare a meno di farle visita. Le avevo gettato dei fiori e lei mi aveva guardato; almeno così mi era sembrato. Il vecchio ebreo insisteva. Pareva deciso a portarmi dietro il palcoscenico e quindi acconsentii. È strano che non volessi conoscerla, non è vero?"
"No, non credo."
"Perché?"
"Te lo dirò qualche altra volta. Adesso voglio sapere della ragazza."
"Sibyl? Oh, era così timida e così gentile... C'è un che di fanciullesco in lei. Spalancò gli occhi vivamente meravigliata quando le dissi che cosa pensavo della sua interpretazione e sembrava non essere affatto consapevole delle sue capacità. Mi pare che fossimo tutti e due alquanto nervosi. Il vecchio ebreo se ne stava sogghignando sulla soglia del camerino polveroso, facendo alati discorsi sul nostro conto, mentre noi ci guardavamo l'un l'altro come ragazzini. Continuava a chiamarmi mylord, e quindi dovetti assicurare Sibyl che non ero nulla di simile. Lei disse con molta semplicità, riferendosi a me: "Ha più l'aspetto di un principe. La chiamerò Principe Azzurro.""
"Parola mia, Dorian, la signorina Sibyl sa come si fanno i complimenti."
"Non la capisci, Harry. Mi considerava semplicemente il personaggio di una commedia. Non conosce nulla della vita. Vive con la madre, una donna stanca e appassita che aveva interpretato la parte di Donna Capuleti indossando una specie di tunica color magenta e che ha l'aria di aver conosciuto tempi migliori."
"È un'aria che conosco. Mi deprime," disse Lord Henry esaminandosi gli anelli.
"L'ebreo voleva raccontarmi la sua storia, ma gli dissi che non mi interessava."
"Avevi ragione. C'è sempre qualche cosa di infinitamente meschino nelle tragedie degli altri."
"Sibyl è l'unica cosa che mi interessi. Che cosa m'importa da dove viene? Dalla testolina ai piedini è divina, assolutamente e completamente divina. Ogni sera vado a vederla recitare e ogni sera è più incantevole."
"Immagino sia per questo motivo che non vieni più a pranzo con me. Pensavo che tu dovessi avere qualche strana storia per le mani. E infatti ce l'hai, ma non è affatto quella che mi aspettavo."
"Mio caro Harry, facciamo colazione o pranziamo insieme ogni giorno e sono stato diverse volte all'opera con te," disse Dorian spalancando stupito gli occhi azzurri.
"Arrivi sempre terribilmente in ritardo."
"Beh, non posso fare a meno di veder recitare Sibyl," esclamò, "magari solo per un atto. Bramo la sua presenza e quando penso all'anima meravigliosa che si nasconde in quel corpicino d'avorio, mi sento pieno di sgomento."
"Pranzi con me stasera, Dorian, non è vero?"
Dorian scosse il capo. "Stasera è Imogene," rispose, "e domani sera sarà Giulietta."
"Quando sarà Sibyl Vane?"
"Mai."
"Mi congratulo con te."
"Sei tremendo. Lei è tutte le eroine del mondo, è più di un solo essere. Ridi, ma ti dico che è un genio. La amo e devo fare in modo che mi ami. Tu che conosci tutti i segreti della vita, dimmi qual è l'incantesimo che induca Sibyl Vane ad amarmi! Voglio ingelosire Romeo. Voglio che tutti gli amanti morti sentano le nostre risate e si rattristino. Voglio che un sospiro della nostra passione animi la loro polvere e risvegli queste loro ceneri al dolore. Mio Dio, Harry, quanto l'adoro!" Parlava camminando avanti e indietro per la stanza. Rosse chiazze febbricitanti gli ardevano sulle gote. Era estremamente eccitato.
Lord Henry lo osservò con un sottile senso di piacere. Com'era diverso ora dal ragazzo timido e spaventato che aveva incontrato nello studio di Basil! La sua natura era sbocciata come un fiore e aveva dischiuso petali di fiamma scarlatta. La sua anima era scivolata fuori dal suo segreto nascondiglio e, sulla via, il desiderio le si era fatto incontro.
"E che cosa intendi fare?" domandò Lord Henry alla fine.
"Voglio che una sera tu e Basil veniate a vederla recitare. Non ho il minimo timore circa il risultato: sono certo che riconoscerete le sue grandi capacità. Poi dovremo tirarla fuori dalle mani dell'ebreo. È legata a lui per tre anni, per lo meno per due anni e otto mesi, a contare da oggi. Dovrò pagargli qualcosa, naturalmente. Quando tutto sarà sistemato, affitterò un teatro del West End e la lancerò nel modo giusto. Farà impazzire la gente, come ha fatto impazzire me."
"Questo potrebbe risultare impossibile, mio caro ragazzo."
"Sì, ci riuscirà. Sibyl non solo ha capacità artistiche e un consumato istinto teatrale, ma anche una personalità e tu spesso mi hai detto che sono le personalità, non i principi a muovere la storia."
"Bene, quando ci andremo?"
"Vediamo. Oggi è martedì. Stabiliamo per domani sera. Domani sera sarà Giulietta."
"D'accordo. Al Bristol alle otto; porterò Basil con me."
"Non alle otto, Harry, ti prego. Alle sei e mezzo. Dobbiamo essere là prima che si alzi il sipario. Devi vederla nel primo atto, quando incontra Romeo."
"Alle sei e mezzo! Che ora! Sarà come prendere un tè col pasticcio di carne, o leggere un romanzo inglese. Facciamo alle sette. Nessun gentiluomo cena prima delle sette. Vedrai Basil prima di allora o devo scrivergli?"
"Caro Basil. Non lo vedo da una settimana. È molto brutto da parte mia, perché mi ha mandato il ritratto in una cornice meravigliosa che ha disegnato apposta e, anche se sono un poco geloso del quadro che è di un mese più giovane di me, devo ammettere che mi fa molto piacere. Forse è meglio che gli scriva tu. Non voglio vederlo da solo. Dice delle cose che mi infastidiscono. Mi dà buoni consigli."
Lord Henry sorrise. "La gente ama molto donare le cose di cui ha più bisogno. È ciò che io chiamo l'abisso della generosità."
"Oh, Basil è il migliore degli amici, ma mi sembra un pochino filisteo. L'ho scoperto dopo averti conosciuto, Harry."
"Mio caro ragazzo, Basil mette nel suo lavoro tutto quello che ha in sé di affascinante. Come conseguenza, per la vita gli rimangono solo i suoi pregiudizi, i suoi principi e il suo buon senso. Gli unici artisti dotati di fascino personale che io abbia conosciuto sono i cattivi artisti: quelli buoni esistono solamente per quello che fanno e di conseguenza, sono assolutamente privi di interesse per quello che sono. Un grande poeta, un poeta davvero grande, è la meno poetica delle creature. Ma i poeti di scarso valore sono pieni di fascino. Quanto peggiori sono i loro versi, tanto più pittoreschi appaiono. Il semplice fatto di aver pubblicato un libro di sonetti di seconda scelta rende un uomo assolutamente irresistibile. Vive la poesia che non può scrivere. Gli altri, scrivono la poesia che non osano attuare."
"Mi chiedo se le cose stiano proprio così Henry," disse Dorian Gray versando alcune gocce di profumo da una grossa boccetta dal tappo dorato che era sul tavolo. "Sarà così, se lo dici tu. E adesso devo andare. Imogene, mi attende. Non dimenticarti di domani. Arrivederci."
Appena Dorian Gray ebbe lasciato la stanza, Lord Henry socchiuse gli occhi e iniziò a pensare. Certo, poche persone lo avevano interessato come Dorian Gray, e tuttavia la folle adorazione del ragazzo per un'altra persona non gli dava nessun fastidio né la minima fitta di gelosia. Anzi, ne era compiaciuto: lo rendeva un soggetto più interessante. I metodi delle scienze naturali lo avevano sempre affascinato, ma i normali oggetti; di studio di queste scienze gli parevano banali e privi di importanza. Così aveva cominciato vivisezionando se stesso, e aveva finito vivisezionando gli altri. La vita umana: questa gli sembrava l'unica cosa che valesse la pena di studiare. Al suo confronto null'altro aveva valore. È vero che se si osserva la vita nel suo singolare crogiuolo di piacere e di dolore, non è possibile proteggere il viso con una maschera di vetro, né impedire che i vapori di zolfo turbino la mente e intorbidiscano, l'immaginazione con fantasie mostruose e sogni, deformi. Ci sono veleni così sottili che per conoscerne le proprietà è necessario avvelenarsi. Ci sono malattie così strane che, per capirne la natura, è necessario subirne personalmente il decorso. E tuttavia, quali grosse ricompense se ne ottenevano! Come diventava meraviglioso il mondo! Che piacere notare la strana, dura logica della passione, la vita piena di colori dell'intelletto, che piacere nell'osservare dove si incontravano e dove si separavano, in che punto raggiungevano l'unisono, in che punto erano in opposizione! Che, importanza aveva il prezzo? Non si paga mai un prezzo troppo alto per una sensazione.
Sapeva, e il pensiero portò un lampo di piacere negli occhi di agata bruna, che sotto lo stimolo di certe sue parole, parole musicali musicalmente pronunciate, l'animo di Dorian Gray si era volto verso questa candida fanciulla, chinandosi in adorazione davanti a lei. Il giovane era in gran parte una creatura sua. Lo aveva reso precoce. Era una cosa importante. La gente comune attende che la vita le sveli i suoi segreti, ma ai pochi, agli eletti, i misteri della vita vengono rivelati prima che il velo venga scostato. A volte era conseguenza dell'arte, e soprattutto della letteratura che si occupa senza mediazioni delle passioni e dell'intelletto ma, di quando in quando, una personalità complessa ne prendeva il posto e ne assumeva il compito. A suo modo era un'autentica opera d'arte, poiché la vita ha i suoi capolavori elaborati, proprio come li hanno la poesia, la scultura, la pittura.
Sì, il giovane era precoce. Raccoglieva le sue messi mentre era ancora primavera. Aveva in sé gli impulsi e le passioni della giovinezza, ma stava diventando cosciente di sé. Osservarlo era delizioso. Con quel suo bel viso, con, quella sua bella anima, era una cosa da guardare con meraviglia. Non importava come tutto sarebbe finito, o era destinato a finire. Era come una di quelle figure piene di grazia di una processione o di uno spettacolo, le cui gioie ci sembrano remote, ma le cui pene stimolano il nostro senso del bello e le cui ferite sono simili a rose rosse.
Corpo e anima, anima e corpo: com'erano misteriosi! C'era qualche cosa di animalesco nell'anima mentre il corpo aveva i suoi momenti di spiritualità. I sensi potevano affinarsi e l'intelletto poteva degenerare. Chi poteva dire quando, dove terminava l'impulso della carne o dove iniziava quello della materia? Quanto erano misere le definizioni arbitrarie dei comuni psicologi! E tuttavia come era difficile scegliere tra le affermazioni delle varie scuole! Era forse l'anima un'ombra seduta nella casa del peccato? Oppure il corpo era proprio nell'anima, come pensava Giordano Bruno? La separazione tra spirito e materia era un mistero, ed era anche un mistero l'unione di spirito e materia.
Cominciò a domandarsi se saremmo mai stati in grado di rendere la psicologia una scienza così esatta da rivelarci ogni minimo principio di vita. Così come stavano le cose, ci ingannavamo sempre sul nostro conto e raramente capivamo gli altri. L'esperienza non aveva un valore etico, era semplicemente il nome che gli uomini davano ai loro errori. Di regola, i moralisti l'avevano ritenuta un avvertimento, avevano sostenuto che essa aveva una certa efficacia nella formazione del carattere, l'avevano esaltata come qualcosa che ci insegnava la via da seguire e ci mostrava quella da evitare. Ma nell'esperienza non c'è forza motrice. Come causa attiva aveva lo stesso infimo valore della coscienza. In realtà dimostrava solo che il nostro futuro sarà uguale al nostro, passato e che il peccato che abbiamo commesso una volta, con disgusto, lo ripeteremo molte volte con gioia.
Era evidente per lui che il metodo sperimentale era l'unico metodo attraverso il quale si sarebbe potuto giungere a un'analisi scientifica delle passioni e certamente Dorian Gray era un soggetto adatto e sembrava promettere risultati ricchi e fruttuosi. Questo suo improvviso folle amore per Sibyl Vane era un fenomeno psicologico di un certo interesse. Senza dubbio la curiosità vi aveva una parte importante: la curiosità e il desiderio di nuove esperienze; e tuttavia non era una passione semplice bensì piuttosto complessa. La parte che in essa aveva l'istinto sensuale dell'adolescenza era stata trasformata dal lavoro della fantasia e mutata in qualche cosa che, allo stesso Dorian, pareva staccata dai sensi e che proprio per questo motivo era più pericolosa. Sono le passioni sulla cui origine ci inganniamo quelle che ci tiranneggiano di più. Le nostre motivazioni più deboli sono quelle di cui siamo consapevoli, di cui conosciamo la natura. Spesso accade che quando pensiamo di condurre esperimenti sugli altri, in realtà stiamo sperimentando noi stessi.
Mentre Lord Henry sedeva sognando queste cose, bussarono alla porta ed entrò il cameriere, ricordandogli che era l'ora di vestirsi per la cena. Lord Henry si alzò e guardò nella strada. Il tramonto aveva tramutato in oro scarlatto le finestre alte della casa di fronte. Le imposte rilucevano come piastre di metallo rovente. Più in alto il cielo aveva il colore di una rosa appassita. Pensò alla giovane vita dagli intensi colori dell'amico e si domandò come tutto sarebbe finito.
Quando ritornò a casa verso mezzanotte e mezzo trovò un telegramma sul tavolo del vestibolo. Lo aprì e vide che era di Dorian Gray. Gli annunciava che si era fidanzato con Sibyl Vane.
V
"Mamma; mamma, come sono felice!" sussurrò la ragazza nascondendo il viso nel grembo della donna appassita e stanca che, volgendo le spalle alla luce violenta e invadente, sedeva nell'unica poltrona del minuscolo salotto. "Come sono felice," ripeté, "e anche tu devi esserlo!"
La signora Vane trasalì e posò le mani sottili, sbiancate dal bismuto, sul capo della figlia. "Felice!" ripeté. "Sono felice, Sibyl, solo quando ti vedo recitare. Il signor Isaacs è stato molto buono con noi e gli dobbiamo dei soldi."
La ragazza alzò la testa con un'espressione imbronciata. "Soldi, mamma?" esclamò. "Che importanza hanno i soldi? L'amore vale più del denaro."
"Il signor Isaacs ci ha anticipato cinquanta sterline per pagare i nostri debiti e per preparare un corredo conveniente per James. Non devi dimenticarlo, Sibyl. Cinquanta sterline sono una grossa somma. Il signor Isaacs è stato molto premuroso."
"Non è un gentiluomo, mamma, e non sopporto il modo che ha di parlarmi," disse la ragazza alzandosi ed avvicinandosi alla finestra.
"Non so come potremmo fare senza di lui," rispose la donna in tono lamentoso.
Sibyl Vane scosse il capo ridendo. "Non abbiamo più bisogno di lui, mamma. Il Principe Azzurro si prende cura di noi, ora." Poi tacque. Nel suo sangue una rosa s'agitò, colorandole le guance. Un respiro più frequente le fece socchiudere i petali tremanti delle labbra. Un vento caldo di passione la investì muovendole le delicate pieghe del vestito. "Lo amo," disse semplicemente.
"Stupidina! Stupidina!" fu la frase pappagallescamente ripetuta che le giunse in risposta. Il moto delle dita adunche, coperte di falsi gioielli, aggiungeva un che di grottesco alle parole.
La ragazza rise di nuovo. Nella sua voce c'era la gioia di un uccellino in gabbia. Gli occhi colsero la melodia e la rivelarono splendendo; si chiusero per un attimo, come per nascondere il segreto. Quando si riaprirono, su di loro era passata l'ombra di un sogno.
La saggezza dalle labbra sottili le parlava dalla poltrona consunta, le consigliava prudenza prendendola a prestito da quel libro delle vigliaccherie il cui autore scimmiotta il nome del buon senso. Sibyl non l'ascoltava; era libera nella prigione della passione. Il suo principe, il Principe Azzurro, era con lei. Aveva chiesto alla memoria di riprodurglielo, aveva mandato la sua anima a cercarlo e questa glielo aveva riportato. Il suo bacio le ardeva sulle labbra, le sue palpebre erano calde del suo respiro.
Allora la saggezza cambiò metodo e parlò di indagini e di informazioni. Questo giovanotto doveva essere ricco. Se così era, si poteva pensare al matrimonio. Contro le conchiglie delle sue orecchie si infrangevano le onde dell'astuzia della vita. Le frecce dell'astuzia le cadevano vicino. Vide muoversi le labbra sottili e sorrise.
Improvvisamente, sentì il bisogno di parlare: quel silenzio fatto di parole la infastidiva. "Mamma, mamma," esclamò, "perché mi ama tanto? Io lo so perché lo amo: perché è come dovrebbe essere l'amore stesso, ma lui che cosa vede in me? Io non son degna di lui, eppure, come, non saprei dire, anche se mi sento tanto al di sotto di lui, non mi sento umile: mi sento orgogliosa, tremendamente orgogliosa. Mamma, tu amavi mio padre come io amo il mio Principe Azzurro?"
La vecchia signora impallidì sotto lo strato di cipria da poco prezzo che le imbrattava le guance; le sue labbra secche si contrassero in uno spasimo di sofferenza. Sibyl si precipitò verso di lei, le gettò le braccia intorno al collo e la baciò. "Perdonami, mamma. So che parlare di mio padre ti fa soffrire. Ma soffri solo perché lo hai amato tanto. Non essere così triste. Oggi io sono felice come lo eri tu vent'anni fa. Ah! Lascia che sia sempre felice!"
"Figlia mia, sei troppo giovane per pensare a innamorarti. E poi, che cosa sai di questo giovanotto? Non sai nemmeno come si chiama. Tutta questa faccenda è estremamente sconveniente e, davvero, nel momento in cui James sta per andarsene in Australia, ed io ho tante cose a cui pensare, devo dire che avresti dovuto essere più riflessiva. Tuttavia, come ho detto poco fa, se è ricco..."
"Ah! Mamma, mamma, lascia che sia felice!"
La signora Vane le lanciò un'occhiata e, con uno di quei falsi gesti teatrali che tanto spesso, negli attori, diventano una seconda natura, la strinse tra le braccia. In quell'attimo, la porta si aprì ed entrò un ragazzo dai capelli castani arruffati. Era tarchiato, con mani e piedi grossi, leggermente goffo nei movimenti. Non aveva nulla della finezza della sorella e difficilmente si sarebbe potuto indovinare lo stretto legame di parentela che c'era tra loro. La signora Vane lo fissò e accentuò il sorriso. Elevò mentalmente il figlio alla dignità di pubblico: era certa che il tableau fosse interessante.
"Dovresti conservare per me qualcuno dei tuoi baci, Sibyl, mi pare," disse il ragazzo con un brontolio gentile.
"Ah! ma a te non piace farti baciare, Jim," esclamò la ragazza. "Sei un orribile vecchio orso." E attraversò di corsa la stanza per stringerlo tra le braccia.
James Vane guardò teneramente in viso la sorella. "Voglio che tu venga a fare una passeggiata con me, Sibyl. Immagino che non vedrò più questa orribile Londra. E di certo non lo desidero."
"Figlio mio, non dire queste brutte cose," mormorò la signora Vane, prendendo con un sospiro uno sgargiante costume teatrale e cominciando a rammendarlo. Le dava un po' fastidio non far parte del gruppo. La pittoresca teatralità della situazione sarebbe aumentata.
"Perché no, mamma? Ne sono convinto."
"Mi dai un dispiacere, figlio mio. Spero che ritornerai con una florida posizione. Credo che laggiù nelle colonie non esista un bel mondo, nulla che io chiamerei bel mondo; quindi, quando ti sarai costruito una fortuna, dovrai ritornare e sistemarti qui a Londra."
"Bel mondo," mormorò il ragazzo. "Non voglio saperne nulla. Vorrei fare un po' di soldi per togliere te e Sibyl dal palcoscenico. Lo odio."
"Oh, Jim!" disse Sibyl ridendo, "non sei affatto gentile! Ma davvero vuoi fare una passeggiata con me? Che bello! Avevo paura che tu volessi andare a salutare i tuoi amici; come quel Tom Hardy che ti ha regalato quell'orrenda pipa, o Ned Langton, che ti prende in giro perché la fumi. È molto carino da parte tua riservarmi l'ultimo pomeriggio. Dove andiamo? Al Park?"
"Sono troppo male in arnese," rispose lui, aggrottando le sopracciglia. "Al Park ci va solo la gente elegante."
"Non dire assurdità, Jim," sussurrò Sibyl, accarezzandogli la manica della giacca.
Il giovane esitò un momento. "Benissimo," disse infine, "ma non metterci troppo a vestirti." Sibyl uscì a passo di danza. La si sentiva cantare mentre correva su per le scale, poi dal soffitto provenne il rumore dei suoi piedini.
Jim andò due o tre volte su e giù per la stanza, infine si voltò verso la figura immobile sulla poltrona. "Mamma, le mie cose sono pronte?" domandò.
"È tutto pronto, James," rispose la donna, senza sollevare lo sguardo dal lavoro. Da alcuni mesi si sentiva a disagio quando si trovava sola con questo suo figlio rude e severo. Quando i loro occhi si incontravano, la sua natura superficiale ne era turbata. Si chiedeva di continuo se sospettasse qualcosa. Poiché lui non faceva nessun'altra osservazione, il silenzio le divenne insopportabile. Cominciò a lamentarsi. Le donne si difendono attaccando, proprio come attaccano con strane e improvvise capitolazioni. "Spero che sarai contento della vita di mare, James," disse. "Però devi ricordare che l'hai scelta tu. Avresti potuto impiegarti nell'ufficio di un procuratore. I procuratori sono una classe molto rispettabile e spesso, in provincia, sono invitati a pranzo dalle migliori famiglie."
"Odio gli uffici e gli impiegati," rispose il ragazzo. "Ma hai ragione, la mia vita me la sono scelta io. Ti dico solo una cosa: bada a Sibyl, sta' attenta che non le succeda niente di male. Devi badare a lei, mamma."
"Che strani discorsi fai, James. Certo che baderò a lei."
"Ho sentito che un signore va tutte le sere a teatro e poi passa sul palcoscenico per parlarle. È vero? Che storia è?"
"Parli di cose che non capisci, James. Nella nostra professione siamo abituate a ricevere di continuo gli omaggi più lusinghieri. Io stessa un tempo ero solita ricevere molti mazzi di fiori ogni sera. Questo accadeva quando davvero si capiva la recitazione. Per quanto riguarda Sibyl, non so ancora se questa sua relazione sia una cosa seria o meno. Ma senza dubbio il giovanotto in questione è un perfetto gentiluomo. Con me è sempre gentilissimo. Inoltre pare che sia molto ricco e manda dei bellissimi fiori."
"Però non sai come si chiama," disse il ragazzo, aspro.
"No," rispose la madre, con una placida espressione in volto. "Non ha ancora rivelato il suo vero nome. La ritengo una cosa molto romantica. Probabilmente appartiene all'aristocrazia."
James Vane si morse un labbro. "Bada a Sibyl, mamma," esclamò, "bada a lei."
"Figlio mio, tu mi stai angustiando. Sibyl è sempre sotto la mia assidua vigilanza. Naturalmente, se questo signore è ricco non vi è motivo per cui Sibyl non debba unirsi a lui. Confido che sia un signore dell'aristocrazia: devo dire che ne ha tutta l'apparenza. Per Sibyl potrebbe essere un matrimonio brillantissimo. Formerebbero una bellissima coppia: lui ha un aspetto davvero splendido, lo hanno notato tutti."
Il ragazzo mormorò qualcosa tra sé e tamburellò con le grosse dita sui vetri della finestra. Si era appena voltato per dire qualcosa, quando si aprì la porta e Sibyl entrò di corsa.
"Come siete seri, tutti e due!" esclamò. "Che cosa è successo?"
"Nulla," rispose il fratello, "penso che qualche volta si può anche essere seri. Arrivederci, mamma; cenerò alle cinque. Ho messo via tutto, salvo le camicie, quindi non preoccuparti."
"Arrivederci, figlio mio," disse lei, con un inchino artificiosamente maestoso.
Era profondamente seccata dal tono che lui aveva adottato nei suoi confronti e, nel suo sguardo, c'era qualcosa che le faceva paura.
"Dammi un bacio, mamma," disse la ragazza. Le labbra belle come un fiore toccarono la guancia incipriata e ne scaldarono il gelo.
"Figlio mio, figlio mio!" esclamò la signora Vane, sollevando lo sguardo al soffitto in cerca di un immaginario loggione.
"Andiamo, Sibyl," disse il fratello con impazienza. Non sopportava gli atteggiamenti affettati della madre.
Uscirono nella tremolante luminosità di un giorno spazzato dal vento e si incamminarono lungo la triste Euston Road. I passanti lanciavano occhiate stupite a quel giovane imbronciato e massiccio, vestito rozzamente e senza cura, in compagnia di una fanciulla così fine e graziosa. Sembrava un volgare giardiniere che camminasse reggendo una rosa.
Jim ogni tanto si accigliava quando captava lo sguardo curioso di qualche sconosciuto. Provava quell'avversione a sentirsi guardato che prende i geni negli ultimi anni della loro vita, e che non abbandona mai le persone comuni. Sibyl, tuttavia, non si rendeva affatto conto dell'effetto che produceva. L'amore le fremeva nelle labbra sorridenti. Pensava al Principe Azzurro, e per pensarlo meglio non ne parlava, ma chiacchierava della nave sulla quale Jim si sarebbe imbarcato, dell'oro che certamente avrebbe trovato, della meravigliosa ereditiera che avrebbe certamente salvato dalle grinfie dei feroci banditi in camicia rossa. Perché lui non sarebbe rimasto un marinaio o uno stivatore o roba del genere. Oh, no! La vita di un marinaio è terribile! Immagina a starsene stipati in una nave orrenda, mentre le onde gonfie e ruggenti cercano di invaderla e un cupo vento schianta gli alberi, riducendo le vele a lunghi brandelli stridenti. Sarebbe sceso dalla nave a Melbourne, dopo aver detto educatamente arrivederci al capitano e si sarebbe diretto immediatamente verso i campi auriferi. Dopo neanche una settimana avrebbe scoperto una grossa pepita di oro puro, la più grossa pepita mai trovata, e l'avrebbe portata verso la costa su un carro scortato da sei poliziotti a cavallo. I banditi lo avrebbero aggredito tre volte, ma sarebbero stati sconfitti con un'enorme carneficina. Oppure no. Non sarebbe affatto andato nei campi auriferi. Erano posti orribili, dove gli uomini si ubriacavano, si sparavano addosso nel bar e usavano un linguaggio sconveniente. Jim sarebbe divenuto un bravo allevatore di pecore e una sera, ritornando a casa a cavallo, avrebbe visto una magnifica ereditiera sul punto di essere rapita da un bandito montato su un cavallo nero e l'avrebbe inseguita e liberata. Naturalmente lei si sarebbe innamorata di lui, e lui di lei, si sarebbero sposati, sarebbero ritornati in patria ed avrebbero vissuto in una grandissima casa, a Londra. Sì, c'erano cose meravigliose in serbo per lui, ma avrebbe dovuto comportarsi bene, non perdere la calma o spendere stupidamente i suoi soldi. Lei aveva solo un anno più di lui, ma della vita sapeva molte più cose di lui. E doveva anche badare bene a scriverle ad ogni partenza del postale, e di dire le preghiere ogni sera prima di addormentarsi. Il Signore era molto buono e avrebbe vegliato su di lui e dopo pochi anni se ne sarebbe ritornato ricchissimo e felice.
Il ragazzo l'ascoltava con aria imbronciata, senza rispondere. Lo rattristava l'idea di partire. Ma non solo per questo si sentiva triste e taciturno.
Per quanto fosse inesperto, avvertiva nettamente la pericolosità della situazione di Sibyl. Questo giovane dandy che le faceva la corte non portava con sé nulla di buono. Era un gentiluomo: per questo lo odiava, per qualche strano istinto di razza che non avrebbe potuto spiegare, e che proprio per questo era in lui ancor più dominante. Conosceva anche la superficialità e la vanità della madre e in ciò vedeva un incommensurabile pericolo per Sibyl e per la sua felicità. I figli cominciano con l'amare i propri genitori; crescendo li giudicano e, a volte, li perdonano.
Sua madre! Aveva qualcosa da chiederle, qualcosa che aveva covato in silenzio per molti mesi. Una frase udita per caso a teatro, un bisbiglio di scherno che gli era giunto all'orecchio una sera, mentre attendeva all'ingresso del palcoscenico, avevano scatenato in lui una serie di terribili pensieri. Se ne ricordava come una frustata in pieno viso. Le sue sopracciglia erano talmente aggrottate che formavano una sorta di cuneo di peli. In un sussulto di sofferenza si morse il labbro inferiore.
"Non ascolti nemmeno una parola di quello che dico, Jim," esclamò Sibyl, "e io che sto facendo i più meravigliosi progetti sul tuo avvenire. Dimmi qualcosa."
"Che cosa vuoi che dica?"
"Oh, che farai il bravo e che non ci dimenticherai," rispose Sibyl, rivolgendogli un sorriso.
Jim scosse le spalle. "È più facile che sia tu a dimenticare me, che non io te, Sibyl."
Lei arrossì. "Che cosa vuoi dire, Jim?" domandò.
"Ho sentito che hai un nuovo amico. Chi è? Perché non me ne hai parlato? Non promette nulla di buono per te."
"Smettila, Jim!" esclamò lei. "Non devi dire nemmeno una parola contro di lui. Io lo amo."
"Ma come, non sai nemmeno come si chiama," obiettò il ragazzo. "Chi è? Ho il diritto di saperlo."
"Lo chiamo Principe Azzurro. Non ti piace questo nome? Oh, cattivo! Non dovresti dimenticarlo mai. Se tu solamente lo vedessi, capiresti che è la persona più affascinante del mondo. Lo incontrerai un giorno, quando ritornerai dall'Australia. Ti piacerà moltissimo. Piace a tutti e... io lo amo. Vorrei che tu potessi venire a teatro stasera. Lui verrà e io sarò Giulietta. Oh! Come reciterò! Immagina, Jim, essere innamorata e recitare la parte di Giulietta! E averlo seduto là davanti! Recitare per la sua soddisfazione! Temo che spaventerò il pubblico, lo spaventerò e lo dominerò. Essere innamorati significa superare se stessi. Il povero, orribile signor Isaacs griderà "è un genio" ai suoi fannulloni del bar. Mi ha già predicato come un dogma, stasera mi annuncerà come una rivelazione. Lo sento. E tutto questo è suo, soltanto suo, Principe Azzurro, il mio meraviglioso amante, il mio dio della bellezza. Ma io accanto a lui sono povera. Povera? Che importanza ha? Quando la povertà entra strisciando dalla porta, l'amore arriva volando dalla finestra. I nostri proverbi dovrebbero venire rifatti. Sono stati scritti d'inverno e adesso è estate; credo che per me la primavera sia proprio una danza di fiori nel cielo azzurro."
"È un signore," disse il giovane, cupo.
"Un principe," cantò la voce di lei. "Che cosa pretendi di più?"
"Vuole che tu diventi la sua schiava."
"Tremo al pensiero di essere libera."
"Voglio che tu ti guardi da lui."
"Vederlo vuol dire adorarlo, conoscerlo vuol dire aver fiducia in lui."
"Sibyl, sei impazzita per lui."
Lei rise e lo prese per il braccio. "Caro vecchio Jim, parli come se avessi cent'anni. Un giorno ti innamorerai anche tu e allora saprai che cosa vuol dire. Non prendere quest'aria scontrosa. Dovresti essere contento al pensiero che, mentre sei lontano, mi lasci più felice di quanto non sono mai stata. La vita è stata dura per tutti e due, terribilmente dura e difficile, ma d'ora in poi le cose saranno diverse. Tu vai in un nuovo mondo, io ne ho trovato uno. Ecco due sedili, sediamoci e guardiamo passare la gente elegante."
Sedettero in mezzo a una folla di gente intenta a guardare. Dall'altra parte della strada le aiuole di tulipani fiammeggiavano come palpitanti anelli di fuoco. Una polvere bianca, come una tremula nube di ireos, era sospesa nell'ansare dell'aria. Gli ombrelli da sole dai vivaci colori danzavano e cadevano come enormi farfalle. Sibyl spinse il fratello a parlare di sé, delle sue speranze, dei suoi progetti. Jim rispondeva lentamente a fatica. Si scambiavano le parole come i giocatori si scambiano i gettoni. Sibyl si sentiva oppressa, non riusciva a manifestare la gioia che provava. L'unica eco che le riuscì di suscitare fu un debole sorriso che curvò appena, la bocca imbronciata del fratello: Dopo un po' tacque. D'un tratto colse un lampo di capelli d'oro, di labbra ridenti e Dorian Gray passò in una carrozza aperta con due signore.
Balzò in piedi. "Eccolo!" esclamò.
"Chi?" domandò Jim Vane.
"Il Principe Azzurro," rispose lei, seguendo con lo sguardo la carrozza.
Jim balzò in piedi a sua volta e le afferrò rudemente un braccio. "Fammelo vedere. Chi e? Indicamelo. Devo vederlo!" esclamò. Ma proprio in quel momento sopraggiunse il tiro a quattro del duca di Berwic e, quando fu passato, la carrozza aperta aveva lasciato il Park.
"Se ne è andato," mormorò tristemente Sibyl. "Avrei voluto che tu lo vedessi."
"Avrei voluto anch'io perché, sicuro come dio in cielo, se mai ti dovesse fare del male, lo ucciderei."
Sibyl lo fissò terrorizzata. Lui ripeté la frase. Le parole tagliarono l'aria come una frustata. La gente intorno iniziò a guardarli. Una signora che stava accanto a lei si scostò.
"Andiamo via, Jim, andiamo via," sussurrò. Lui la seguì sempre con un'espressione ostinata in volto mentre Sibyl si faceva largo tra la folla. Era contento di quello che aveva detto. Giunti alla statua di Achille, Sibyl si voltò. Aveva negli occhi un'espressione di pietà che sulle labbra si trasformò in un sorriso. Scosse il capo. "Sei sciocco, Jim, sei tremendamente sciocco; un ragazzo dal pessimo carattere, tutto qui. Come hai potuto dire una cosa così orribile? Non sai di che cosa parli. Sei soltanto geloso e poco gentile. Ah, vorrei che anche tu ti innamorassi. L'amore rende buoni, mentre le cose che hai detto sono cattive."
"Ho sedici anni," rispose lui, "e so quello che dico. La mamma non ti può essere di aiuto. Non capisce che deve sorvegliarti. Adesso vorrei non dover andare in Australia: ho una gran voglia di mandare tutto a monte. Lo farei, se non avessi già firmato un contratto."
"Oh, non essere così serio, Jim. Sei come l'eroe di uno di quegli stupidi melodrammi che la mamma recitava tanto volentieri. Non voglio litigare con te. L'ho, visto e, oh! il vederlo è una perfetta felicità. Non litigheremo. So che non saresti capace di far male a chi amo, non è vero?"
"Immagino di no, finché lo amerai," fu la cupa risposta.
"Lo amerò sempre!" esclamò lei.
"Sarà meglio per lui."
Sibyl si staccò dal fratello, poi rise e gli posò una mano sul braccio. Era solo un ragazzo.
A Marble Arch salirono su un omnibus che li lasciò vicino alla loro, squallida casa di Euston Road. Erano le cinque passate e Sibyl doveva riposare un paio d'ore prima della recita. Jim insistette perché lo facesse. Disse che preferiva salutarla mentre non c'era la madre. Avrebbe fatto di sicuro una scena e lui detestava le scene di qualunque genere.
Si separarono nella stanza di Sibyl. Nel cuore del ragazzo c'era gelosia e un odio feroce e mortale per lo sconosciuto che, secondo lui, si era messo tra loro. Tuttavia quando le braccia di lei gli allacciarono il collo e le sue dita gli si insinuarono tra i capelli, si addolcì e la baciò con sincero affetto. Scese con gli occhi pieni di lacrime. La madre lo aspettava da basso. Quando entrò, brontolò per la sua mancanza di puntualità. Jim non rispose, ma sedette davanti al misero pasto. Le mosche ronzavano intorno alla tavola, muovendosi sulla tovaglia macchiata. Attraverso il rombo degli omnibus e il fracasso delle carrozze, sentiva la voce lamentosa divorargli a uno a uno i minuti che gli restavano.
Dopo un po', allontanò il piatto e si prese la testa tra le mani. Sentiva di avere il diritto di sapere. Se i suoi sospetti erano fondati, avrebbero dovuto dirglielo prima. Piena di paura, la madre lo osservava. Le parole le cadevano meccanicamente dalle labbra mentre, tra le dita, tormentava un lacero fazzoletto di pizzo. Quando l'orologio batté le sei, il ragazzo si alzò e si avviò alla porta. Poi si voltò, fissandola. I loro occhi si incontrarono. Vide in quelli di lei una folle richiesta di pietà e ne fu irritato.
"Mamma, devo chiederti una cosa," disse. Gli occhi della donna vagarono incerti nella stanza. Non rispose. "Dimmi la verità, ho il diritto di saperlo. Tu e mio padre eravate sposati?"
La donna emise un profondo sospiro. Era un sospiro di sollievo. Quel terribile momento, quel momento temuto notte e giorno, per settimane e per mesi, era venuto finalmente. Tuttavia non ne aveva paura, anzi, in una certa qual misura ne era delusa. La rude franchezza della domanda richiedeva una risposta altrettanto franca. La situazione non si era sviluppata gradualmente: era sorta brutalmente ricordandole una brutta prova teatrale.
"No," rispose, meravigliandosi dell'aspra semplicità della vita.
"Allora mio padre era un mascalzone?" esclamò il ragazzo, stringendo i pugni.
La donna scosse il capo. "Sapevo che non era libero. Ci amavamo moltissimo. Se fosse vissuto avrebbe badato a noi. Non parlare male di lui, figlio mio. Era tuo padre ed era un gentiluomo. In verità aveva parenti molto importanti."
Dalle labbra del ragazzo sfuggì una bestemmia. "Di me, non mi importa," esclamò, "ma non lasciare che Sibyl... È un gentiluomo anche quel tipo che si è innamorato di lei, o dice di esserlo, non è vero? E immagino che anche lui abbia parenti molto importanti."
Per un momento, la donna fu sopraffatta da un vergognoso senso di umiliazione. Chinò il capo e si passo sugli occhi una mano, tremante. "Sibyl ha una madre," mormorò. "Io non l'avevo."
Il ragazzo si commosse. Si avvicinò a lei e, chinatosi, le diede un bacio. "Mi dispiace di averti fatto soffrire chiedendoti di mio padre," disse, "ma non ho potuto farne a meno. Ora devo andare. Arrivederci. Non dimenticare che adesso dovrai badare a uno solo dei tuoi figli, e credimi, se quell'uomo rovinerà mia sorella, scoprirò chi è, lo rintraccerò e lo ammazzerò come un cane. Lo giuro."
Il tono esaltato della minaccia, i gesti pieni di passione che la accompagnavano, le folli parole melodrammatiche le fecero apparire più vivida la vita. Aveva familiarità con quest'atmosfera. Respirò più liberamente e, per la prima volta dopo molti mesi, ammirò sinceramente il figlio. Avrebbe voluto continuare la scena sullo stesso tono emotivo, ma lui tagliò corto. Bisognava portar giù i bauli e cercare gli indumenti pesanti. Il facchino della pensione entrava e usciva. Poi si dovette trattare con il vetturino. Il poco tempo andò perduto in meschini particolari. Fu con un rinnovato senso di delusione che, mentre il figlio si allontanava sulla carrozza, sventolò dalla finestra il lacero fazzoletto di pizzo. Sentiva che una grande occasione era stata sprecata. Si consolò descrivendo a Sibyl quanta desolazione sarebbe entrata nella sua vita, adesso che aveva uno solo dei suoi figli a cui badare. Ricordò la frase: le aveva fatto piacere. Della minaccia non disse nulla. Era stata espressa con vivacità e senso drammatico. Sentiva che un giorno o l'altro ne avrebbero riso tutti e tre.
VI
"Immagino che tu abbia saputo la novità, Basil," disse quella sera Lord Henry, appena Hallward entrò in una stanzetta privata del Bristol dove era stato apparecchiato per tre.
"No, Harry," rispose l'artista consegnando cappello e soprabito al cameriere ossequioso. "Di che cosa si tratta? Niente politica, spero. Non mi interessa. In tutta la Camera dei comuni non c'è quasi nemmeno una persona che meriti un ritratto, anche se molti migliorerebbero alquanto con un'imbiancatina."
"Dorian Gray si è fidanzato," disse Lord Henry osservandolo attentamente mentre parlava.
Hallward sussultò, poi si accigliò. "Dorian fidanzato," esclamò. "Impossibile!"
"È verissimo!"
"Con chi?"
"Con un'attricetta o roba del genere."
"Non posso crederlo, Dorian è troppo assennato."
"Dorian è troppo saggio per non fare qualche sciocchezza di tanto in tanto, mio caro Basil."
"Il matrimonio non è una cosa che si possa fare di tanto in tanto, Harry."
"Fuorché in America," replicò distrattamente Lord Henry. "Ma non ho detto che si è sposato. Ho detto che si è fidanzato. C'è una grande differenza. Io ho il netto ricordo di essere sposato, ma non ricordo affatto di essere stato fidanzato. Sono incline a pensare di non esserlo stato mai."
"Ma pensa alla nascita, alla posizione e alla ricchezza di Dorian. Sarebbe assurdo per lui sposare una persona di ceto tanto inferiore."
"Se vuoi che sposi questa ragazza devi dirgli solo questo, Basil. Allora lo farà senz'altro. Quando un uomo commette un'enorme sciocchezza, la commette sempre per i più nobili motivi:"
"Spero che sia una brava ragazza, Harry. Non vorrei vedere Dorian legato a una creatura spregevole, che potrebbe degradare la sua natura e rovinargli l'intelletto."
"Oh, è più che brava... è bella," mormorò Lord Henry, sorseggiando un bicchiere di vermouth e arancia amara. "Dorian dice che è bella e in questo non gli capita spesso di sbagliare. Il tuo ritratto ha fatto maturare in fretta in lui la capacità di apprezzare l'aspetto degli altri. Ha avuto anche questo effetto, tra le altre cose. La vedremo stasera, se il giovanotto non dimenticherà di venire all'appuntamento."
"Dici sul serio?"
"Assolutamente sul serio, Basil. Sarei meschino se pensassi di poter essere più serio di quanto sono in questo momento."
"Ma approvi questa cosa, Harry?" domandò il pittore, muovendosi per la stanza e mordendosi il labbro. "Non è possibile che l'approvi. È una stupida infatuazione."
"Non approvo né disapprovo, mai. È un atteggiamento assurdo nei confronti della vita. Non veniamo al mondo per sciorinare i nostri pregiudizi morali. Non bado mai a quello che dicono le persone comuni e non mi intrometto mai nel comportamento delle persone affascinanti. Se una persona mi affascina, qualunque sia il modo di esprimersi da lei scelto, lo trovo assolutamente piacevole. Dorian Gray si innamora di una bella ragazza che recita la parte di Giulietta e si propone di sposarla? Perché no? Se sposasse Messalina non sarebbe meno interessante. Sai che non sono un paladino del matrimonio: il vero svantaggio del matrimonio è quello di rendere altruisti e gli altruisti sono privi di colore. Mancano di individualità. Tuttavia nel matrimonio il carattere di alcuni si fa più complesso: mantengono il loro egotismo e vi aggiungono molti altri ego. Sono costretti ad avere più di una vita. Raggiungono un maggior livello organizzativo e un elevato livello organizzativo è, a mio avviso, lo scopo dell'esistenza umana. Inoltre, ogni esperienza ha il suo valore e, qualunque cosa si possa dire contro il matrimonio, senza dubbio è un'esperienza. Spero che Dorian Gray sposi questa ragazza, la adori appassionatamente per sei mesi, e poi improvvisamente rimanga affascinato da qualcun'altra. Sarebbe uno studio meraviglioso."
"Non pensi una sola parola di quello che hai detto, Harry, e lo sai. Se Dorian Gray si rovinasse la vita, nessuno proverebbe più dispiacere di te. Sei molto migliore di ciò che pretendi di essere."
Lord Henry rise. "A noi tutti piace pensare bene degli altri perché abbiamo paura di noi stessi. La base dell'ottimismo è il puro terrore. Pensiamo di essere generosi perché attribuiamo al nostro prossimo le virtù che ci potrebbero essere utili. Lodiamo il banchiere per poterci permettere il conto scoperto e troviamo buone qualità nel bandito di strada nella speranza che ci risparmi le tasche. Sono convinto di tutto ciò che ho detto. Verso l'ottimismo nutro il più grande disprezzo. E per quanto riguarda la vita rovinata, l'unica ad esserlo è quella il cui sviluppo si arresta. Se vuoi guastare un carattere, devi solo correggerlo. Per quanto riguarda il matrimonio, evidentemente sarebbe una stupidaggine, ma un uomo e una donna possono stringere altri e più interessanti legami. Io li incoraggerei certamente. Hanno il fascino dell'eleganza. Ma ecco Dorian Gray. Lui ti spiegherà meglio di me."
"Mio caro Harry, mio caro Basil, dovete congratularvi con me!" disse il giovane togliendosi il soprabito da sera dai risvolti di seta e stringendo la mano agli amici. "Non sono mai stato tanto felice. Naturalmente è stata una cosa improvvisa, come tutte le cose veramente deliziose e tuttavia mi pare l'unica che ho atteso tutta la vita." Ardeva dall'eccitazione e dal piacere e appariva eccezionalmente bello.
"Spero che sarai molto felice, Dorian," disse Hallward, "ma non ti perdono di non avermi detto nulla del tuo fidanzamento. A Henry lo hai fatto sapere."
"E io non ti perdono di essere venuto in ritardo a pranzo," interruppe Lord Henry, posando una mano sulla spalla del giovane e sorridendo. "Venite, vediamo com'è il nuovo chef, poi ci racconterai com'è successo."
"Non c'è molto da dire in realtà." esclamò Dorian, mentre si sistemavano intorno al tavolo rotondo. "È successo semplicemente questo, Harry: dopo averti lasciato ieri sera, mi sono vestito, ho pranzato in quel ristorantino italiano di Rupert Street che mi hai fatto conoscere e alle otto sono andato a teatro. Sibyl recitava la parte di Rosalind. Naturalmente le scene erano orrende e Orlando era assurdo. Ma Sibyl! Avresti dovuto vederla! Quando entrò in scena vestita da ragazzo era semplicemente meravigliosa. Indossava un farsetto di velluto color muschio con le maniche color cannella, calzoncini marroni trapuntati e aderenti, un grazioso berrettino verde con una penna di falco fermata da un gioiello e una mantellina orlata di rosso scuro con un cappuccio. Mai m'era sembrata più deliziosa. Aveva tutta la grazia delicata di quella statuetta di Tanagra che c'è nel tuo studio, Basil. I capelli le incorniciavano il volto come foglie scure intorno a una pallida rosa. E la recitazione... beh, la vedrai questa sera. È un'attrice nata. Me ne stavo in quel minuscolo palco completamente avvinto. Ho dimenticato di essere a Londra nel diciannovesimo secolo. Ero lontano col mio amore in una foresta che nessun uomo aveva mai visto. Dopo lo spettacolo andai dietro il palcoscenico e le parlai. Mentre eravamo seduti vicini, improvvisamente le apparve negli occhi un'espressione che non avevo mai visto. Avvicinai le mie labbra alle sue. Ci baciammo. Non so descriverti quello che provai in quel momento. Mi parve che tutta la mia vita si fosse concentrata in un unico punto perfetto di rosea gioia. Lei tremava tutta e vibrava come un bianco narciso. Poi cadde sulle ginocchia e mi baciò le mani. Sento che non dovrei dirvi tutte queste cose, ma non posso farne a meno. Naturalmente il nostro fidanzamento è segreto di tomba. Lei non ne ha parlato nemmeno a sua madre. Non so che cosa diranno i miei tutori. Lord Radley si infurierà di certo. Non me ne importa. Tra meno di un anno sarò maggiorenne e allora potrò fare quel che vorrò. Ho avuto ragione, vero Basil, a prendere il mio amore dalla poesia e a trovare mia moglie in una commedia di Shakespeare? Le labbra cui Shakespeare insegnò a parlare mi hanno sussurrato nell'orecchio il loro segreto. Le braccia di Rosalind mi hanno allacciato e ho baciato Giulietta sulla bocca."
"Sì, Dorian, immagino che tu abbia ragione," disse lentamente Hallward.
"Oggi l'hai vista?" domandò Lord Henry.
Dorian Gray scosse il capo. "L'ho lasciata nella foresta di Arden, la ritroverò in un giardino di Verona."
Lord Henry sorseggiò il suo champagne con aria pensosa. "Quando esattamente hai pronunciato la parola matrimonio, Dorian? E lei che cosa ti ha risposto? Forse te ne sei completamente dimenticato."
"Mio caro Harry, non ho trattato la cosa come una transazione commerciale e non le ho fatto nessuna proposta formale. Le ho detto che l'amavo e lei mi ha detto che non si sentiva degna di diventare mia moglie. Non si sentiva degna! Ma se il mondo intero non vale nulla al suo confronto!"
"Le donne sono prodigiosamente pratiche," mormorò Lord Henry, "molto più pratiche di noi. In situazioni del genere noi dimentichiamo spesso di accennare al matrimonio e loro ce lo ricordano sempre."
Hallward gli posò una mano sul braccio. "Non dire queste cose, Harry. Hai contrariato Dorian. Lui non è come gli altri: non pensa mai male di nessuno. Ha un carattere troppo elevato."
Lord Henry lanciò un'occhiata attraverso la tavola. "Dorian non è mai contrariato con me," rispose. "Ho fatto questa domanda per la migliore delle ragioni, per l'unica ragione che, in realtà, giustifica una domanda: pura curiosità. Secondo una mia teoria, sono sempre le donne che ci propongono il matrimonio e non noi che lo proponiamo loro. Salvo, naturalmente, tra i borghesi, ma i borghesi non sono moderni."
Dorian Gray rise e scosse il capo. "Sei proprio incorreggibile, Harry, ma non importa, è impossibile arrabbiarsi con te. Quando vedrai Sibyl Vane, capirai che chi volesse farle del male sarebbe un bruto, un bruto senza cuore. Non posso capire come si possa desiderare di avvilire chi si ama. Io amo Sibyl Vane, voglio porla su un piedistallo d'oro e vedere il mondo adorare la mia donna. Che cos'è il matrimonio? Un voto irrevocabile. Per questo tu ne ridi. Ah! Non riderne. Proprio un voto irrevocabile io voglio prendere. La sua fiducia mi rende fedele, la sua certezza mi rende buono. Quando sono con lei, mi rammarico di tutto ciò che mi hai insegnato. Divento diverso dalla persona che tu conosci. Sono cambiato, e basta una carezza di Sibyl Vane per farmi dimenticare te e tutte le tue erronee, affascinanti, velenose e deliziose teorie."
"Le quali sono...?" domandò Lord Henry, servendosi l'insalata.
"Oh, le tue teorie sulla vita, sull'amore, sul piacere. Tutte le tue teorie, in realtà, Harry."
"Il piacere è l'unica cosa su cui meriti di avere una teoria," rispose Lord Henry con la voce lenta e melodiosa. "Ma mi dispiace non poter vantare l'originalità della mia. Appartiene alla natura, non a me. Il piacere è la prova della natura, il suo cenno di approvazione. Quando siamo felici, siamo sempre buoni, ma quando siamo buoni non sempre siamo felici."
"Ah, ma che cosa intendi con buoni?" esclamò Basil Hallward.
"Sì," gli fece eco Dorian appoggiandosi allo schienale della poltrona e guardando Lord Henry sopra il fitto mazzo di iris purpuree posto al centro della tavola, "che cosa intendi con buoni, Harry?"
"Essere buoni significa essere in armonia con noi stessi," rispose Lord Henry, toccando il fragile stelo del bicchiere con le dita pallide e sottili. "Siamo in disaccordo invece, quando siamo costretti ad essere in armonia con gli altri. La propria vita: questa è la cosa importante. E per quanto riguarda la vita del prossimo, se uno vuol fare il saccente o il puritano, può sfoggiare il punto di vista morale che ha su di lui, però la cosa non lo riguarda. Inoltre l'individualismo si prefigge il più elevato degli obiettivi. La morale moderna consiste nell'accettare i valori stabiliti della nostra epoca. Secondo me, per qualunque persona colta, accettare i valori stabiliti della sua epoca è una manifestazione della più rozza immoralità."
"Ma se uno vive esclusivamente per se stesso, Harry, non ti pare che paghi un prezzo terribile?" obiettò il pittore.
"Sì, oggi tutto ci costa troppo. Immagino che la vera tragedia dei poveri è che non possono permettersi altro lusso che il sacrificio. I bei peccati, come le belle cose, sono privilegio dei ricchi."
"Non si paga solo con il denaro."
"E con che cosa, Basil?"
"Oh! Con il rimorso, con la sofferenza, con... ecco, con la coscienza della propria degradazione."
Lord Henry si strinse nelle spalle. "Caro amico, l'arte medievale è affascinante, ma le emozioni medievali sono passate di moda. Si possono usare nei romanzi, naturalmente. Ma allora le sole cose che si possono usare nei romanzi sono quelle che non si adoperano più nella realtà. Credimi, nessun uomo civile rimpiange mai un piacere e nessun uomo incivile sa che cosa è un piacere."
"So che cosa è un piacere," esclamò Dorian Gray. "È adorare qualcuno."
"È certamente meglio che essere adorato," rispose Lord Henry, giocherellando con un frutto. "Essere adorati è una seccatura. Le donne ci trattano proprio come gli esseri umani trattano i loro dei. Ci adorano e non fanno altro che seccarci chiedendoci di fare qualcosa per loro."
"Avrei dovuto dire che qualunque cosa ci chiedano, ce lo hanno dato in precedenza," mormorò gravemente il giovane. "Le donne creano in noi l'amore, hanno il diritto di chiedere che venga loro restituito."
"Assolutamente vero, Dorian," esclamò Hallward.
"Non c'è nulla di assolutamente vero," disse Lord Henry.
"Questo lo è," lo interruppe Dorian. "Devi ammetterlo, Harry: le donne danno agli uomini la parte più preziosa della loro vita."
"Può darsi," sospirò Lord Henry, "ma invariabilmente la vogliono indietro in spiccioli. Questo è il guaio. Le donne, come ha detto un francese di spirito, ci ispirano il desiderio di creare capolavori e ci impediscono sempre di realizzarli."
"Harry, sei orribile! Non so perché mi piaci tanto."
"Ti piacerò sempre, Dorian," replicò Lord Henry. "Prendete il caffè, amici?... Cameriere, ci porti caffè, fine champagne e sigarette. No, lasci perdere le sigarette; ne ho io. Basil, non ti permetto di fumare il sigaro, devi prendere una sigaretta. La sigaretta è il modello perfetto di un piacere perfetto: è squisita e ti lascia insoddisfatto. Che cosa si può volere di più? Sì, Dorian, mi vorrai sempre molto bene. Per te io rappresento tutti i peccati che non hai mai avuto il coraggio di commettere."
Che assurdità dici, Harry!" esclamò il giovane, accendendo la sigaretta alla fiamma che usciva dalla bocca del drago d'argento che il cameriere aveva posato sulla tavola. "Andiamo a teatro. Quando Sibyl entrerà in scena avrai un nuovo ideale di vita. Rappresenterà per te qualcosa che non hai mai conosciuto."
"Io ho conosciuto tutto," disse Lord Henry, con un'espressione stanca negli occhi, "ma sono sempre pronto a provare nuove emozioni. Temo, tuttavia, che almeno per me non ce ne siano più. Però questa tua meravigliosa ragazza potrebbe ancora farmi provare un brivido. Mi piace moltissimo il teatro: è tanto più reale della vita. Andiamo. Dorian, tu verrai con me. Mi dispiace moltissimo, Basil, ma la carrozza ha solo due posti. Dovrai seguirci in vettura."
Si alzarono, indossarono i soprabiti e bevvero il caffè in piedi. Il pittore era silenzioso e preoccupato. Un'atmosfera di tristezza lo avvolgeva. Non poteva sopportare l'idea di questo matrimonio, tuttavia gli sembrava la cosa migliore tra le tante che avrebbero potuto accadere. Pochi minuti dopo scesero tutti. Salì in vettura da solo, come era stato deciso, e osservò i fanali luminosi della piccola carrozza che lo precedeva. Fu preso da una strana sensazione di vuoto. Sentiva che Dorian Gray non sarebbe più stato per lui quello che era stato in passato. La vita si era messa tra di loro... Gli occhi gli si oscurarono e le strade affollate e piene di luci si fecero confuse. Quando la vettura arrivò davanti al teatro, gli sembrò di essere invecchiato di anni.
VII
Per qualche strano motivo, quella sera il teatro era gremito e il grasso impresario ebreo che li accolse sulla porta era raggiante. Un sorriso untuoso e tremulo gli andava da un orecchio all'altro. Li scortò fino al loro palco con una sorta di pomposa umiltà, agitando le grasse mani ingioiellate e parlando a voce altissima. Dorian Gray lo detestava più che mai. Gli sembrava di essere venuto a cercare Miranda e di aver trovato Calibano. A Lord Henry, al contrario, l'ebreo piacque abbastanza, o almeno così disse. Volle stringergli la mano assicurandogli che era orgoglioso di conoscere un uomo che aveva scoperto un vero genio e che si era rovinato per un poeta. Hallward si divertiva ad osservare le facce in platea. Il caldo era opprimente e l'enorme lampadario fiammeggiava come una dalia mostruosa dai gialli petali di fuoco. I giovani in loggione si erano tolti la giacca e l'avevano appoggiata al parapetto. Si parlavano da un capo all'altro del teatro dividendo le arance con le ragazze vistosamente vestite che avevano a fianco. Alcune donne ridevano in platea con voci sgradevolmente acute e stridenti. Dal bar si sentiva provenire lo schiocco delle bottiglie stappate.
"Che posto per trovare la propria divinità!" disse Lord Henry.
"Sì!" rispose Dorian Gray. "L'ho trovata qui e lei è davvero divina, più di ogni essere vivente. Quando recita ci si dimentica tutto. Questi individui rozzi e ordinari, dall'espressione volgare e dai gesti brutali, si trasformano completamente quando lei è in scena. Rimangono lì silenziosi a guardarla. Lei li fa piangere e ridere come vuole, li fa rispondere come un violino. Infonde loro uno spirito e si sente che sono fatti del nostro stesso sangue e della nostra stessa carne."
"Nostro stesso sangue e nostra stessa carne! Oh, spero di no!" esclamò Lord Henry, che esaminava con il binocolo da teatro il pubblico del loggione.
"Non dargli retta, Dorian," disse il pittore. "Capisco quello che vuoi dire e credo in questa ragazza. Chiunque tu ami deve essere meraviglioso e qualunque ragazza ottenga gli effetti che tu dici deve essere bella e nobile d'animo. Spiritualizzare la propria epoca; ecco una cosa che vale la pena di fare. Se questa ragazza può dare un'anima a chi ha vissuto finora senza averne una, se può dare il senso della bellezza a chi ha vissuto una vita sordida e sgradevole, se lo può strappare dalla sua condizione d'egoismo e suscitare in lui lacrime per sofferenze e pene che non sono le sue, merita tutta la tua adorazione, merita l'adorazione del mondo intero. Questo matrimonio è assolutamente giusto. Prima non lo credevo, ma ora lo riconosco. Gli dei hanno fatto Sibyl Vane per te. Senza di lei saresti stato incompleto."
"Grazie, Basil," disse Dorian Gray, stringendogli una mano. "Sapevo che tu mi avresti capito. Harry è talmente cinico che mi terrorizza. Ma ecco l'orchestra: è spaventosa, ma dura solo cinque minuti. Poi il sipario si alzerà e vedrai la ragazza a cui sto per dedicare tutta la mia vita, la ragazza cui ho donato tutto ciò che ho di buono."
Un quarto d'ora dopo, tra un lungo scroscio di applausi, Sibyl Vane entrò in scena. Sì, pensò Lord Henry, era certamente bella da vedere, una delle più belle creature che avesse mai visto. Nella sua timida grazia, negli occhi stupiti c'era qualcosa di un cerbiatto. Quando diede uno sguardo alla sala affollata ed entusiasta, un leggero rossore le salì alle guance, simile al riflesso di una rosa in uno specchio d'argento. Arretrò leggermente e un fremito parve muoverle le labbra. Basil Hallward balzò in piedi e cominciò ad applaudire. Dorian Gray sedeva immobile, fissandola come in sogno. Lord Henry la osservava nel binocolo, mormorando: "Incantevole! Incantevole!"
La scena rappresentava un salone nella casa dei Capuleti e Romeo, in abito da pellegrino, era entrato con Mercuzio e altri amici. L'orchestra fece del suo meglio per tirar fuori alcuni accordi e la danza incominciò. In mezzo al gruppo di attori goffi e malvestiti, Sibyl Vane si muoveva come una creatura di un mondo superiore. Il suo corpo ondeggiava nella danza come una pianta nell'acqua. Le curve della gola erano quelle di un bianco giglio. Le mani sembravano di fresco avorio. E tuttavia sembrava stranamente distratta. Non mostrò alcun segno di gioia quando i suoi occhi si posarono su Romeo. Le poche parole che doveva dire:
Buon pellegrino, fate troppo torto alla vostra mano, che in ciò dimostra cortese devozione; perché anche i santi hanno mani che i pellegrini possono toccare e palma contro palma è il bacio del palmiere santo.
e il breve dialogo successivo vennero recitati in forma nettamente artificiosa. La voce era squisita, ma il tono era assolutamente falso. Sbagliato di colore, toglieva ogni vita ai versi, rendendo la passione irreale. Dorian Gray la osservava, pallido. Non capiva ed era angosciato. Gli amici non osavano dirgli nulla: avevano l'impressione che Sibyl Vane non avesse nessuna qualità ed erano terribilmente delusi.
Sapevano però che una Giulietta la si può giudicare soltanto nella scena del balcone del secondo atto e l'aspettavano: se cadeva, non aveva proprio nessuna stoffa.
Era affascinante quando apparve sotto la luce della luna, non si poteva negarlo, ma la recitazione artificiosa era insopportabile e divenne sempre peggiore. I suoi gesti erano assurdamente teatrali e pronunciava ogni frase con enfasi eccessiva. Il bel passo:
Tu sai che la maschera della notte è sul mio viso, altrimenti un rossore di fanciulla dipingerebbe la mia guancia per ciò che tu mi hai udito dire questa notte.
fu declamato con la sgradevole precisione di una studentessa impostata da un'insegnante di dizione di seconda categoria. Quando si sporse dal balcone e giunse a quei meravigliosi versi:
Sebbene tu sia la mia gioia, non ne traggo alcuna da questo nostro patto, questa notte: è troppo sconsiderato, troppo inatteso, troppo improvviso, troppo simile al lampo che cessa di esistere prima che si sia finito di dire "lampeggia". Amore, buona notte; e questo bocciolo d'amore, maturando al soffio dell'estate, potrà divenire un magnifico fiore per l'ora del nostro prossimo incontro.
pronunciò le parole come se non significassero nulla. Non era nervosa, anzi pareva controllarsi perfettamente. La sua era semplicemente pessima recitazione: un completo fallimento.
Anche gli spettatori volgari e incolti della platea e del loggione persero ogni interesse alla rappresentazione. Cominciarono ad agitarsi, a parlare a voce alta e a fischiare. L'impresario ebreo, fermo in fondo alla prima galleria, pestava i piedi e bestemmiava, rabbioso. Solo Sibyl pareva impassibile.
Alla fine del secondo atto ci fu un uragano di fischi. Lord Henry si alzò e indossò il soprabito. "È molto bella, Dorian," disse, "ma non sa recitare. Andiamo."
"Vedrò la commedia fino alla fine," rispose il giovane con voce dura e amara. "Mi spiace moltissimo di averti fatto perdere la serata, Harry. Mi scuso con tutti e due."
"Mio caro Dorian, secondo me la signorina Vane non si sente bene," interruppe Hallward. "Verremo qualche altra sera."
"Vorrei che non si sentisse bene," replicò Dorian. "Ma mi pare che sia semplicemente fredda e priva di sensibilità. È cambiata completamente. Ieri sera era una grande artista, questa sera è solo un'attrice banale e priva di qualità."
"Non parlare così, chiunque sia la persona che ami, Dorian. L'amore è più meraviglioso dell'arte."
"Sono entrambi forme di imitazione," fece notare Lord Henry. "Ma andiamocene, Dorian, sei rimasto qui abbastanza. Una pessima recitazione è demoralizzante. A parte questo, non penso che vorrai far recitare tua moglie. E quindi che importanza ha se interpreta Giulietta come un burattino? È molto attraente e, se conosce tanto poco la vita quanto la recitazione, sarà un'esperienza piacevolissima. Ci sono solo due tipi di persone davvero affascinanti: quelle che sanno tutto e quelle che non sanno assolutamente nulla. Santo cielo, mio caro ragazzo, non assumere un'aria così tragica. Il segreto per restare giovani è di non aver mai un'emozione che non ci si addice. Vieni al club con Basil e con me. Fumeremo sigarette e brinderemo alla bellezza di Sibyl Vane. È bella, che cosa vuoi di più?"
"Vattene, Harry," esclamò il ragazzo. "Voglio restare solo. Basil, devi andartene. Ah! Non vedete che mi si spezza il cuore?" Calde lacrime gli salirono agli occhi, le labbra gli tremarono. Corse nel fondo del palco e si appoggiò al muro nascondendo il viso tra le mani.
"Andiamo, Basil," disse Lord Henry, con una strana tenerezza nella voce. E i due giovani uscirono insieme.
Qualche momento dopo le luci della ribalta si accesero e il sipario si alzò sul terzo atto. Dorian Gray ritornò alla sua poltrona. Era pallido, altero, indifferente. Lo spettacolo tirava avanti faticosamente e pareva non terminare mai Metà del pubblico se n'era andata strascicando pesantemente i piedi e ridendo. Era un fiasco completo. L'ultimo atto si svolse davanti ad una sala quasi vuota. Il sipario calò tra una risatina e alcuni gemiti.
Appena finito lo spettacolo, Dorian Gray si precipitò dietro il palcoscenico, nei camerini. La ragazza era là, sola, con un'espressione di trionfo in viso. Un fuoco squisito le illuminava lo sguardo. Intorno a lei c'era un'aura di splendore, le sue labbra socchiuse, sorridevano a qualche loro intimo segreto.
Quando Dorian entrò, lo guardò e fu come avvolta da un'espressione di infinita felicità. "Come ho recitato male stasera, Dorian!" esclamò.
"Orribilmente," rispose lui osservandola stupito, "orribilmente! Una cosa terribile. Non ti senti bene? Non hai idea di quel che è stato. Non immagini quel che ho sofferto."
La ragazza sorrise. "Dorian," rispose, indugiando sul nome con una lunga modulazione come se sui rossi petali della sua bocca esso fosse più dolce del miele. "Dorian, dovresti aver capito. Ma capisci, ora, non è vero?"
"Che cosa dovrei capire?" domandò lui incollerito.
"Perché ho recitato così male stasera. Perché reciterò sempre male, perché non reciterò più bene."
Dorian Gray si strinse nelle spalle. "Immagino che tu non stia bene. Non dovresti recitare quando ti senti così. Ti rendi ridicola. I miei amici si sono annoiati, io mi sono annoiato."
Sibyl pareva non ascoltarlo. Era trasfigurata dalla gioia, era dominata da un'estasi di felicità.
"Dorian, Dorian," esclamò, "prima di conoscerti, recitare era l'unica realtà della mia vita. Vivevo solo nel teatro, credevo che fosse tutto vero. Una sera ero Rosalind, un'altra sera Porzia. La gioia di Beatrice era la mia gioia, ed erano anche mie le sofferenze di Cordelia. Credevo a tutto. Le persone mediocri che recitavano con me mi sembravano simili a dei, le scene dipinte erano il mio mondo. Conoscevo solo ombre e le credevo reali. Poi sei venuto tu, oh, mio dolcissimo amore, e hai liberato la mia anima dalla prigione. Mi hai insegnato che cos'è la realtà. Stasera, per la prima volta in vita mia, ho visto fino in fondo la falsità, la mistificazione, la stupidità della vuota parata in cui avevo sempre recitato. Questa sera per la prima volta mi sono resa conto che Romeo era ripugnante, vecchio, truccato, che la luce della luna nel giardino era falsa, lo scenario era volgare, mentre le parole che dovevo pronunciare erano irreali, non erano mie, non erano le parole che volevo dire. Tu mi hai dato qualche cosa di più elevato, qualche cosa di cui ogni arte è solo un riflesso. Mi hai fatto capire che cosa è veramente l'amore. Amore mio! Amore mio! Principe Azzurro! Principe della Vita! Le ombre mi nauseano, ormai. Tu sei per me più di quanto potranno mai essere tutte le arti. Che cosa ho a che fare con i pupazzi di una commedia? Quando sono entrata in scena questa sera, non riuscivo a capire come mai avevo perduto tutte le mie capacità. Pensavo che sarei stata meravigliosa e scoprii che non sapevo fare nulla. Improvvisamente, nell'anima mi baluginò il significato di tutto questo e il saperlo fu per me una sensazione deliziosa. Li sentivo fischiare e sorridevo. Che cosa possono sapere loro di un amore come il nostro? Portami via, Dorian... portami via con te in un posto dove possiamo essere assolutamente soli. Odio il palcoscenico. Potrei imitare una passione che non sento, ma non una che mi arde come fuoco. Oh, Dorian, Dorian, capisci ora che cosa significa? Se anche potessi farlo, sarebbe una profanazione per me recitare la parte dell'innamorata. Me lo hai fatto capire tu."
Dorian Gray si lasciò cadere sul divano e distolse il viso. "Tu hai ucciso il mio amore," mormorò.
Lei lo guardò stupita e rise. Dorian non rispose. Si avvicinò a lui e con le piccole dita gli accarezzò i capelli, poi si inginocchiò portando le sue mani alle labbra. Lui le ritrasse e rabbrividì.
Poi si alzò e si avvicinò alla porta. "Sì," esclamò, "hai ucciso il mio amore. Prima stimolavi la mia immaginazione, ora non stimoli nemmeno la mia curiosità. Semplicemente, non provochi in me nessuna reazione. Ti amavo perché eri meravigliosa, perché eri intelligente e dotata, perché facevi vivere i sogni di grandi poeti e rafforzavi e materializzavi le ombre dell'arte. Hai gettato via tutto, sei stupida e superficiale. Mio Dio! Che pazzo sono stato ad amarti! Che stupido sono stato! Adesso non sei più nulla per me. Non ti rivedrò più, non ti penserò più, non pronuncerò più il tuo nome. Tu non sai che cosa rappresentavi per me una volta. Come mai... oh, non riesco a pensarci! Vorrei non aver mai posato lo sguardo su di te! Tu hai rovinato il più bell'episodio d'amore della mia vita. Come conosci poco l'amore se pensi che guasti la tua arte! Senza di essa non sei nulla. Ti avrei resa famosa, splendida, magnifica. Il mondo ti avrebbe adorata e tu avresti portato il mio nome. Che cosa sei adesso? Un'attrice di terz'ordine dal viso grazioso."
La ragazza impallidì e fu scossa da un tremito. Si strinse le mani e la voce le si bloccò in gola. "Non dirai sul serio, Dorian?" mormorò. "Stai recitando."
"Recitare! Lo lascio fare a te. Sei così brava," rispose lui, amaro. Sibyl si rialzò e con una pietosa espressione di sofferenza si avvicinò a lui. Gli posò una mano sul braccio e lo guardò negli occhi. Lui la respinse. "Non toccarmi!" disse con forza.
Con un fievole gemito Sibyl si gettò ai suoi piedi e rimase immobile come un fiore calpestato. "Dorian! Dorian! Non lasciarmi!" sussurrò. "Mi dispiace tanto di non aver recitato bene. Ho pensato a te tutto il tempo. Ma proverò... davvero, proverò. Mi ha travolto così improvvisamente, il mio amore per te. Credo che non me ne sarei mai resa conto se non mi avessi baciata... se non ci fossimo baciati. Baciami ancora, amore mio. Non andartene via. Non potrei sopportarlo. Oh, non andartene via. Mio fratello... no, non importa, non diceva sul serio, scherzava... Ma tu, oh, non puoi perdonarmi questa sera? Lavorerò intensamente e cercherò di migliorare. Non essere crudele con me perché ti amo più di qualunque cosa al mondo. Dopo tutto, solo per una volta non ti ho soddisfatto. Ma hai perfettamente ragione, Dorian. Avrei dovuto comportarmi più da artista. Sono stata sciocca, ma non potevo farne a meno. Oh, non lasciarmi, non lasciarmi." Fu scossa da singhiozzi appassionati. Era rannicchiata sul pavimento come una bestiola ferita e Dorian Gray la guardava dall'alto con quei suoi occhi meravigliosi. Le labbra finemente cesellate erano piegate in un'espressione di squisito disprezzo. Vi è sempre qualche cosa di ridicolo nelle emozioni delle persone che non si amano più. Sibyl Vane gli sembrava assurdamente melodrammatica. Le sue lacrime e i suoi singhiozzi lo infastidivano.
"Me ne vado," disse alla fine con la sua voce calma e chiara. "Non vorrei essere scortese, ma non posso rivederti più. Mi hai deluso."
Sibyl piangeva silenziosamente; non rispose, ma si trascinò più vicino a lui. Allungò ciecamente le piccole mani come se volesse cercarlo. Dorian si voltò di scatto e lasciò la stanza. Pochi istanti dopo era uscito dal teatro.
Non seppe mai bene dove fosse andato. Ricordò di aver vagato per strade debolmente illuminate, di aver superato desolati portici bui e case dall'aspetto sinistro. Donne dalle voci rauche e dalle aspre risate lo avevano chiamato. Ubriachi vacillanti bestemmiavano e parlavano tra sé come scimmie mostruose. Aveva visto bambini grotteschi rannicchiati sulle soglie e udito grida e maledizioni provenire da cortili oscuri.
Alle prime luci dell'alba si trovò vicino al Covent Garden. L'oscurità scompariva e, arrossendo di pallidi fuochi, il cielo si incavava trasformandosi in una perla perfetta. Carri enormi, colmi di gigli ondeggianti, rotolavano rumorosamente sulle strade lucide e vuote. L'aria era intrisa del profumo dei fiori e la loro bellezza sembrava attutire la sua sofferenza. Li seguì nel mercato e osservò gli uomini scaricare i cassoni. Un carrettiere dalla camicia bianca gli offrì delle ciliege. Lo ringraziò domandandosi stupito perché non avesse accettato dei soldi e si mise a mangiarle distrattamente. Erano state colte a mezzanotte e la freschezza della luna le aveva penetrate. Una lunga fila di ragazzi che portavano ceste di tulipani screziati e di rose gialle e rosse gli passò davanti, cercando di avanzare tra le grandi cataste di verdure color verde giada. Sotto il porticato dai grigi pilastri scoloriti dal sole, un gruppo di ragazze sudice e a testa nuda, aspettava che l'asta finisse. Altre si affollavano intorno alla porta girevole del caffè della piazza. I massicci cavalli da tiro sdrucciolavano e scalpitavano sulle pietre irregolari, scuotendo le campanelle dei finimenti. Alcuni carrettieri dormivano sdraiati su una pila di sacchi. I colombi dal collo iridescente e dalle zampe rosa correvano intorno beccando.
Dopo un poco fece segno a una carrozza e si fece portare a casa. Indugiò per qualche momento sulla soglia, osservando la piazza silenziosa, le finestre chiuse e vuote, le persiane sbarrate. Adesso il cielo era un puro opale e su questo sfondo i tetti delle case brillavano come argento. Da un camino di fronte saliva un sottile filo di fumo, che si svolgeva come un nastro viola nell'aria color madreperla.
Nella grande lanterna veneziana dorata, predata da una gondola dogale, che pendeva dal soffitto del grande vestibolo rivestito di quercia, ardevano ancora tremolando le fiammelle di tre beccucci: parevano sottili petali azzurri di fiamma, orlati di fuoco bianco. Li spense e, gettati sulla tavola soprabito e cappello, attraversò la biblioteca dirigendosi verso la porta della camera da letto, una vasta stanza ottagonale al pianterreno che, nella sua nuova passione per il lusso, da poco aveva arredato da solo, appendendovi alcuni insoliti arazzi rinascimentali scoperti in una soffitta abbandonata di Selby Royal. Mentre abbassava la maniglia lo sguardo gli cadde sul ritratto dipinto da Basil Hallward. Arretrò sorpreso, poi entrò nella sua camera con un'espressione leggermente perplessa. Sbottonò la giacca e parve esitare; alla fine ritornò indietro, si avvicinò al quadro e lo osservò. Nella luce pallida che filtrava dalle tende di seta color crema, il volto gli sembrò leggermente cambiato: l'espressione era diversa. Si sarebbe detto che la bocca avesse assunto una nota di crudeltà. Era davvero strano.
Si voltò, si diresse verso la finestra e scostò la tenda. L'alba luminosa inondò la stanza spazzando le ombre fantastiche negli angoli polverosi, dove esse si nascosero tremando. Ma la strana espressione che aveva notato sul volto del ritratto parve rimanervi e, anzi, rafforzarsi. La tremula, ardente luce del sole gli mostrava le rughe di crudeltà intorno alla bocca chiare come se si stesse guardando in uno specchio dopo aver commesso qualche cosa di spaventoso.
Trasalì e, preso dal tavolo uno specchio ovale dalla cornice di amorini d'avorio, uno dei tanti regali di Lord Henry, guardò ansiosamente nella lucida profondità. Nessuna ruga simile deformava le labbra rosse. Che cosa significava?
Si strofinò gli occhi e, avvicinatosi al quadro, lo esaminò di nuovo. Il quadro non mostrava il minimo segno di cambiamento e tuttavia l'espressione complessiva era alterata. Non era la sua immaginazione: il fatto era di un'orribile evidenza.
Si gettò su una poltrona e cominciò a pensare. Improvvisamente, come un lampo, gli attraversò la mente quello che aveva detto nello studio di Basil Hallward il giorno in cui il quadro era stato finito. Sì, lo ricordava perfettamente. Aveva espresso il folle desiderio di poter restar giovane lasciando che il ritratto invecchiasse al posto suo, di conservare intatta la sua bellezza lasciando che il volto sulla tela reggesse il peso delle sue passioni e dei suoi peccati, che le rughe della sofferenza e della riflessione segnassero l'immagine dipinta permettendogli di conservare il bocciolo delicato e la grazia della sua adolescenza di cui da poco era consapevole. Ma certo il suo desiderio non era stato esaudito: queste cose erano impossibili. Gli pareva mostruoso anche solo pensarle. Tuttavia aveva davanti a sé il ritratto con quella nota di crudeltà nelle labbra.
Crudeltà! Era stato crudele? Colpa della ragazza, non sua. L'aveva sognata come una grande artista, le aveva donato il suo amore pensando che lei fosse grande, e lei lo aveva deluso. Si era mostrata frivola e indegna. Tuttavia, una sensazione di infinito rimpianto lo colse mentre la ricordava abbandonata ai suoi piedi singhiozzante come un bambino. Ricordò con quanta cattiveria l'aveva guardata. Perché era fatto così? Perché aveva ricevuto un'anima simile? Ma anche lui aveva sofferto. Durante quelle tre tremende ore dello spettacolo aveva vissuto secoli di dolore, eternità di torture. La sua vita valeva bene quella di lei. Sibyl gli aveva inflitto un momento di sofferenza insopportabile, anche se lui l'aveva ferita inguaribilmente. Inoltre, le donne sopportano il dolore meglio degli uomini. Vivono delle loro emozioni. Quando si prendono un amante lo fanno semplicemente per avere qualcuno cui fare scenate. Glielo aveva detto Lord Henry, e Lord Henry conosceva le donne. Perché darsi pensiero per Sibyl Vane? Non significava più nulla per lui ormai.
Ma il quadro? Che cosa poteva pensarne? Custodiva il segreto della sua vita e raccontava la sua storia. Gli aveva insegnato ad amare la propria bellezza. Gli avrebbe anche insegnato ad amare la propria anima? Lo avrebbe potuto guardare ancora?
No, era solo un'illusione dovuta ai suoi sensi turbati. L'orribile notte trascorsa aveva lasciato dietro di sé i suoi fantasmi. Improvvisamente gli era caduta nel cervello quella minuscola goccia scarlatta che porta gli uomini alla pazzia. Il quadro non aveva subito nessun cambiamento, era folle pensarlo.
E tuttavia lo aveva davanti agli occhi, con quel bel viso contorto e il sorriso crudele. I capelli luminosi rilucevano sotto i raggi del primo sole, gli occhi azzurri erano fissi nei suoi. Fu sopraffatto da un senso d'infinita pietà, non per se stesso, ma per l'immagine dipinta di se stesso. Già si era alterata e lo sarebbe stata ancora di più. L'oro si sarebbe spento in grigio, le sue rose rosse e bianche sarebbero appassite. Per ogni peccato commesso, una macchia avrebbe contaminato e deteriorato la sua bellezza. Ma non avrebbe peccato. Il quadro, mutato o immutato, sarebbe stato il simbolo visibile della sua coscienza. Avrebbe resistito alla tentazione. Non avrebbe più rivisto Lord Henry... o perlomeno non avrebbe più ascoltato quelle sue sottili e velenose teorie che nel giardino di Basil Hallward avevano stimolato per la prima volta in lui la passione per le cose impossibili. Sarebbe ritornato da Sibyl Vane, le avrebbe chiesto perdono, l'avrebbe sposata, avrebbe cercato di amarla ancora. Sì, questo era il suo dovere. Lei doveva aver sofferto più di lui. Povera piccola! Era stato egoista e crudele con lei. Il fascino che aveva esercitato su di lui sarebbe risorto. Insieme sarebbero stati felici. La sua vita con lei sarebbe stata bella e pura.
Si alzò dalla poltrona e portò un grande paravento proprio davanti al ritratto. Gli lanciò un'occhiata e rabbrividì. "Che cosa orribile!" mormorò tra sé. Si diresse alla porta finestra e l'aprì. Uscì e, camminando sull'erba, trasse un profondo respiro. L'aria fresca del mattino parve allontanare tutte le sue cupe passioni. Pensava solo a Sibyl. Un debole eco del suo amore ritornò in lui. Ripeté più volte il suo nome. Gli uccelli che cantavano nel giardino bagnato di rugiada sembravano parlare di lei ai fiori.
VIII
Quando si svegliò, mezzogiorno era passato da un pezzo. Il suo cameriere era già entrato diverse volte in punta di piedi per vedere se il padrone accennava a svegliarsi, chiedendosi come mai dormisse così a lungo. Finalmente il campanello squillò e Victor entrò silenziosamente con una tazza di tè e una pila di lettere posate su un piccolo vassoio di antica porcellana di Sevres; scostò le tende di seta color verde oliva rigate di un azzurro luminoso tese sulle tre grandi finestre.
"Monsieur ha dormito bene questa mattina," disse con un sorriso.
"Che ora è Victor?" domandò Dorian Gray.
"L'una e un quarto, signore."
Com'era tardi! Si sollevò a sedere e, dopo aver bevuto un po' di tè, scorse le lettere. Una, di Lord Henry, era stata consegnata a mano in mattinata. Esitò un attimo, poi la mise da parte. Aprì le altre pigramente: la solita collezione di cartoncini, di inviti a pranzo, di biglietti per visioni private, di programmi di concerti di beneficenza e simili, che piovono ogni mattina, durante la "Season", nella casa di ogni giovane alla moda. C'era un conto piuttosto salato, per un servizio da toilette d'argento cesellato Louis-Quinze: non aveva ancora avuto il coraggio di mandarlo ai suoi tutori, persone dalle idee molto antiquate che non si rendevano conto che viviamo in un'epoca in cui le cose superflue sono le uniche necessarie. C'erano inoltre diversi annunci redatti in termini molto cortesi di usurai di Jermyn Street che offrivano qualunque somma in prestito su semplice richiesta e al tasso più ragionevole.
Dopo circa dieci minuti si alzò e, gettata sulle spalle una ricca vestaglia di cashmere ricamata in seta, si trasferì nella stanza da bagno dal pavimento in onice. Dopo il lungo sonno, l'acqua fresca lo ristorò. Pareva aver dimenticato tutti gli avvenimenti della notte precedente. Una volta o due ebbe, ma come avvolta dall'irrealtà del sogno, la debole sensazione di aver partecipato a qualche oscuro dramma.
Appena vestito entrò in biblioteca e sedette a un tavolino rotondo vicino alla finestra aperta, sul quale era stata apparecchiata una leggera colazione alla francese. Era una splendida giornata. L'aria tiepida sembrava carica di aromi. Un'ape entrò nella stanza e ronzò attorno al vaso turchese pieno di rose color giallo zolfo che aveva davanti. Si sentiva completamente felice.
D'improvviso, lo sguardo gli cadde sul paravento che aveva sistemato davanti al ritratto e sussultò.
"Troppo freddo per Monsieur?" domandò il cameriere, mettendo un'omelette sulla tavola. "Devo chiudere la finestra?"
Dorian scosse il capo. "Non ho freddo," mormorò.
Allora era vero? Il ritratto era effettivamente cambiato? Oppure solo l'immaginazione gli aveva fatto vedere un'espressione malvagia là dove prima c'era un'espressione di gioia? Era proprio impossibile che una tela dipinta mutasse? Assurdo. Una storiella che un giorno avrebbe raccontato a Basil. Lo avrebbe fatto sorridere.
E tuttavia come era vivido il ricordo del fatto! Prima, nella debole luce dell'aurora, poi nella più chiara luce dell'alba, aveva visto la nota di crudeltà intorno alle labbra contorte. Aveva quasi paura che il cameriere lasciasse la stanza perché sapeva che, rimasto solo, avrebbe dovuto guardare il ritratto. Temeva quella certezza. Quando gli venne portato il caffè e l'uomo si voltò per andarsene, sentì impellente il desiderio di chiedergli di rimanere. Lo chiamò mentre stava chiudendo la porta. L'uomo si fermò in attesa dei suoi ordini. Dorian lo fissò per un momento. "Non sono in casa per nessuno, Victor," disse con un sospiro. L'uomo si inchinò e uscì.
Allora si alzò, si accese una sigaretta e si distese su un divano coperto di preziosi cuscini, situato di fronte al paravento. Era un antico paravento di cuoio spagnolo dorato, con impressioni e decorazioni stile Louis-Quatorze piuttosto ricche. Lo osservò con curiosità, domandandosi se in altre occasioni avesse celato il segreto di una vita.
Ma dopotutto, doveva proprio scostarlo? Perché non lasciarlo dov'era? A che cosa gli serviva sapere? Se la cosa era vera, era terribile. Se non lo era, perché preoccuparsene? Ma se per caso, o per qualche nefasta possibilità, altri sguardi avessero spiato dietro il paravento e notato l'orribile cambiamento? Che cosa avrebbe dovuto fare se Basil Hallward fosse venuto a chiedergli di vedere il suo quadro? Lo avrebbe fatto di certo. No, bisognava analizzare la cosa immediatamente. Qualunque cosa era meglio di quel terribile dubbio.
Si alzò e chiuse a chiave le due porte. Almeno sarebbe stato solo a guardare la maschera della sua vergogna. Quindi scostò il paravento e vide se stesso faccia a faccia. Era perfettamente vero: il ritratto era mutato.
In seguito ricordò spesso e sempre con non poca meraviglia, di essersi dapprima trovato ad esaminare il quadro con un interesse quasi scientifico. Gli sembrava incredibile che un simile mutamento potesse avvenire. E tuttavia era un fatto reale. C'era forse qualche sottile affinità tra gli atomi che si erano raccolti in forma di colore sulla tela e l'anima che era in lui? Era possibile che essi realizzassero ciò che l'anima pensava? Che dessero corpo a ciò che essa sognava? Oppure c'era qualche altro e più terribile motivo? Rabbrividì, sentì di aver paura e, tornato sul divano, rimase disteso, fissando il ritratto con un senso di nausea e di orrore.
Sentiva, comunque, che il ritratto aveva fatto almeno una cosa per lui. Gli aveva fatto capire quanto fosse stato ingiusto e crudele nei confronti di Sibyl Vane. Ma non era troppo tardi per riparare: poteva ancora diventare sua moglie. Il suo amore irreale ed egoista avrebbe ceduto a una più elevata influenza, si sarebbe trasformato in una più nobile passione e il ritratto che Basil Hallward aveva dipinto gli sarebbe stato di guida nella vita, sarebbe stato per lui quello che la santità è per alcuni e, per tutti, il timor di Dio. Esistono narcotici per il rimorso, droghe che possono addormentare il senso morale, ma qui c'era il simbolo palese della degradazione del peccato, il segno sempre presente delle rovine che gli uomini infliggono alla loro anima.
Batterono le tre, poi le quattro, poi la mezz'ora fece squillare i suoi due colpi, ma Dorian Gray non si mosse. Cercava di raccogliere i fili scarlatti della vita, di tesserli in uno schema, di trovare la strada nel sanguigno labirinto delle passioni in cui vagava. Non sapeva che cosa fare né cosa pensare. Alla fine, sedette al tavolo e scrisse una lettera appassionata alla ragazza che aveva amato, implorando il suo perdono e accusandosi di follia. Coprì pagine e pagine di sfrenate parole di rimorso e di ancor più sfrenate parole di dolore. C'è una voluttà nell'autoaccusa. Quando ci rimproveriamo sentiamo che nessun altro ha il diritto di farlo. È la confessione, non il prete, a impartirci l'assoluzione. Quando Dorian Gray ebbe finito la lettera sentì di esser stato perdonato.
Improvvisamente sentì bussare alla porta, poi la voce di Lord Henry provenire da fuori. "Mio caro ragazzo, devo vederti. Fammi entrare subito. Non posso lasciarti chiuso qui in questo modo."
Dapprima non rispose, ma rimase assolutamente immobile. I colpi però continuavano, sempre più forti. Sì, era meglio far entrare Lord Henry, spiegargli la nuova vita che intendeva condurre, litigare con lui se necessario, rompere se era inevitabile. Balzò in piedi, tirò in fretta il paravento davanti al quadro e girò la chiave.
"Sono così dispiaciuto per tutta la faccenda, Dorian," disse Lord Henry entrando. "Ma devi cercare di non pensarci."
"Parli di Sibyl Vane?" domandò il giovane.
"Sì, naturalmente," rispose Lord Henry, affondando in una poltrona e togliendosi lentamente i guanti gialli. "È spaventoso, sotto un certo aspetto, ma non è stata colpa tua. Dimmi, ieri sera dopo la fine dello spettacolo sei andato a trovarla nel camerino?"
"Sì."
"Ne ero sicuro. Le hai fatto una scenata?"
"Sono stato brutale, Harry, assolutamente brutale. Ma adesso tutto è sistemato. Adesso non sono più addolorato per quello che è successo. Mi ha insegnato a conoscermi meglio."
"Ah, Dorian, sono così contento che tu la prenda in questo modo! Temevo di trovarti sprofondato nel rimorso e intento a strapparti quei tuoi bei riccioli biondi."
"Sono passato attraverso tutte queste fasi," disse Dorian, scuotendo il capo e sorridendo. "Adesso però, sono perfettamente felice. Tanto per cominciare so che cos'è la coscienza. Non è quello che mi avevi detto tu: è la cosa più divina che ci sia in noi. Non riderne, Harry, non riderne più... davanti a me, almeno. Voglio essere buono. Non posso sopportare l'idea che la mia anima sia ripugnante."
"Un'affascinante base artistica per la morale, Dorian! Me ne congratulo. Ma come intendi cominciare?"
"Sposando Sibyl Vane."
"Sposando Sibyl Vane!" esclamò Lord Henry, balzando in piedi e fissandolo con un'espressione perplessa e meravigliata. "Ma, mio caro Dorian..."
"Sì, Harry, so che cosa stai per dire. Qualche cosa di terribile a proposito del matrimonio. Non dirla. Non dirmi mai più cose del genere. Due giorni fa ho chiesto a Sibyl di sposarmi e non intendo rompere la promessa. Sarà mia moglie!"
"Tua moglie! Dorian!... Non hai ricevuto la mia lettera? L'ho scritta questa mattina e l'ho fatta portare dal mio cameriere.
"La tua lettera? Oh, sì, ricordo. Non l'ho letta, Harry. Temevo che contenesse qualcosa di spiacevole. Tu, con i tuoi epigrammi fai a brandelli la vita."
"E allora non sai nulla?"
"Che cosa vuoi dire?"
Lord Henry attraversò la stanza e, sedutosi accanto a Dorian, gli prese le mani nelle sue e gliele tenne strette. "Dorian," disse, "la mia lettera... non spaventarti... l'ho scritta per dirti che Sibyl Vane è morta."
Un grido di dolore eruppe dalle labbra del giovane. Dorian balzò in piedi, strappando le mani dalla stretta di Lord Henry. "Morta! Sibyl morta! Non è vero! Che orrenda bugia! Come osi dirla?"
"È vero, Dorian," disse Lord Henry, gravemente. "È su tutti i giornali del mattino. Ti ho scritto chiedendoti di non vedere nessuno prima di me. Ci sarà un'inchiesta, naturalmente, e tu non devi venire coinvolto. Con cose di questo genere a Parigi si diventa alla moda, ma a Londra la gente è piena di pregiudizi. Qui non bisogna mai fare il proprio debut con uno scandalo: bisogna tenerlo in serbo per rendere interessante la propria vecchiaia. Immagino che a teatro non sappiano chi sei. Se è così, tutto bene. Ti ha visto qualcuno nelle vicinanze del suo camerino? Questo è un punto importante."
Per qualche momento Dorian non rispose. Era raggelato dall'orrore. Infine balbettò con un fil di voce: "Harry, un'inchiesta, hai detto? Che cosa significa? Sibyl si è ... ? Oh, Harry, non posso sopportarlo! Presto. Dimmi tutto immediatamente."
"Sono sicuro che non si è trattato di un incidente, anche se al pubblico bisogna presentarlo sotto questa luce. Pare che mentre lasciava il teatro con la madre, verso le dodici e mezzo circa, abbia detto di aver dimenticato qualcosa di sopra. L'hanno attesa per un po', ma lei non scendeva. Alla fine l'hanno trovata distesa sul pavimento del camerino. Aveva inghiottito per sbaglio qualche cosa, qualche sostanza pericolosa che impiegano a teatro. Non so se si trattasse di acido prussico o di biacca di piombo. Acido prussico, penso, perché pare sia morta istantaneamente."
"Harry, Harry, è terribile!" esclamò il giovane.
"Sì, naturalmente è davvero tragico, ma tu non devi venire coinvolto. Ho letto sullo Standard che aveva diciassette anni. Avrei detto che fosse più giovane: aveva un'aria così da bambina, e pareva così poco esperta di teatro. Dorian, non devi permettere che questa faccenda ti demoralizzi. Devi venire a cena con me e dopo andremo all'Opera. C'è la Patti e ci saranno tutti. Puoi venire nel palco di mia sorella. Ci sono delle donne molto brillanti con lei."
"E così ho assassinato Sibyl Vane," disse Dorian Gray quasi parlando tra sé, "... l'ho assassinata indiscutibilmente, proprio come se avessi tagliato la sua piccola gola con un coltello. E tuttavia per questo le rose non sono meno belle, gli uccelli continuano a cantare allegramente nel mio giardino. E questa sera pranzerò con te, poi andremo all'Opera e poi, suppongo che ceneremo da qualche parte. Che incredibile tragedia è la vita! Se avessi letto tutto questo in un libro, Harry, credo che ne avrei pianto. E, non so come, adesso che è davvero successo, e proprio a me, mi sembra troppo straordinario per piangerne. Qui c'è la prima lettera d'amore appassionata che ho scritto in vita mia. Strano, che la mia prima lettera d'amore sia indirizzata a una ragazza morta. Chissà se hanno ancora delle sensazioni quei bianchi esseri silenziosi che noi chiamiamo morti? Sibyl! Può sentire, sapere, ascoltare? Oh, Harry, come l'amavo un tempo. Mi sembra che siano passati anni interi. Era tutto per me. Poi venne quell'orribile notte - davvero è stata appena la notte scorsa? - quando recitò così male e quasi mi si spezzò il cuore. Mi spiegò tutto: era straziante, ma non ne fui minimamente commosso. La credevo superficiale. Improvvisamente accadde qualche cosa che mi spaventò moltissimo. Non posso dirti di che cosa si tratta, ma è una cosa terribile. Decisi che sarei ritornato da lei. Sentivo di aver avuto torto. E ora è morta! Mio Dio, mio Dio! Harry, che cosa devo fare? Tu non sai quanto io sia in pericolo e non c'è nulla che mi possa sorreggere. Lei avrebbe potuto farlo. Non aveva nessun diritto di uccidersi. È stata un'egoista."
"Mio caro Dorian," rispose Lord Henry, prendendo una sigaretta dall'astuccio e levandosi di tasca una scatola di fiammiferi ricoperta d'oro, "l'unica influenza che una donna può esercitare su un uomo è quella di annoiarlo a un punto tale da fargli perdere ogni interesse alla vita. Se tu avessi sposato quella ragazza ti saresti rovinato. Naturalmente saresti stato gentile con lei: si può sempre essere gentili con chi non ci interessa affatto. Ma lei si sarebbe accorta subito di esserti del tutto indifferente e, quando una donna scopre questo atteggiamento nel marito, diventa terribilmente sciatta, oppure comincia a portare dei cappellini elegantissimi che le dovrà pagare il marito di un'altra. Tralascio di parlare dell'errore dal punto di vista della differenza sociale, un errore disastroso e che io naturalmente avrei impedito, ma ti assicuro che, comunque, la faccenda si sarebbe rivelata un fallimento completo."
"Suppongo di sì," mormorò il giovane, muovendosi avanti e indietro per la stanza, pallidissimo. "Ma pensavo che sarebbe stato mio dovere. Non è colpa mia se questa terribile tragedia mi ha impedito di fare quel che era giusto. Ricordo che una volta hai detto che c'è una fatalità nei buoni propositi: vengono sempre presi troppo tardi. A me è successo proprio questo."
"I buoni propositi sono inutili tentativi di interferire nelle leggi scientifiche. Nascono dalla pura vanità e il loro risultato è un nulla assoluto. Ogni tanto ci regalano una di quelle emozioni voluttuose e sterili che hanno un certo fascino per i deboli: è tutto quello che se ne può dire. Sono semplicemente assegni che gli uomini emettono su una banca dove non hanno un conto corrente."
"Harry," esclamò Dorian Gray, avvicinandosi e sedendosi accanto a lui, "perché non posso sentire questa tragedia come vorrei? Non penso di essere senza cuore. Tu credi che lo sia?"
"Hai fatto troppe sciocchezze in queste ultime due settimane per avere il diritto di ritenerti tale, Dorian," rispose Lord Henry, con il suo dolce, malinconico sorriso.
Il giovane aggrottò le sopracciglia. "Non mi piace questa spiegazione, Harry," replicò, "ma sono contento che tu non mi creda senza cuore. Non lo sono affatto, so di non esserlo. E tuttavia devo ammettere che questo avvenimento non mi ha colpito come avrebbe dovuto. Mi sembra soltanto la conclusione meravigliosa di una meravigliosa commedia. Ha in sé tutta la terribile bellezza di una tragedia greca, una tragedia nella quale ho avuto una parte importante, ma dalla quale sono uscito senza ferite."
"È una questione interessante," disse Lord Henry, che provava uno squisito piacere nel far vibrare l'inconsapevole egocentrismo del giovane, "una questione estremamente interessante. E immagino che la vera spiegazione sia questa. Spesso le tragedie della vita si verificano in una forma così priva di senso estetico che ci colpiscono con la loro assurda mancanza di significato, la totale mancanza di gusto. Ci colpiscono proprio come ci colpisce la volgarità. Ci danno un'impressione di pura forza bruta e contro questo ci rivoltiamo. A volte, tuttavia, una tragedia che possiede elementi di bellezza artistica attraversa la nostra vita. Se questi elementi di bellezza sono reali, l'insieme agisce semplicemente sulla nostra sensibilità all'effetto drammatico. Ci rendiamo conto improvvisamente di non essere più gli attori, ma gli spettatori della rappresentazione. O meglio, siamo l'una e l'altra cosa. Ci osserviamo e siamo avvinti dalla pura meraviglia dello spettacolo. In questo caso, che cosa è successo, in realtà? Qualcuno si è ucciso per amor tuo. Vorrei aver vissuto un'esperienza simile: mi avrebbe fatto amare l'amore per il resto della vita. Le persone che mi hanno adorato - non molte, ma qualcuna c'è stata - si sono sempre ostinate a vivere quando da molto tempo avevo cessato di interessarmi di loro, o loro di me. Sono diventate grasse e noiose e, quando le incontro, immediatamente tirano fuori i ricordi. Quell'incredibile memoria che hanno le donne! Che cosa spaventosa! Quale enorme ristagno intellettuale rivela! Si dovrebbero assorbire i colori della vita, mai ricordarne i particolari. I particolari sono sempre volgari."
"Devo seminare dei papaveri nel mio giardino," sospirò Dorian.
"Non ce né bisogno," replicò l'amico. "La vita ha sempre i papaveri nelle sue mani. Di tanto in tanto, naturalmente, le cose vanno per le lunghe. Una volta, per tutta la stagione non feci che portare violette come lutto artistico per una storia romantica che non voleva morire. Comunque morì, alla fine. Ho dimenticato che cosa la uccise. Probabilmente le decisione di lei di sacrificarmi il mondo intero. Questo è sempre un momento pauroso: ci colma del terrore dell'eternità. Bene - lo crederesti? - una settimana fa, a casa di Lady Hampshire, mi sono trovato a tavola accanto alla signora in questione e lei ha preteso di ritornare sulla faccenda, di rivangare il passato, di frugare nel futuro. Io avevo sepolto il mio romanzo in un letto di asfodeli, lei lo esumò e mi assicurò che le avevo rovinato la vita. Devo dire che mangiò a quattro palmenti e quindi non mi sentii angosciato. Ma che mancanza di gusto! L'unico fascino del passato è che è passato. Ma le donne non sanno mai quando è calata la tela. Vogliono sempre un sesto atto e, appena l'interesse per la rappresentazione è completamente esaurito, intendono continuare. Se potessero fare come vogliono, ogni commedia finirebbe tragicamente e ogni tragedia culminerebbe in una farsa. Sono artificiosamente affascinanti, ma non hanno senso artistico. Tu sei più fortunato di me. Dorian, ti assicuro che nessuna delle donne che ho conosciuto avrebbe fatto per me quello che ha fatto per te Sibyl Vane. Le donne mediocri si consolano sempre. Alcune lo fanno appassionandosi ai colori sentimentali. Non fidarti mai di una donna che veste in mauve, quale che sia la sua età, né di una donna che passati i trentacinque abbia la passione dei nastri rosa. Significa sempre che c'è dietro una storia. Altre si consolano moltissimo scoprendo improvvisamente le buone qualità del proprio marito. Ti ostentano la loro felicità coniugale come se fosse il più seducente dei peccati. Alcune si consolano con la religione. Una volta una donna mi disse che i misteri religiosi hanno tutto il fascino dei flirt, cosa che posso capire alla perfezione. Inoltre, nulla rende così vanitosi come sentirsi dare del peccatore. La coscienza ci rende tutti malati di egotismo. Sì, le consolazioni che una donna può trovare nella vita moderna sono infinite. In realtà, però, non ti ho ancora parlato della più importante."
"Qual è, Harry?" domandò il giovane stancamente.
"Oh, la più ovvia. Rubare l'ammiratore a un'altra quando si è perso il proprio. Nella buona società questo rimette sempre a nuovo una donna. Ma davvero, Dorian, quanto doveva essere diversa Sibyl Vane da tutte le donne che si incontrano! Secondo me c'è qualche cosa di perfetto nella sua morte. Sono lieto di vivere in un secolo in cui avvengono simili prodigi. Ci fanno credere alla realtà delle cose che tutti noi trattiamo con leggerezza, come il senso del romantico, la passione e l'amore."
"Dimentichi che sono stato tremendamente crudele con lei."
"Temo che le donne apprezzino la crudeltà, la crudeltà brutale, più di ogni altra cosa. Hanno istinti meravigliosamente primitivi. Le abbiamo emancipate, ma loro rimangono egualmente delle schiave alla ricerca del padrone. Amano essere dominate. Sono certo che sarai stato splendido. Non ti ho mai visto veramente in collera, ma riesco a immaginare come dovevi essere bello. E, dopotutto, due giorni fa mi hai detto una cosa che allora mi era sembrata una pura fantasia ma di cui oggi vedo l'assoluta verità e che rappresenta la chiave di tutto."
"Di che cosa si trattava, Harry?"
"Mi hai detto che per te Sibyl Vane rappresentava tutte le eroine sentimentali: che una sera era Desdemona, un'altra sera Ofelia; che se moriva come Giulietta, tornava in vita come Imogene."
"Adesso non tornerà più in vita," mormorò il giovane nascondendo il viso tra le mani.
"No, non ritornerà più in vita. Ha recitato la sua ultima parte. Ma devi vedere quella morte solitaria nel misero camerino solo come un singolare fosco frammento di una tragedia del tempo di re Giacomo, come una meravigliosa scena di Webster, di Ford, o di Cyril Tourneur. Quella ragazza non è mai realmente vissuta e quindi non è mai realmente morta. Per te, almeno, è sempre stata un sogno, un fantasma che volteggiava nelle commedie di Shakespeare abbellendole con la sua presenza, uno strumento che rendeva più ricca e gioiosa la musica di Shakespeare. Nel momento in cui toccò la vita reale la rovinò, e questa a sua volta rovinò lei. Per questo è scomparsa. Piangi per Ofelia, se vuoi, cospargiti il capo di cenere perché Cordelia è stata strangolata, maledici il cielo perché la figlia di Brabantio è morta, ma non sprecare lacrime per Sibyl Vane: è meno reale di tutti questi personaggi."
Ci fu un silenzio. La sera addensava l'oscurità nella stanza. Silenziosamente, con piedi d'argento, le ombre entravano furtive dal giardino e i colori abbandonavano, stanchi, le cose.
Dopo qualche tempo Dorian Gray sollevò lo sguardo. "Mi hai rivelato a me stesso, Harry," mormorò con una sorta di respiro di sollievo. "Tutto quello che hai detto lo sentivo, ma in un certo qual modo ne avevo paura e non riuscivo a chiarirmelo. Come mi conosci bene! Ma non parleremo più di quello che è successo. È stata una meravigliosa esperienza. È tutto. Chissà se la vita ha ancora in serbo per me qualcosa di altrettanto meraviglioso."
"La vita ha tutto in serbo per te, Dorian. Non c'è nulla che tu, con la tua straordinaria bellezza, non possa fare."
"Ma supponi che diventi brutto, vecchio e rugoso. Che cosa succederebbe in questo caso?"
"Ah, in questo caso," disse Lord Henry alzandosi per andarsene, "... allora, mio caro Dorian, dovresti lottare per vincere. Adesso la vittoria ti viene incontro. No, devi conservare la tua bellezza. Viviamo in un'epoca che legge troppo per essere saggia e che pensa troppo per essere bella. Non possiamo risparmiarti. E adesso indossa un abito più adatto e fatti portare al club. Siamo piuttosto in ritardo."
"Penso che ti raggiungerò all'Opera, Harry. Mi sento troppo spossato per mangiare. Qual è il numero del palco di tua sorella?"
"Ventisette, mi pare. È nel primo ordine. Troverai il nome sulla porta. Mi dispiace che tu non venga a pranzo."
"Non me la sento," disse Dorian distrattamente. "Ma ti sono davvero riconoscente per tutto quello che mi hai detto. Sei senz'altro il mio migliore amico. Nessuno mi ha mai capito come te."
"La nostra amicizia è solo all'inizio, Dorian," rispose Lord Henry stringendogli la mano. "Arrivederci. Spero di vederti prima delle nove e mezzo. Ricorda: canta la Patti."
Mentre la porta si chiudeva dietro di lui, Dorian Gray suonò il campanello e pochi minuti dopo Victor apparve con le lampade e abbassò gli scuri. Attese, impaziente, che l'uomo se ne andasse: pareva indugiare interminabilmente su ogni cosa.
Appena uscito, si precipitò verso il paravento e lo scostò. No, non erano avvenuti altri cambiamenti. Aveva saputo la notizia della morte di Sibyl Vane prima di lui. Sapeva gli avvenimenti della sua vita nel momento in cui si verificavano. Quella viziosa espressione di crudeltà che deturpava la bella linea della sua bocca senza dubbio era apparsa nell'attimo in cui la ragazza aveva inghiottito il veleno. Oppure il quadro rimaneva indifferente alle conseguenze e si limitava a registrare ciò che passava nella sua anima? Si domandò se fosse possibile, sperandolo, di poter vedere un giorno avvenire il cambiamento proprio sotto i suoi occhi, e nello sperarlo rabbrividì.
Povera Sibyl! Che storia patetica! Aveva spesso imitato la morte sulla scena, poi la morte in persona l'aveva toccata e portata via con sé. Come aveva recitato quell'orribile ultima scena? Lo aveva maledetto mentre moriva? No; era morta per amor suo e d'ora in poi l'amore gli sarebbe stato sempre sacro. Sibyl, sacrificando la vita, aveva espiato tutto. Non avrebbe più pensato a quel che gli aveva fatto sopportare quell'orribile sera a teatro. Avrebbe pensato a lei solo come a una meravigliosa figura tragica, mandata sulla scena del mondo per mostrare la suprema realtà dell'amore. Una meravigliosa figura tragica? Ricordando il suo aspetto infantile, i suoi modi amabili e imprevedibili, la sua timida grazia tremante, gli salirono le lacrime agli occhi. Si asciugò bruscamente le lacrime e guardò di nuovo il quadro.
Sentì che il momento di fare la sua scelta era irrevocabilmente giunto. Oppure la scelta era già stata fatta? Sì, la vita aveva deciso per lui: la vita e la sua infinita curiosità per la vita. Eterna giovinezza, passioni infinite, piaceri sottili e segreti, gioie sfrenate e ancor più sfrenati peccati: tutte queste cose sarebbero state sue. Il ritratto avrebbe portato il peso della sua vergogna: nient'altro.
Fu sopraffatto da un senso di dolore al pensiero dell'infamia riservata al bel volto del ritratto. Una volta, in un'infantile canzonatura di Narciso, aveva baciato, o finto di baciare, quelle labbra dipinte che ora gli sorridevano con espressione così crudele. Per mattine e mattine era rimasto seduto di fronte al ritratto, stupito della sua bellezza. A volte gli sembrava di esserne innamorato. E ora il suo destino era quello di alterarsi a ogni stato d'animo cui si fosse abbandonato? Sarebbe divenuto una cosa mostruosa e ignobile da nascondere in una stanza chiusa a chiave, da tener lontana dalla luce del sole che tanto spesso aveva reso più luminosa l'ondulata meraviglia d'oro dei suoi capelli? Che peccato! Che peccato!
Per un momento ebbe l'idea di pregare che l'orribile affinità tra lui e il quadro avesse fine. Era mutato come risposta a una sua preghiera, forse poteva mantenersi intatto come risposta ad un'altra preghiera. E tuttavia chi, conoscendo qualche cosa della vita, avrebbe rinunciato alla possibilità di rimaner giovane, per quanto fantastica potesse essere, o per quanto fatali fossero le conseguenze? D'altra parte, aveva davvero la possibilità di farlo? Era stata proprio la sua preghiera a determinare quella situazione? Non poteva essere in gioco qualche strano fenomeno scientifico? Se il pensiero poteva esercitare un'influenza su un organismo vivente, non avrebbe potuto esercitarla anche sulla materia morta e inorganica? Inoltre, anche se prive di pensieri o desideri consapevoli, le cose che stanno al di fuori di noi, non potrebbero vibrare all'unisono con i nostri sentimenti e le nostre passioni, non potrebbe un atomo legarsi all'altro nel segreto amore di una strana affinità? Ma il motivo non aveva nessuna importanza. Non avrebbe mai più tentato con una preghiera nessuna terribile potenza. Se il quadro doveva alterarsi, che si alterasse. Ecco tutto. Perché indagare troppo minuziosamente ?
Sarebbe stato un vero piacere osservarlo. Avrebbe potuto seguire la sua mente nei suoi segreti nascondigli. Il ritratto sarebbe stato il più magico degli specchi. Come gli aveva rivelato il suo corpo, gli avrebbe rivelato la sua anima. E quando per il quadro fosse giunto l'inverno, lui sarebbe stato ancora là dove la primavera freme sulla soglia dell'estate. Quando il sangue avrebbe abbandonato il suo volto, lasciando dietro di sé una pallida maschera di gesso dagli occhi offuscati, lui avrebbe conservato il fascino della giovinezza. Non un solo bocciolo della sua bellezza sarebbe mai appassito, non un impulso della sua vita sarebbe mai mancato. Come gli dei della Grecia, sarebbe stato forte, agile, pieno di vita. Che cosa importava quello che sarebbe successo all'immagine sulla tela? Lui sarebbe stato al sicuro. Questo solo contava.
Riportò il paravento davanti al quadro e, nel farlo, sorrise. Quindi si trasferì in camera da letto, dove il cameriere lo attendeva. Un'ora dopo era all'Opera e Lord Henry si chinava sulla sua poltrona.
IX
Il mattino dopo, mentre sedeva a colazione, entrò Basil Hallward.
"Sono contento di averti trovato, Dorian," disse con voce grave. "Ti ho cercato ieri sera e mi hanno detto che eri all'Opera. Naturalmente sapevo che era impossibile, ma avrei desiderato che avessi lasciato detto dove eri andato. Ho passato una serata tremenda; avevo quasi paura che a una tragedia ne seguisse un'altra. Avresti potuto telegrafarmi appena hai saputo la notizia. L'ho letta per caso nell'ultima edizione del Globe che ho trovato al club. Sono venuto qui immediatamente, mi sono sentito molto depresso non avendoti trovato. Non so dirti quanto sia addolorato: so quel che devi soffrire. Ma dov'eri? Sei andato a trovare la madre della ragazza? Per un momento ho pensato di raggiungerti là. Sul giornale c'era l'indirizzo: Euston Road, vero? Ma temevo di turbare un dolore che non ero in grado di alleviare. Povera donna! In che stato deve trovarsi! La sua unica figlia, oltretutto! Che cosa diceva?"
"Mio caro Basil, come faccio a saperlo?" mormorò Dorian Gray, sorseggiando con aria estremamente annoiata un vino chiarissimo da un delicato calice di vetro veneziano ornato di perline d'oro. "Ero all'opera. Avresti dovuto venirci anche tu. Ho conosciuto Lady Gwendolin, la sorella di Lord Henry. Eravamo nel suo palco. È una donna davvero affascinante e poi la Patti canta divinamente. Non parlare di queste cose spiacevoli. Se non si parla di una cosa, è come se non fosse mai avvenuta. Come dice Harry, è solo il parlarne che dà realtà alle cose. Devo precisare che non era figlia unica: c'è un maschio, un simpatico ragazzo, credo. Ma non lavora in teatro: fa il marinaio o qualcosa del genere. E ora parlami di te e di quello che stai dipingendo."
"Sei andato all'Opera?" disse Hallward, scandendo le parole e con una espressione di sofferenza trattenuta nella voce. "Sei andato all'Opera mentre Sibyl Vane giaceva priva di vita in una sordida camera d'affitto? Puoi parlarmi del, fascino di altre donne, della Patti che canta divinamente, prima ancora che la ragazza che amavi riposi in una tomba? Insomma, amico, cose orribili attendono quel suo corpicino bianco."
"Basta, Basil! Non voglio sentire queste cose!" esclamò Dorian alzandosi di scatto. "Non me ne parlare. Quel che è stato è stato. Il passato è passato."
"E, per te, ieri è il passato?"
"Che importanza ha l'effettivo trascorrere del tempo? Solo le persone superficiali impiegano anni per liberarsi da un'emozione. Chi sia padrone di sé può porre temine a una sofferenza con la stessa facilità con cui inventa un piacere. Non voglio essere in balia delle mie emozioni. Voglio servirmene, goderle e dominarle."
"È terribile, Dorian! Qualche cosa ti ha completamente trasformato! A vederti sei sempre il meraviglioso ragazzo che, ogni giorno, era solito venire nel mio studio a posare. Ma allora eri semplice, naturale, affettuoso, eri la creatura più innocente del mondo. Ora, non so che cosa ti è successo: parli come se non avessi né cuore né pietà. È l'influenza di Harry, lo vedo."
Il giovane arrossì e, avvicinandosi alla finestra, guardò per qualche istante il giardino verde che tremolava sotto l'intensa luce solare. "Basil, ad Harry io devo molto," disse alla fine, "più di quanto devo a te. Tu mi hai insegnato soltanto ad essere vanitoso."
"Bene, ne sono punito, Dorian... o lo sarò un giorno."
"Non capisco che cosa vuoi dire, Basil," esclamò Dorian voltandosi. "Non capisco che cosa vuoi dire. Che cosa vuoi?"
"Voglio il Dorian che ero solito dipingere," disse tristemente il pittore.
"Basil," disse il giovane, avvicinandosi a lui e posandogli una mano sulla spalla, "sei arrivato troppo tardi. Ieri, quando ho saputo che Sibyl Vane si era uccisa..."
"Si era uccisa! Santo cielo! Non ci sono dubbi?" gridò Hallward, fissandolo con un'espressione d'orrore.
"Mio caro Basil! Non penserai che si tratti di un volgare incidente? Naturalmente si è suicidata."
Basil Hallward si nascose il volto tra le mani. "È terribile," mormorò scosso da un brivido.
"No," disse Dorian Gray, "non c'è nulla di terribile in questo. È una delle grandi tragedie romantiche di questa epoca. Di regola, gli attori conducono una vita estremamente mediocre. Sono bravi mariti o mogli fedeli, o qualche cosa altrettanto noiosa. Sai quello che voglio dire: valori borghesi e tutto il resto. Quanto era diversa Sibyl! Ha vissuto la più bella delle sue tragedie. Era sempre un'eroina. L'ultima sera che recitò, quella in cui l'hai vista, recitò male perché aveva conosciuto la realtà dell'amore. Quando ne conobbe l'irrealtà, morì, come avrebbe dovuto morire Giulietta. Ritornò nella sfera dell'arte. Vi è qualche cosa della martire in lei: la sua morte ha tutta la patetica inutilità del martirio, tutta la sua bellezza sprecata. Ma, come ti stavo dicendo, non devi pensare che non abbia sofferto. Se tu fossi venuto ieri, in un certo momento, verso le cinque e mezzo, o le sei meno un quarto, mi avresti trovato in lacrime. Anche Harry, che era qui e che mi aveva portato la notizia, in realtà, non ha sospettato quel che stavo passando. Ho sofferto immensamente. Poi tutto è finito. Non posso ritornare a vivere un'emozione. Nessuno può, salvo gli individui sentimentali. E tu sei orribilmente ingiusto, Basil. Vieni qui per consolarmi. Questo è molto gentile da parte tua. Però mi trovi consolato e ti arrabbi. Proprio come le persone pietose! Mi ricordi una storia che mi ha raccontato Harry di un certo filantropo che aveva passato vent'anni della sua vita cercando di raddrizzare un torto, o di far modificare qualche legge ingiusta... ho dimenticato di cosa si trattasse precisamente. Alla fine riuscì nel suo intento e ci rimase malissimo: non aveva assolutamente più nulla da fare e quasi morì di ennui trasformandosi poi in un misantropo convinto. E a parte questo, mio caro vecchio Basil, se davvero vuoi consolarmi, insegnami piuttosto a dimenticare quel che è successo o a vederlo sotto la giusta angolatura artistica. Non è stato Gauthier a scrivere qualche cosa sulla consolation des arts? Ricordo di aver preso in mano un giorno nel tuo studio un libretto rilegato in pergamena e di aver trovato per caso questa bellissima frase. Bene, non sono come quel giovane di cui mi hai parlato quando eravamo insieme da Marlow, quello che era solito dire che la seta gialla poteva consolare di tutte le miserie della vita. Amo le belle cose che si possono toccare e tenere in mano: i vecchi broccati, i bronzi patinati, le lacche, gli avorii scolpiti, gli ambienti raffinati, il lusso, la pompa... tutte queste cose possono dare molto. Ma per me è ancor più importante il temperamento artistico che esse creano o che comunque rivelano. Come dice Harry, divenire lo spettatore della propria vita, significa sfuggire i fatti dell'esistenza che ci fanno soffrire. So che ti stupisce sentirmi parlare così. Non ti sei reso conto di quanto mi sono sviluppato. Quando mi hai conosciuto ero ancora uno scolaretto, ora sono un uomo. Ho nuove passioni, nuovi pensieri, nuove idee. Sono diverso, ma non devi volermi meno bene, sono cambiato, ma devi essere, sempre mio amico. Naturalmente sono molto affezionato a Harry, ma so che tu sei migliore di lui. Tu non sei più forte - temi troppo la vita - ma sei migliore. E quanto siamo stati felici insieme! Non abbandonarmi, Basil, e non litigare con me. Sono quello che sono. Non c'è altro da dire."
Il pittore si sentiva stranamente commosso. Quel giovane gli era infinitamente caro e la sua personalità aveva segnato la grande svolta nella sua arte. Non sopportava l'idea di rimproverarlo ancora. Dopotutto, la sua indifferenza era semplicemente uno stato d'animo passeggero. C'erano tante buone cose in lui, tante cose nobili.
"D'accordo, Dorian," disse alla fine con un triste sorriso, "non ti parlerò più di questa orribile faccenda. Spero solo che non si faccia il tuo nome. Oggi pomeriggio ci sarà l'inchiesta. Sei stato chiamato a testimoniare?"
Dorian Gray scosse il capo e nel sentire la parola "inchiesta" un'ombra di noia gli passò in viso. C'era qualche cosa di rozzo e volgare in tutte le cose di questo tipo.
"Non sanno il mio nome," rispose.
"Ma lei lo sapeva di certo."
"Solo il nome di battesimo e sono assolutamente sicuro che non lo ha detto a nessuno. Mi ha detto una volta che erano tutti piuttosto curiosi di sapere chi fossi e che lei diceva loro invariabilmente che mi chiamavo Principe Azzurro. È stato molto gentile da parte sua. Basil, devi farmi uno schizzo di Sibyl, vorrei avere di lei qualche cosa di più del ricordo di pochi baci e di alcune parole rotte e patetiche."
"Cercherò di fare qualche cosa, Dorian, se ti fa piacere. Ma devi ritornare a posare per me. Senza di te non posso continuare."
"Non posso più posare per te, Basil. È impossibile!" esclamò Dorian, arretrando di un passo. Il pittore lo guardò stupito. "Mio caro ragazzo, che assurdità!" esclamò. "Vuoi dire che il ritratto non ti piace? Dov'è? Perché lo hai coperto con un paravento? Lasciamelo vedere. È la miglior cosa che io abbia mai fatto. Togli quel paravento, Dorian: è semplicemente vergognoso che il tuo cameriere nasconda così la mia opera. Mi è sembrato che la stanza fosse diversa quando sono entrato."
"Il mio cameriere non c'entra, Basil. Non penserai che gli lasci disporre la stanza al mio posto? Qualche volta sistema i fiori e basta. No, sono stato io. Lo colpiva una luce troppo forte."
"Troppo forte? Ma nient'affatto, mio caro. È in una posizione magnifica. Fammelo vedere." E Hallward si diresse verso l'angolo della stanza.
Un grido di terrore uscì dalle labbra di Dorian Gray, e il giovane si precipitò tra il pittore e il paravento. "Basil," disse, pallidissimo in volto, "non devi vederlo. Non voglio che tu lo veda."
"Non guardare il mio quadro! Non parli sul serio. Perché non dovrei guardarlo?" esclamò Hallward ridendo.
"Se cerchi di vederlo, Basil, parola mia, non ti rivolgerò più la parola per tutta la vita. Parlo seriamente. Non ti do spiegazioni, e non me ne devi chiedere. Ma ricorda, se tocchi questo paravento, fra noi tutto è finito."
Hallward era come fulminato. Guardò Dorian Gray assolutamente sbigottito. Non l'aveva mai visto così: il giovane era pallido di collera, teneva stretti i pugni e le pupille erano simili a dischi di fiamma azzurra. Tremava tutto.
"Dorian!"
"Non parlare!"
"Ma che cosa è successo? Naturalmente non lo guarderò, se non vuoi," disse piuttosto freddamente il pittore, voltandosi e ritornando verso la finestra. "Però, davvero, mi pare piuttosto assurdo che io non possa vedere la mia opera, tanto più che intendo esporla a Parigi quest'autunno. Probabilmente prima dovrò darle un'altra mano di vernice e quindi un giorno o l'altro dovrò vederla. Perché non oggi?"
"Esporla? Vuoi esporla?" esclamò Dorian Gray, colto da uno strano senso di terrore. Tutti avrebbero saputo il suo segreto? Il pubblico avrebbe guardato a bocca aperta il mistero della sua vita? Impossibile. Bisognava fare qualche cosa - non sapeva che cosa - immediatamente.
"Sì, penso che non avrai nulla in contrario. George Petit sta raccogliendo i miei quadri migliori per una mostra speciale in rue de Sèze che si aprirà la prima settimana di ottobre. Il ritratto starà via soltanto un mese. Penso che per un periodo così breve te ne potrai separare facilmente. In realtà, sarai certamente fuori città e, se lo tieni sempre dietro un paravento, non deve importartene molto."
Dorian Gray si passò una mano sulla fronte. Era bagnata di sudore. Sentiva di essere sull'orlo di un tremendo pericolo. "Un mese fa mi hai detto che non l'avresti mai esposto," esclamò. "Come mai hai cambiato idea? Voi che fate di tutto per essere coerenti, cambiate idea proprio come gli altri. L'unica differenza è che i vostri cambiamenti di umore sono privi di significato. Non puoi aver dimenticato che mi hai assicurato con la massima solennità che nulla al mondo ti avrebbe indotto ad esporto. Hai detto la stessa cosa ad Harry." Si fermò improvvisamente; un lampo gli apparve negli occhi. Ricordò che una volta Lord Henry gli aveva detto un po' per scherzo e un po' sul serio: "Se vuoi passare uno strano quarto d'ora, fatti dire da Basil perché non vuole esporre il tuo quadro. A me lo ha detto ed è stata una rivelazione." Sì, forse anche Basil aveva il suo segreto. Avrebbe provato a chiederglielo.
"Basil," disse facendoglisi molto vicino e guardandolo diritto negli occhi, "ognuno di noi ha il suo segreto. Dimmi il tuo e ti dirò il mio. Perché non volevi esporre il mio ritratto?"
Il pittore rabbrividì involontariamente. "Dorian, se te lo dicessi, forse ti piacerei meno e rideresti certamente di me. Non potrei sopportare nessuna di queste due cose. Se vuoi che non veda più il tuo ritratto ne sono contento. Posso sempre guardare te. Se vuoi che la mia opera migliore rimanga sconosciuta, sono soddisfatto. La tua amicizia mi è più cara della fama e di qualunque riconoscimento."
"No, Basil, devi dirmelo," insistette Dorian Gray. "Credo di avere il diritto di saperlo." Il terrore era svanito, sostituito dalla curiosità. Era deciso a scoprire il segreto di Basil Hallward.
"Sediamoci, Dorian," disse il pittore turbato. "Sediamoci. E rispondi a questa domanda, almeno. Hai notato qualche cosa di strano nel quadro?... qualche cosa che in un primo momento probabilmente non ti aveva colpito, ma che ti si è rivelato improvvisamente?"
"Basil!" gridò il giovane stringendo con mani tremanti i braccioli della poltrona e fissandolo con occhi sbarrati.
"Vedo che lo hai notato. Non dire nulla. Aspetta di aver sentito quel che ho da dire. Dorian, dal momento in cui ti ho conosciuto, la tua personalità ha avuto su di me un'influenza straordinaria. Sono stato dominato da te, nell'anima, nella mente, in ogni mia forza. Per me tu eri divenuto l'incarnazione palese di quell'ideale invisibile il cui ricordo ossessiona noi artisti come un sogno squisito. Ti adorai, divenni geloso di chiunque ti parlasse. Volevo averti tutto per me. Ero felice solo quando ero insieme a te. Quando tu mi eri lontano, eri sempre presente nella mia arte. Naturalmente non ti ho mai fatto sapere nulla di tutto questo, sarebbe stato impossibile. Non avresti capito. Io stesso mi capivo appena. Sapevo solo che avevo visto la perfezione faccia a faccia, e che ai miei occhi il mondo era diventato meraviglioso, forse, perché in queste folli adorazioni c'è sempre un pericolo - quello di perderle - non minore di quello di conservarle... Passarono settimane e settimane ed ero sempre più assorbito da te. Poi si sviluppò una nuova fase. Ti avevo ritratto nella lucente armatura di Paride con il mantello da cacciatore e il lucido spiedo di Adone. Incoronato con i ricchi fiori di loto eri seduto sulla prora del vascello di Adriano e osservavi il torbido verde Nilo. Ti eri chinato sopra la calma polla di qualche bosco della Grecia e avevi contemplato nel silenzioso argento dell'acqua la meraviglia del tuo volto. E ogni cosa era come deve essere l'arte: inconscia, ideale, remota. Un giorno - un giorno fatale, penso, a volte - decisi di dipingere un meraviglioso ritratto di te come sei nella realtà: non nei costumi di età passate, ma nei tuoi abiti e nel tuo tempo. Non so dire se fosse la tecnica realistica, oppure solo lo splendore della tua personalità che si presentava direttamente dinanzi a me senza nebbie né veli, ma so che, mentre lavoravo, ogni pennellata, ogni strato di colore mi pareva rivelassero questo mio segreto. Ebbi paura che gli altri potessero vedere la mia idolatria. Sentivo, Dorian, di aver detto troppo, di aver messo nel quadro troppo di me stesso. Fu allora che decisi che non avrei mai esposto il quadro. Tu eri un po' seccato, ma allora non ti rendevi conto del significato che aveva per me. Ne parlai con Harry e lui rise. Ma non me ne importava. Quando il quadro fu terminato e io mi ci sedetti davanti da solo, capii che avevo ragione... Bene, dopo pochi giorni il quadro lasciò il mio studio e, appena mi liberai del fascino insopportabile della sua presenza, mi parve di essere stato sciocco nel vedervi qualche cosa di diverso dal fatto che tu sei bello e che io so dipingere bene. Anche ora non posso fare a meno di ritenere un errore il fatto che l'emozione provata creando si riveli davvero nell'opera creata. L'arte è sempre più astratta di quanto immaginiamo. La forma e il colore ci parlano di forma e colore e basta. Spesso mi pare che l'arte nasconda l'artista molto più di quanto non lo riveli. E così quando ho ricevuto questa offerta da Parigi decisi che il tuo quadro sarebbe stato il pezzo principale della mostra. Non mi venne mai in mente che avresti rifiutato. Ma ora vedo che hai ragione: non lo si può esporre. Non devi arrabbiarti con me, Dorian, per le cose che ti ho detto. Come ho detto una volta a Harry, tu sei fatto per essere adorato."
Dorian Gray respirò profondamente. Le guance ripresero colore e un sorriso gli giocò sulle labbra. Il pericolo era passato. Per il momento era salvo. E tuttavia non poteva fare a meno di provare una infinita pietà per il pittore che gli aveva fatto questa singolare confessione, domandandosi se, a sua volta, sarebbe mai stato dominato dalla personalità di un amico. Lord Henry aveva il fascino del pericolo, ma niente altro. Era troppo intelligente e troppo cinico per potersene innamorare. Ci sarebbe mai stato qualcuno capace di fargli provare questa strana idolatria? Era una delle cose che la vita aveva in serbo per lui?
"Mi sembra straordinario, Dorian," disse Hallward, "che tu abbia visto questo nel ritratto. L'hai davvero visto?"
"Vi ho visto qualche cosa," rispose, "una cosa che mi sembrava molto curiosa."
"Bene, non ti importa se ora gli do un'occhiata?"
Dorian scosse il capo. "Non me lo devi chiedere, Basil. Non posso lasciarti di fronte a quel quadro."
"Ma un giorno, certamente..."
"Mai."
"Bene, forse hai ragione. E adesso arrivederci, Dorian. Sei stato l'unica persona che abbia effettivamente influito sulla mia arte. Tutto quello che ho fatto di buono, lo devo a te. Ah! Non sai quanto mi è costato dirti quello che ti ho detto."
"Mio caro Basil," disse Dorian. "Che cosa mi hai detto? Semplicemente che sentivi di ammirarmi troppo. Non è nemmeno un complimento."
"Non voleva esserlo: era una confessione. E adesso che l'ho fatta, mi pare che qualche cosa sia uscito da me. Forse non si dovrebbe mai mettere in parole la propria adorazione."
"È stata una confessione molto deludente."
"E che cosa ti aspettavi, Dorian? Hai visto qualche altra cosa nel quadro? C'erano altre cose da vedere?"
"No, nient'altro. Perché me lo domandi? Ma non devi parlare di adorazione. È sciocco. Tu ed io siamo amici, Basil, e dobbiamo rimanerlo sempre."
"Hai trovato Harry," disse il pittore tristemente.
"Oh, Harry," esclamò il giovane con l'accenno di un sorriso. "Harry passa le giornate a dire cose incredibili e le serate a fare cose improbabili. Proprio il genere di vita che mi piacerebbe fare. Ma non credo che andrei da Harry se mi trovassi nei guai. Preferirei venire da te, Basil."
"Poserai ancora per me?"
"Impossibile!"
"Con questo rifiuto, rovini la mia vita di artista, Dorian. Nessuno incontra due ideali. Pochi ne incontrano uno."
"Non posso spiegarti, Basil, ma non devo posare per te. C'è qualche cosa di fatale in un ritratto.
Ha una vita propria. Verrò a casa tua a prendere il tè. Sarà altrettanto piacevole."
"Lo sarà di più per te, temo," mormorò Hallward in tono di rimpianto. "E adesso, arrivederci. Mi dispiace che tu non mi permetta di vedere una volta ancora il ritratto, ma non ci si può fare nulla. Capisco benissimo i tuoi sentimenti."
Mentre Basil lasciava la stanza, Dorian Gray sorrise tra sé. Povero Basil! Quanto poco sapeva del vero motivo! E com'era strano che, invece di essere costretto a rivelare il proprio segreto, fosse riuscito, quasi per caso, a cogliere il segreto dell'amico! Quante cose spiegavano quella strana confessione! Gli assurdi accessi di gelosia del pittore, la sua devozione sfrenata, gli stravaganti panegirici, le sue curiose reticenze... adesso capiva tutto e gliene dispiaceva. Gli pareva che ci fosse un elemento tragico in un'amicizia così tinta di sentimentalismo.
Sospirò e suonò il campanello. Bisognava nascondere il ritratto a qualunque costo. Non poteva correre nuovamente il rischio che venisse scoperto. Era stata una pazzia lasciare che rimanesse anche un'ora sola in una stanza in cui tutti i suoi amici potevano entrare.
X
Quando il cameriere entrò, lo osservò attentamente domandandosi se avesse mai pensato di dare un'occhiata dietro il paravento. L'uomo attendeva i suoi ordini assolutamente impassibile. Dorian accese una sigaretta, si avvicinò allo specchio e guardò. Vedeva alla perfezione il riflesso del viso di Victor: era una placida maschera di servilismo. Nulla da temere da quella parte. Comunque era meglio stare in guardia.
Parlando molto lentamente gli disse di riferire alla governante che voleva vederla e di andare poi dal corniciaio per chiedergli di mandare subito due uomini. Gli sembrò che il cameriere allontanandosi muovesse lo sguardo in direzione del paravento. Ma forse era solo la sua immaginazione.
Poco dopo entrò affannosamente nella biblioteca la signora Leaf, con il suo vestito di seta nero e i vecchi mezzi guanti di filo sulle mani rugose. Le chiese di dargli la chiave dello studio.
"Il vecchio studio, signor Dorian?" esclamò. "Ma è pieno di polvere. Devo farlo pulire e mettere a posto prima che lei entri. Non è assolutamente presentabile, signore. Proprio no."
"Non voglio che venga pulito, signora Leaf. Voglio solo la chiave."
"Bene, signore, si coprirà tutto di ragnatele quando entrerà. È chiuso da quasi cinque anni, da quando è morto sua signoria."
Dorian Gray trasalì sentendo accennare al nonno: ne aveva un ricordo odioso. "Non importa," rispose. "Voglio semplicemente dare un'occhiata al locale, nient'altro. Mi dia la chiave."
"Eccola, signore," disse la vecchia donna cercando nel mazzo con mani incerte e tremanti. "Ecco la chiave. La tolgo subito dal mazzo, ma non penserà di vivere lassù, signore? Sta così bene qui."
"No, no," esclamò lui irritato. "Grazie signora Leaf. Basta così."
La donna indugiò ancora un poco diffondendosi su alcuni particolari dell'andamento di casa. Dorian sospirò e le disse di fare come meglio credeva. La donna lasciò la stanza tutta sorrisi.
Appena la porta si chiuse, Dorian infilò la chiave in tasca e si guardò in giro. Lo sguardo gli cadde su un grande copriletto di seta color porpora, dai ricchi ricami in oro, uno splendido lavoro del tardo settecento veneziano che il nonno aveva trovato in un convento vicino a Bologna. Sì, l'avrebbe usato per coprire quell'orribile cosa. Forse era stato impiegato spesso come drappo funebre, adesso avrebbe nascosto qualche cosa che aveva una sua corruzione peggiore della corruzione della morte stessa: qualche cosa che avrebbe nutrito orrori e tuttavia non sarebbe mai morta. Quello che i vermi sono per i cadaveri, lo sarebbero stati i suoi peccati per l'immagine dipinta sulla tela. Avrebbero sfigurato la sua bellezza, rosicchiato la sua grazia. L'avrebbero contaminata e resa disgustosa. E tuttavia la cosa avrebbe continuato a vivere. Sarebbe sempre stata viva.
Rabbrividì e per un attimo rimpianse di non aver rivelato a Basil il vero motivo per cui desiderava nascondere il ritratto. Basil lo avrebbe aiutato a resistere all'influenza di Lord Henry, e a quella ancor più dannosa che gli veniva dal suo stesso carattere. L'amore che gli portava - poiché proprio di amore si trattava - non aveva in sé nulla di men che nobile e intellettuale. Non era quella semplice ammirazione fisica per la bellezza che nasce dai sensi e muore quando i sensi sono esauriti. Era quell'amore che avevano conosciuto Michelangelo, Montaigne, Winckelmann e lo stesso Shakespeare. Sì, Basil avrebbe potuto salvarlo, ma ormai era troppo tardi. Era sempre possibile annientare il passato, bastavano il rimpianto, il rifiuto, l'oblìo, ma il futuro era inevitabile. C'erano in lui passioni che avrebbero trovato il loro terribile sfogo, sogni che avrebbero dato realtà all'ombra del loro peccato.
Tolse dal divano il grande tessuto oro e porpora che lo copriva e, reggendolo in mano, passò dietro il paravento. Il volto sulla tela era diventato ancora più ignobile? Gli pareva che non fosse cambiato e tuttavia provava un disgusto ancora più intenso. I capelli d'oro, gli occhi azzurri, le labbra vermiglie: c'erano ancora. Soltanto l'espressione era alterata, orribile nella sua crudeltà. Come erano stati superficiali i rimproveri di Basil per Sibyl Vane, di fronte alla censura e al biasimo che vedeva nel quadro! Quanto leggeri e irrilevanti! Dalla tela, la sua stessa anima lo fissava e lo chiamava a giudizio. Un'espressione di sofferenza gli passò in viso; gettò il manto sontuoso sul ritratto. Proprio in quell'attimo bussarono alla porta. Si allontanò dal quadro mentre il cameriere entrava.
"Sono arrivati gli uomini, signore."
Sentì che doveva sbarazzarsi subito di quell'uomo. Non doveva sapere dove sarebbe stato portato il ritratto. C'era qualche cosa di subdolo in lui e lo sguardo era attento e infido. Sedette alla scrivania e scarabocchiò un biglietto per Lord Henry, chiedendo di mandargli qualche cosa da leggere e ricordandogli che avevano appuntamento quella sera alle otto e un quarto.
"Aspetti la risposta," disse porgendogli il biglietto, "e faccia entrare gli uomini."
Due o tre minuti dopo bussarono nuovamente e il signor Hubbard in persona, il celebre camiciaio di South Adler Street, entrò accompagnato da un giovane aiutante dall'aspetto un po' rozzo. Il signor Hubbard era un ometto florido, dalle basette rossicce, la cui ammirazione per l'arte era considerevolmente raffreddata dall'inveterata insolvibilità di quasi tutti gli artisti con cui aveva a che fare. Di regola, non si allontanava mai dal negozio. Aspettava che la gente andasse da lui ma per Dorian Gray faceva sempre un'eccezione. C'era in Dorian qualche cosa che affascinava chiunque. Era un piacere il solo fatto di vederlo.
"Che cosa posso fare per lei, signor Gray?" domandò strofinandosi le mani grassocce e coperte di lentiggini. "Ho voluto aver l'onore di venire personalmente. Mi è appena capitata tra le mani una cornice che è una bellezza, signore. L'ho trovata a un'asta. Stile fiorentino antico. Viene da Fonthill, penso. È l'ideale per un soggetto religioso, signor Gray."
"Mi dispiace che lei si sia disturbato a venire, signor Hubbard. Farò certamente un salto per dare un'occhiata alla cornice, anche se in questo momento l'arte religiosa non mi interessa molto, ma oggi volevo far portare un quadro all'ultimo piano. È piuttosto pesante e così ho pensato di chiederle un paio dei suoi uomini."
"Assolutamente nessun disturbo, signor Gray. Sono contentissimo di poterle fare un piacere. Qual è l'opera, signore?"
"Questa," disse Dorian, allontanando il paravento. "Potete trasportarlo così com'è, con la copertura e tutto. Non vorrei che si graffiasse salendo."
"Nessuna difficoltà, signore," disse il gioviale corniciaio, cominciando con l'aiuto dell'assistente a staccare il quadro dalle lunghe catene di ottone che lo reggevano. "E adesso dove lo dobbiamo portare, signore?"
"Le farò strada, signor Hubbard, se sarà così gentile da seguirmi. O forse è meglio che vada avanti lei. Mi dispiace che sia proprio all'ultimo piano. Saliremo per la scala principale che è più larga."
Tenne aperta la porta per farli passare in anticamera, poi cominciarono a salire. La ricchezza della cornice appesantiva moltissimo il quadro e ogni tanto, nonostante le ossequiose proteste del signor Hubbard che, con la mentalità del vero mercante, non sopportava assolutamente di vedere un gentiluomo fare qualche cosa di utile, Dorian dava una mano per aiutarli.
"Un bel carico da portare, signore," ansimò l'ometto, asciugandosi la fronte lucida di sudore, quando raggiunsero l'ultimo pianerottolo.
"Temo proprio che sia piuttosto pesante," mormorò Dorian aprendo la stanza che avrebbe custodito il singolare segreto della sua vita e che avrebbe nascosto la sua anima agli occhi degli uomini.
Non vi entrava da più di quattro anni, dal tempo in cui, bambino, la usava come stanza da giuochi e poi, più grandicello, da studio. Era un locale vasto, di belle proporzioni. Il defunto Lord Kelso lo aveva costruito appositamente per il nipote che, per la strana rassomiglianza con la madre e per altri motivi, aveva sempre odiato e cercato di tenere lontano, A Dorian sembrò poco cambiata. C'era l'enorme cassone italiano con i pannelli fantasticamente dipinti e le modanature d'oro annerito nel quale si era nascosto tante volte, da piccolo. C'era lo scaffale di legno lucido con i libri di scuola gualciti. Sulla parete, dietro, era appeso il lacero arazzo fiammingo dove un re e una regina sbiaditi giocavano a scacchi in un giardino mentre lì vicino una brigata di falconieri cavalcava reggendo sul polso guantato alcuni uccelli incappucciati. Come ricordava ogni particolare! Mentre si guardava in giro, gli ritornava in mente ogni momento della sua infanzia solitaria. Ricordò la purezza senza macchia della sua fanciullezza e gli parve orribile che proprio qui dovesse essere nascosto quel fatale ritratto. Quanto poco aveva pensato, in quei giorni ormai passati, a tutto ciò che lo attendeva!
Ma nella casa nessun posto era altrettanto sicuro da sguardi indiscreti. La chiave era nelle sue mani e nessun altro poteva entrare. Sotto il manto purpureo il volto dipinto sulla tela poteva diventare bestiale, disfatto, sozzo: che importanza aveva? Nessuno l'avrebbe potuto vedere. Neppure lui. Perché vedere la disgustosa corruzione della sua anima? Avrebbe conservato la giovinezza: questo bastava. E dopotutto non avrebbe potuto diventare migliore? Non c'era nessun motivo per cui il futuro dovesse essere così vergognoso. Avrebbe potuto incontrare un amore che lo avrebbe purificato e protetto da quei peccati che già sembrava gli si agitassero nello spirito e nella carne: quegli strani peccati privi di forma che proprio dal loro mistero traevano il loro fascino e la loro elusività. Forse, un giorno, l'espressione crudele sarebbe scomparsa da quelle labbra sensuali e scarlatte e lui avrebbe potuto mostrare al mondo il capolavoro di Basil Hallward.
No, era impossibile. Un'ora dopo l'altra, una settimana dopo l'altra, la cosa sulla tela sarebbe invecchiata. Poteva sfuggire l'orrore del peccato, ma l'avrebbe attesa l'orrore della vecchiaia. Le guance sarebbero divenute incavate o cascanti, gialle zampe di gallina si sarebbero allargate intorno agli occhi scoloriti rendendoli disgustosi. I capelli avrebbero perso la lucentezza, la bocca sarebbe divenuta larga e cadente, sciocca e volgare, come sono le bocche dei vecchi. Avrebbe avuto il collo grinzoso, le mani fredde con l'azzurro delle vene in rilievo, come le ricordava in quel nonno così severo durante la sua infanzia. Non c'era scampo, bisognava nascondere il quadro.
"Lo porti dentro, per favore, signor Hubbard," disse stancamente voltandosi. "Mi dispiace - di averla fatta aspettare tanto tempo. Stavo pensando ad altro."
"Un po' di riposo fa sempre piacere, signor Gray," rispose il corniciaio che ansimava ancora. "Dove dobbiamo metterlo, signore?"
"Oh, in un posto qualsiasi. Qui andrà bene. Non lo voglio appeso. Basta che lo appoggi al muro. Grazie."
"È possibile dare un'occhiata all'opera, signore?"
Dorian sobbalzò. "Non le interesserebbe, signor Hubbard," disse, tenendogli gli occhi addosso. Si sentiva pronto ad assalirlo e a gettarlo a terra se avesse osato sollevare il prezioso drappo che nascondeva il segreto della sua vita. "Non la disturberò oltre. Le sono molto grato, è stato molto gentile a venire."
"Non è nulla, non è nulla, signor Gray. Sempre ai suoi ordini, signore." E il signor Hubbard scese pesantemente giù per le scale, seguito dall'aiutante che si voltò a guardare Dorian con un'espressione di timida meraviglia sul volto rozzo e brutto. Non aveva mai visto un uomo così meraviglioso.
Quando il rumore dei loro passi si spense, Dorian chiuse la porta e infilò la chiave in tasca. Adesso si sentiva sicuro, nessuno avrebbe visto quell'orribile cosa. Nessuno sguardo, eccetto il suo, avrebbe visto la sua vergogna.
Rientrando in biblioteca si accorse che erano appena passate le cinque e il tè era già stato preparato. Su un tavolino di legno scuro profumato, dai ricchi intarsi di madreperla - un regalo di Lady Radley moglie del suo tutore, una graziosa malata di professione che aveva trascorso al Cairo l'inverno precedente - era posato un biglietto di Lord Henry e, accanto, un libro rilegato in carta gialla con la copertina leggermente consumata e macchiata sul bordo. Sul vassoio del tè era posata una copia della terza edizione della St. James's Gazette. Evidentemente Victor era tornato. Si chiese se avesse incontrato gli uomini nel vestibolo mentre se ne andavano e fosse riuscito a carpire loro quello che avevano fatto. Si sarebbe accorto certamente della mancanza del quadro, anzi doveva già essersene accorto mentre preparava il tè. Il paravento non era stato rimesso a posto e sul muro si notava uno spazio vuoto. Forse lo avrebbe scoperto una notte nell'atto di scivolare di sopra per forzare la porta della stanza. Era una cosa terribile avere una spia nella propria casa. Aveva sentito di persone ricche ricattate per tutta la vita da un servo che aveva letto una lettera, oppure ascoltato di nascosto una conversazione, raccolto l'indirizzo scritto su un biglietto da visita, trovato un fiore appassito o un brandello di pizzo gualcito sotto un cuscino.
Sospirò e, dopo essersi versato il tè, aprì il biglietto di Lord Henry. Gli diceva semplicemente che gli mandava il giornale della sera e un libro che avrebbe potuto interessarlo. Si sarebbe trovato al club alle otto meno un quarto. Aprì pigramente il giornale e lo scorse. Lo sguardo fu attratto da un segno a matita rossa in quinta pagina.
Indicava questo trafiletto:
INCHIESTA SULLA MORTE DI UN'ATTRICE. Questa mattina a Bell Tavern, in Oxton Road, il signor Danby, procuratore distrettuale, ha svolto un'inchiesta sulla morte di Sibyl Vane, una giovane attrice da poco assunta al Royal Theatre, Holborn. L'inchiesta si è conclusa con un verdetto di morte accidentale. Molta simpatia è stata dimostrata alla madre della defunta signorina, profondamente commossa durante la propria deposizione e durante quella del dottor Birrel che ha praticato la necroscopia della salma.
Si accigliò e, stracciato in due il giornale, attraversò la stanza e lo gettò via. Com'era sgradevole tutto ciò. E come questa sgradevolezza rendeva terribilmente vere le cose. Era leggermente irritato con Lord Henry che gli aveva fatto avere la notizia. Ed era stato davvero sciocco da parte sua segnarla a matita rossa. Victor avrebbe potuto leggerla. Sapeva anche troppo bene l'inglese per poterlo fare.
Forse l'aveva letta e aveva cominciato a sospettare qualche cosa. Ma che cosa importava? Che cosa aveva a che fare Dorian Gray con la morte di Sibyl Vane? Nulla da temere. Dorian Gray non l'aveva uccisa.
Lo sguardo gli cadde sul libro dalla copertina gialla che Lord Henry gli aveva fatto avere. Si domandò di che cosa si trattasse. Andò verso il piccolo scaffale ottagonale color perla, che gli era sempre sembrato il lavoro di una strana specie di api egiziane dedite a lavori in argento e, preso il volume, sprofondò in una poltrona e cominciò a sfogliarlo. Dopo pochi minuti era preso dalla lettura. Era il libro più strano che avesse mai letto.
Gli pareva che tutti i peccati del mondo, in abiti squisiti e al dolce suono del flauto, gli passassero davanti in muta processione. Cose che aveva appena debolmente sognato divennero reali. Cose che non aveva mai sognato gli si rivelarono a poco a poco.
Era un romanzo senza intreccio e con un solo personaggio, la pura analisi psicologica di un giovane parigino che aveva trascorso la vita cercando di realizzare nel diciannovesimo secolo tutte le passioni e le idee di ogni altro secolo fuorché del suo, e di riassumere in sé, per così dire, i vari stati d'animo che lo spirito del mondo aveva attraversato, amando per la loro artificiosità sia quelle rinunce prive di saggezza che gli uomini hanno scioccamente chiamato virtù, sia quelle naturali ribellioni cui i saggi tuttora danno il nome di peccato. Lo stile in cui era scritto era quel curioso stile prezioso, a un tempo vivido e oscuro, pieno di argot e di arcaismi, di espressioni tecniche e di elaborati giri di parole, proprio delle opere di alcuni dei migliori esponenti della scuola francese dei symbolites. Vi erano metafore mostruose come orchidee e dal colore altrettanto elusivo. La vita dei sensi veniva descritta nel linguaggio della filosofia mistica. A volte era difficile capire se si leggevano le estasi spirituali di un santo medioevale o le morbose confessioni di un moderno peccatore. Era un libro velenoso. Il greve odore dell'incenso pareva esalare dalle sue pagine e turbare la mente. Il ritmo puro delle frasi, la monotonia sottile della loro musica, così ricca di complicati ritornelli e di movimenti minuziosamente ripetuti, producevano nella mente del giovane, intento a leggerne un capitolo dopo l'altro, una specie di fantasticheria, una sognante malattia, che gli impedì di accorgersi che il giorno era alla fine e che cominciavano a salire le ombre.
Senza nubi, trafitto da un'unica stella solitaria, un cielo verderame luceva oltre le finestre. Continuò a leggere a questa debole luce finché non vide più. Poi, quando il cameriere gli ebbe ricordato più volte che era tardi, si alzò, andò nella stanza vicina, posò il libro sul piccolo tavolo fiorentino che aveva sempre accanto al letto e cominciò a vestirsi per il pranzo.
Erano quasi le nove quando raggiunse il club, dove trovò Lord Henry seduto solo nel salone di soggiorno con un'aria molto annoiata.
"Mi dispiace moltissimo, Harry," esclamò, "ma in realtà è tutta colpa tua. Quel libro che mi hai mandato mi ha talmente affascinato che ho lasciato passare il tempo senza accorgermi."
"Sì, immaginavo che ti sarebbe piaciuto," rispose l'ospite alzandosi.
"Non ho detto che mi è piaciuto, Harry. Ho detto che mi ha affascinato. C'è una grande differenza."
"Ah, te ne sei accorto?" mormorò Lord Henry. E passarono nella sala da pranzo.
XI
Per anni Dorian Gray non riuscì a liberarsi dall'influenza di questo libro. O forse sarebbe più esatto dire che non cercò mai di liberarsene. Fece arrivare da Parigi non meno di nove copie di lusso della prima edizione e le fece rilegare in diversi colori perché si intonassero ai suoi vari stati d'animo e alle mutevoli fantasie di una natura sulla quale a volte pareva aver perso ogni controllo. Il protagonista, il meraviglioso giovane parigino nel quale il temperamento romantico e quello scientifico si erano così stranamente fusi, divenne per lui una sorta di suo precursore. E, in realtà, tutto il libro gli pareva contenere la storia della sua vita, scritta prima che lui l'avesse vissuta.
In un punto fu più fortunato del fantastico protagonista del romanzo. Non conobbe mai, in realtà non ebbe nessun motivo per conoscerlo, quel terrore un po' grottesco per gli specchi, per le superfici lucide di metallo, per l'acqua calma, che aveva colto il giovane parigino fin dalla giovinezza, provocato dall'improvviso decadimento di una bellezza un tempo davvero notevole. Con una gioia quasi crudele, forse in ogni gioia, e certo in ogni piacere, la crudeltà ha la sua parte, era solito leggere l'ultima parte del libro, con il tragico anche se un po' ridondante resoconto del dolore e della disperazione dell'uomo che aveva perso ciò che più apprezzava negli altri e nella vita.
Infatti la meravigliosa bellezza che aveva così affascinato Basil Hallward, e molti altri con lui, sembrava non abbandonarlo mai. Anche quelli che avevano sentito dire le peggiori cose sul suo conto, e di tanto in tanto strane voci sul suo modo di vivere si diffondevano per Londra e diventavano argomento di chiacchiere nei club, quando lo vedevano non potevano credere a nulla di disonorevole su di lui. Aveva sempre l'aspetto di una persona che non si è lasciata macchiare dal mondo. Uomini che facevano discorsi osceni tacevano immediatamente quando appariva Dorian Gray. Nella purezza del suo viso c'era qualcosa che pareva rimproverarli. Bastava la sua presenza per risvegliare in loro il ricordo dell'innocenza che avevano macchiato. Si domandavano come un essere così affascinante e pieno di grazia avesse potuto sfuggire alla vergogna di un'epoca tanto sordida quanto sensuale.
Spesso, di ritorno da una di quelle sue assenze misteriose e prolungate che facevano nascere così strane congetture tra quelli che erano i suoi amici, o che credevano di esserlo, saliva di soppiatto fino alla stanza chiusa, apriva la porta con la chiave che non lasciava mai e, con lo specchio, si poneva davanti al ritratto di Basil Hallward. Guardava ora il volto malvagio e invecchiato sulla tela, ora quello giovane e gentile che gli sorrideva dalla liscia superficie di vetro e la violenza del contrasto acuiva il suo piacere. Era sempre più innamorato della sua bellezza e sempre più interessato alla corruzione della sua anima. Esaminava con cura minuziosa, e a volte con una mostruosa terribile soddisfazione, le rughe ripugnanti che marcavano la fronte avvizzita, o avanzavano lentamente intorno alla bocca pesante e sensuale, chiedendosi a volte se fossero più orribili i segni del peccato o quelli dell'età. Poneva le sue mani bianche accanto a quelle ruvide e tumefatte del quadro e sorrideva. Rideva di scherno verso quel corpo sformato e quelle membra indebolite.
Di notte, in verità, quando giaceva insonne nella sua camera delicatamente profumata, o nella sordida stanza di una piccola taverna malfamata vicino ai Docks che era solito frequentare travestito e sotto falso nome, c'erano momenti in cui pensava alla rovina in cui aveva precipitato la sua anima con una pietà tanto più cocente in quanto puramente egoistica. Ma simili momenti erano rari. Quella curiosità per la vita che per primo Lord Henry aveva risvegliato in lui mentre erano seduti insieme nel giardino del loro amico sembrava aumentare quanto più veniva soddisfatta. Quanto più sapeva tanto più desiderava sapere. Aveva folli appetiti che quanto più venivano soddisfatti tanto più si facevano ingordi.
Ma tutto ciò non lo spingeva affatto ad essere trascurato, perlomeno nei rapporti sociali. Un paio di volte al mese durante l'inverno, o tutti i mercoledì durante la season, apriva la sua bella casa e i più celebri musicisti del mondo affascinavano i suoi ospiti con i prodigi della loro arte. Le sue cenette intime, che organizzava sempre assistito da Lord Henry, erano celebri sia per l'accurata scelta degli ospiti e per l'intelligente disposizione dei posti a tavola, che per il gusto squisito mostrato nella decorazione della tavola, con sottili armonie di fiori esotici, di tessuti ricamati, di antico vasellame d'argento e d'oro. Erano molti, in realtà, specialmente tra i giovanissimi quelli che vedevano, o immaginavano di vedere, in Dorian Gray la personificazione di un tipo umano spesso sognato ai tempi di Oxford o di Eton, un tipo che univa in sé qualche cosa della vera cultura dello studioso con tutta la grazia, la distinzione e la perfezione di modi del cittadino del mondo. Dorian Gray appariva loro, uno di quelli che Dante dice che hanno cercato di "rendersi perfetti adorando la bellezza". Come Gauthier, era uno di coloro per i quali "il mondo visibile esiste".
E certo per lui la vita stessa era la prima e la maggiore delle arti, quella per cui tutte le altre non erano che un'introduzione. La moda, che per un attimo rende universali le cose più fantastiche, e il dandismo che a suo modo è un tentativo di asserire l'assoluta modernità della bellezza, naturalmente avevano per lui il loro fascino. Il suo modo di vestire, lo stile personalissimo che di tanto in tanto ostentava, avevano una marcata influenza sui giovani raffinati dei balli di Mayfair e delle vetrine dei club di Pall Mall, che lo copiavano in ogni suo gesto e che cercavano di ripetere il fascino casuale delle sue eleganti, anche se per lui non troppo serie, affettazioni
Infatti, pur accettando con molta prontezza la posizione che gli era stata immediatamente offerta non appena raggiunta la maggiore età, e pur provando, in verità, un sottile piacere all'idea di poter essere per la Londra dei suoi tempi ciò che per la Roma di Nerone era stato l'autore del Satyricon, tuttavia nell'intimo desiderava essere qualche cosa di più che un semplice arbiter elegantiarum a cui chiedere consigli sul modo di portare un gioiello, di annodare una cravatta, di tenere un bastone. Cercava, invece, di elaborare un nuovo stile di vita, con la sua filosofia ragionata e i suoi principi ordinati, uno stile che nella spiritualizzazione dei sensi trovasse la sua più alta realizzazione.
L'adorazione dei sensi spesso e molto giustamente è caduta in discredito perché gli uomini provano un istintivo terrore verso le sensazioni e le passioni più forti di loro che sanno di dividere con forme di esistenza meno organizzate. Ma a Dorian Gray pareva che nessuno avesse mai compreso la vera natura dei propri sensi e che essi fossero rimasti animaleschi e selvaggi solo perché l'umanità aveva tentato di soggiogarli o di mortificarli attraverso la sofferenza invece di proporsi di farne elementi di nuova spiritualità, la cui caratteristica dominante avrebbe dovuto essere un raffinato istinto del bello. Quando si voltava a guardare il cammino dell'uomo nella storia, un senso di perdita lo ossessionava. A quante cose si era rinunciato! E per un così misero fine! Si erano viste folli rinunce dettate dall'ostinazione, forme mostruose di autopunizione e di abnegazione nate dalla paura e finite in forme di degradazione infinitamente più terribili di tutte quelle presunte degradazioni da cui, nella loro ignoranza, gli uomini avevano cercato di fuggire. La natura, nella sua meravigliosa ironia, spingeva l'anacoreta a nutrirsi insieme agli animali selvaggi del deserto e dava come compagni all'eremita gli animali dei campi.
Sì, come aveva preannunciato Lord Henry, sarebbe sorto un nuovo edonismo che avrebbe ricreato la vita e l'avrebbe salvata dal duro e sgradevole puritanesimo che ai giorni nostri conosce un singolare risveglio. Questo edonismo avrebbe dovuto certamente appoggiarsi all'intelletto ma non avrebbe mai accettato teorie o sistemi implicanti la rinuncia a qualunque esperienza emotiva. Suo scopo infatti avrebbe dovuto essere l'esperienza stessa e non i suoi frutti, dolci o amari che fossero. Avrebbe ignorato sia l'ascetismo che mistifica i sensi, sia la volgare dissolutezza che li assopisce. Avrebbe invece insegnato agli uomini a concentrarsi negli attimi di una vita che è essa stessa solo un attimo.
A pochi di noi non è mai capitato di svegliarsi prima dell'alba, sia dopo una di quelle notti senza sogni che quasi ci fanno innamorare della morte, che dopo una di quelle notti di orrore e di gioia mostruosa quando nelle regioni della mente passano fantasmi più terribili della realtà stessa, fantasmi imbevuti di quella vita ricca di colore che si nasconde nelle cose grottesche e che dà all'arte gotica la sua duratura vitalità, essendo quest'arte, si potrebbe pensare, propria di chi ha avuto la mente turbata dal malanno della reverie. A poco a poco, bianche dita si insinuano attraverso le cortine e paiono tremare. Ombre mute dalle nere forme fantastiche strisciano negli angoli della stanza e vi si acquattano. Fuori, gli uccelli si agitano tra le fronde, si sentono i rumori degli uomini che vanno al lavoro, o i sospiri e i singhiozzi del vento che scende dai monti e si aggira intorno alla casa solitaria come se temesse di svegliare chi dorme e tuttavia costretto a evocare il sonno dalla sua purpurea caverna. I soffici veli di nebbia si sollevano a uno a uno, a gradi le cose riacquistano forma e colore, e noi vediamo l'alba che restituisce al mondo l'antico aspetto. I pallidi specchi riprendono la loro vita di imitazione. I candelabri senza fiamma sono dove li abbiamo lasciati. Accanto, c'è il libro a metà intonso che stavamo studiando o il fiore, sostenuto dal filo di ferro, che portavamo al ballo, la lettera che, per timore, non abbiamo letto o che abbiamo letto troppe volte. Nulla ci appare cambiato. Dalle ombre della notte esce di nuovo la vita che conosciamo. Dobbiamo riprenderla dove l'abbiamo lasciata e a questo punto, pian piano, ci pervade la terribile sensazione di dover continuare a impiegare energia nello stesso monotono circolo di abitudini stereotipate, o anche il desiderio sfrenato che una mattina i nostri occhi si possano aprire su un mondo che nell'oscurità si è rinnovato per il nostro piacere, un mondo dove le cose abbiano nuove forme e colori, siano diverse o abbiano altri segreti, un mondo in cui il passato abbia poca o nessuna importanza, o comunque sopravviva in forme ignare del dovere o del rimpianto: anche il ricordo della gioia, infatti, possiede una sua amarezza e quello del piacere una sua pena.
La creazione di simili mondi pareva a Dorian Gray il vero scopo, o uno dei veri scopi, della vita; e nella sua ricerca di sensazioni a un tempo nuove e piacevoli, provviste di quegli elementi insoliti così essenziali per lo spirito romantico, adottava spesso modi di pensiero che sapeva essere del tutto estranei alla sua natura. Si abbandonava alla loro sottile influenza, e poi, dopo averne per così dire afferrato il colore e dopo aver soddisfatto la sua curiosità intellettuale, li lasciava perdere con quella curiosa indifferenza che non è incompatibile con un temperamento ardente, ma che anzi, secondo alcuni psicologi moderni, spesso ne è una condizione.
Una volta si sparse la voce che stesse per convertirsi al cattolicesimo, e certamente il rito romano aveva sempre avuto per lui un grande fascino. Il sacrificio quotidiano, più terribile di tutti i sacrifici del mondo antico, lo commuoveva sia per il suo superbo rifiuto dell'evidenza dei sensi che per la primitiva semplicità dei suoi elementi e per l'eterno pathos della tragedia umana che vorrebbe rappresentare. Gli piaceva inginocchiarsi sul freddo pavimento di marmo e guardare il sacerdote nei suoi rigidi paramenti fioriti quando scostava lentamente con le bianche mani il velo del tabernacolo o sollevava l'ostensorio tempestato di gemme simile di forma a una lanterna, con quella pallida ostia che a volte si direbbe volentieri sia davvero il panis coelestis, il pane degli angeli; o quando, indossando le vesti della passione di Cristo, spezzava l'ostia nel calice battendosi il petto per i suoi peccati. I turiboli fumanti, agitati nell'aria come grandi fiori dorati da ragazzi severi vestiti di pizzi e porpora, avevano su di lui un sottile fascino. Mentre usciva era solito guardare con un senso di meraviglia i confessionali bui e sedeva a lungo nell'ombra profonda ascoltando uomini e donne che sussurravano attraverso la grata consunta la storia vera della loro vita.
Ma non commise mai l'errore di arrestare il suo sviluppo intellettuale accettando formalmente un credo o un sistema, o di confondere con la casa dove si vive una locanda adatta solo per il sonno di una notte o per le poche ore di una notte senza stelle in cui la luna si mostra a fatica. Il misticismo, con il suo meraviglioso potere di renderci insolite le cose banali, e il sottile antinomismo che pare accompagnarlo sempre, lo interessarono per un breve periodo; per un altrettanto breve periodo si dedicò alle dottrine del movimento darwinista tedesco, e provò un singolare piacere nel far risalire i pensieri e le passioni degli uomini a qualche perlacea cellula cerebrale, o a qualche bianco nervo del corpo, divertendosi all'idea dell'assoluta dipendenza dello spirito da determinate condizioni fisiche, sane o malate, normali o morbose. Tuttavia, come già si è detto, nessuna teoria della vita gli pareva avere qualche importanza se paragonata alla vita stessa. Era acutamente consapevole di quanto sia sterile ogni speculazione intellettuale quando è separata dall'azione e dall'esperienza. Sapeva che i sensi non meno dell'anima hanno i loro misteri spirituali da rivelare.
Per questo volle studiare i profumi e i segreti della loro fabbricazione distillando olii odorosi e bruciando resine profumate provenienti dall'Oriente. Si rese conto che non vi era nessuno stato d'animo che non avesse una controparte nella vita dei sensi e tentò di scoprire i loro veri legami, domandandosi perché l'incenso spinge al misticismo, perché l'ambra grigia eccita le passioni, le violette evocano il ricordo di spente passioni, il muschio turba l'intelletto e la magnolia colora l'immaginazione. Numerosi furono i tentativi di elaborare un'autentica psicologia dei profumi e di valutare le molteplici influenze delle radici dall'aroma dolce e dei fiori ricchi di polline profumato, dei balsami aromatici, dei legni scuri e fragranti, dello spiganardo nauseante, dell'ovenia che fa impazzire, dell'aloe che, dicono, scaccia la malinconia dall'anima.
In un altro periodo si dedicò totalmente alla musica, e in una lunga stanza dalle finestre inferriate con il soffitto rosso e oro e pareti di lacca verde oliva, era solito tenere strani concerti, in cui zingari appassionati strappavano musiche selvagge da piccole cetre, o gravi tunisini dai gialli barracani pizzicavano le corde di enormi liuti, mentre negri sorridenti battevano con monotonia su tamburi di rame e, rannicchiati su tappeti scarlatti, sottili indiani in turbante soffiavano in lunghi pifferi di canna o di ottone e incantavano, o fingevano di incantare, grandi serpenti dal cappuccio e orribili vipere cornute. I tempi discordanti e le acute dissonanze della musica primitiva a volte lo commuovevano, quando ormai la grazia di Schubert, la bella malinconia di Chopin e le possenti armonie dello stesso Beethoven non ridestavano più il suo interesse. Raccolse da tutte le parti del mondo i più strani strumenti che era possibile trovare sia nelle tombe di popoli scomparsi, che tra le poche tribù selvagge sopravvissute al contatto con la civiltà occidentale, e amava toccarli e provarli. Possedeva il misterioso juruparis degli indios del Rio Negro, che le donne non devono mai vedere, e sul quale nemmeno i giovani possono posare lo sguardo se non dopo una prova di digiuno e di flagellazione, le giare di terracotta degli indiani che hanno un suono acuto come grida di uccelli; flauti di ossa umane come quelli che Alfonso de Ovalle udì in Cile, i sonori diaspri verdi che si trovano nella zona di Cuzco e che emettono note di singolare dolcezza. Aveva zucche dipinte, piene di sassolini che crepitavano quando erano scosse; il lungo clarino messicano nel quale l'aria non viene soffiata ma aspirata dal suonatore; l'aspro ture delle tribù amazzoniche suonato dalle sentinelle che siedono tutto il giorno su alti alberi e che si dice possa essere udito alla distanza di tre leghe; il teponazil che ha due linguette vibranti di legno e viene percosso con bastoncini ricoperti da una gomma elastica tratta dalla linfa lattiginosa delle piante; le campane yotl degli aztechi riunite in grappoli come l'uva; un enorme tamburo cilindrico coperto dalla pelle di grossi serpenti come quello che Bernal Diaz vide quando andò con Cortés nel tempio messicano e del cui suono pieno di tristezza ci lasciò una così vivida descrizione. Il carattere fantastico di questi strumenti lo affascinava e provava uno strano piacere al pensiero che l'arte, come la natura, ha i suoi mostri, esseri di forma bestiale e dalle orribili voci. Tuttavia dopo qualche tempo se ne stancò e, nel suo palco all'Opera, solo o in compagnia di Lord Henry, ascoltava con gioia rapita il Tannhäuser, ritrovando nel preludio di questa grande opera d'arte la rappresentazione della tragedia della sua anima.
In un certo periodo si dedicò allo studio dei gioielli e apparve a un ballo nel costume di Anne de Joyeuse, ammiraglia di Francia, con un vestito coperto di cinquecentosessanta perle. Questa passione lo dominò per anni interi, e in verità bisogna dire che non lo abbandonò mai. Spesso trascorreva l'intera giornata ordinando e riordinando nei loro astucci le varie pietre della sua collezione, come il crisoberillo verde oliva che diviene rosso sotto la luce artificiale, il cimofano striato da un filo d'argento, il crisolito color pistacchio, i topazi rosa o ambrati come il vino, i carbonchi dall'intenso colore scarlatto e dalle tremule stelle a quattro raggi, i cinnami rosso fiamma, le spinelle arancioni o violette e le ametiste con i loro strati alternati di zaffiro e rubino. Amava l'oro rosso dell'arenaria, la bianchezza perlacea della pietra lunare, lo spezzato arcobaleno dell'opale lattea. Fece arrivare da Amsterdam tre smeraldi di dimensioni straordinarie e di colore intensissimo e si procurò una turchese de la vieille roche che tutti gli intenditori gli invidiavano.
Sui gioielli scoprì anche storie meravigliose. Nella Clericalis Disciplina di Alfonso si menzionava un serpente dagli occhi di vero giacinto, e nell'avventurosa storia di Alessandro, il conquistatore di Ematia, si diceva che avesse trovato nella valle del Giordano serpenti "con collane di autentici smeraldi che spuntavano sul loro dorso". Filostrato riferisce che il cervello di un drago conteneva una gemma e che "mostrandogli lettere d'oro e una tunica scarlatta" fu possibile far cadere il mostro in un sonno magico e ucciderlo. Secondo il grande alchimista Pierre de Boniface, il diamante rende invisibili e l'agata indiana eloquenti. La corniola calma la collera, il giacinto favorisce il sonno e l'ametista dissipa i fumi del vino. Il granato scaccia i demoni e l'opale ha tolto alla luna il suo colore. La selenite cresce o cala a seconda della luna e solo il sangue di capretto può macchiare il meloceo che rivela i ladri. Leonardo Camillus aveva visto una pietra bianca tolta dal cervello di un rospo appena ucciso e che era un antidoto sicuro contro i veleni. Il bezoar, che si trova nel cuore del daino arabo, è un amuleto contro la peste. Nei nidi degli uccelli d'Arabia si trova l'aspilate, che secondo Democrito protegge chi lo porta dai pericoli del fuoco.
Durante la cerimonia dell'incoronazione, il re di Ceylon attraversa a cavallo la città tenendo in mano un grosso rubino. Le porte del palazzo del Prete Gianni erano "di sardio e portavano incastonate le corna dell'aspide cornuta, onde nessuno potesse entrare portando veleni". Sul frontone c'erano "due mele d'oro, nelle quali erano incastonati due carbonchi", perché di giorno scintillasse l'oro e i carbonchi di notte. Nello strano romanzo di Lodge Una margherita in America, si afferma che nella stanza della regina si potevano osservare "tutte le caste donne del mondo, cesellate in argento, che vedevano con limpidi occhi di crisalidi, carbonchi, zaffiri e verdi smeraldi". Marco Polo aveva visto gli abitanti del Cipango porre perle rosa nella bocca dei morti. Un mostro marino si innamorò di una perla che un pescatore portò al re Perozes, uccise il ladro, e pianse per sette lune la perdita della sua amata. Quando gli Unni attirarono il re nella grande fossa - è Procopio che lo racconta - egli la gettò via e non la ritrovò più nonostante l'imperatore Anastasio avesse offerto cinque libbre d'oro per averla. Il re del Malabar aveva mostrato a un veneziano un rosario di trecentoquattro perle, una per ognuno degli dei che adorava.
Quando il duca Valentino, figlio di Alessandro VI, fece visita a Luigi XII di Francia, montava, secondo Brantôme, un cavallo coperto di piastre d'oro e portava un cappello ornato da un doppio giro di rubini che emettevano intensi bagliori. Carlo d'Inghilterra cavalcava con staffe sospese a cinghie ornate da quattrocentoventun diamanti. Riccardo II aveva un mantello coperto di rubini valutato trentamila marchi. Hall descrive Enrico VII mentre si reca alla Torre di Londra prima dell'incoronazione, "con un farsetto a ricami d'oro, la piastra pettorale ricamata con diamanti e altre pietre preziose e intorno al collo una grande gorgera tempestata di enormi rubini". I favoriti di Giacomo I portavano orecchini di smeraldi avvolti in filigrana d'oro. Edoardo II regalò a Piers Gaveston un'armatura di oro rosso tempestata di giacinti, un collare di rose d'oro con turchesi e un elmo parsemé di perle. Enrico II portava guanti ingioiellati lunghi fino al gomito e aveva un guanto da falcone ornato con dodici rubini e cinquantadue grandi perle orientali. Il cappello ducale di Carlo il Temerario, ultimo duca di Borgogna della sua casata, era ornato di perle a goccia e di zaffiri.
Com'era raffinata la vita d'un tempo! Com'erano fastosi la sua pompa e i suoi ornamenti! Perfino la letteratura sul lusso dei morti era meravigliosa.
Poi rivolse l'attenzione ai ricami e agli arazzi che, nelle gelide stanze delle regioni nordiche, sostituiscono gli affreschi. Mentre si dedicava a questo studio - ebbe sempre la straordinaria capacità di lasciarsi completamente assorbire dalla cosa che lo interessava in quel momento, qualunque fosse - provò un'infinita tristezza al pensiero della rovina che il tempo infliggeva alle cose belle e meravigliose. A questa rovina, comunque, lui era sfuggito. Le estati si susseguivano, le gialle giunchiglie fiorivano e morivano, notti d'orrore ripetevano la storia della loro vergogna, ma Dorian Gray non subiva nessun cambiamento. L'inverno non deformava il suo volto, né segnava il suo incarnato fresco come un fiore. Com'era diversa la sorte delle cose materiali! Dov'erano andate? Dov'era la grande veste color del croco, per la quale gli dei avevano combattuto contro i giganti, che brune fanciulle avevano tessuto per il piacere di Atena? Dov'era l'immenso velario che Nerone aveva teso sopra il Colosseo a Roma, quella titanica vela di porpora sulla quale era raffigurato il cielo stellato e Apollo che conduceva un carro tirato da bianchi cavalli dai finimenti d'oro? Avrebbe desiderato vedere le singolari tovaglie tessute per il Sacerdote del Sole, sulle quali erano esposti i piatti e le leccornie più squisiti che si potessero desiderare a una festa; il sudario del re Cilperico, con le sue trecento api d'oro; le vesti fantastiche che avevano suscitato l'indignazione del vescovo del Ponto e che portavano figure di "leoni, pantere, orsi, cani, foreste, rocce, cacciatori: tutto ciò che in realtà un pittore può copiare dalla natura"; il mantello indossato una volta da Carlo d'Orléans, sulle cui maniche erano ricamati i versi di una canzone che cominciava con "Madame, je suis tout joyeux" mentre il pentagramma dell'accompagnamento musicale era lavorato in filo d'oro e ogni nota, di forma quadrata come allora si usava, era composta da quattro perle. Aveva letto della stanza nel palazzo di Reims preparata per la regina Giovanna di Borgogna, decorata con "milletrecentoventun pappagalli ricamati, recanti il blasone del re, e cinquecentosessantun farfalle dalle ali parimenti adorne del blasone della regina, il tutto lavorato in oro". Caterina de' Medici si era fatta fare una coltre da lutto di velluto nero cosparso di mezzelune e di soli. Le cortine dei baldacchino di damasco erano ornate di ghirlande e intrecci di foglie su fondo oro e argento, e i bordi frangiati di ricami di perle; il letto era in una stanza dalle pareti tappezzate da una fila di stemmi della regina fatte con appliques di velluto nero su tessuto d'argento. Luigi XIV aveva nel suo appartamento delle cariatidi ricamate in oro alte cinque metri. Il letto da cerimonia di Sobieski, re di Polonia, era di broccato d'oro di Smirne sul quale, con turchesi, erano ricamati versetti del Corano. I sostegni d'argento dorato erano meravigliosamente cesellati e adorni di medaglioni di smalto e pietre preziose. Era stato catturato nel campo turco davanti a Vienna e, sotto i tremuli bagliori d'oro del baldacchino, era stato innalzato lo stendardo di Maometto.
Così, per un anno intero, cercò di accumulare i più squisiti esemplari di tessuti e ricami che poté trovare: delicate mussole di Delhi finemente intessute di palme dalle foglie d'oro e trapunte con ali iridescenti di scarabei; garze di Dacca che per la loro trasparenza sono conosciute in Oriente con il nome di "aria filata", "acqua corrente", "rugiada della sera"; strani tessuti a figure di Giava; elaborate tappezzerie cinesi; libri rilegati in raso fulvo o in seta azzurro pallido intessuta di fleurs de lys, di uccelli e figure; veli li lacis lavorati a punto ungherese; broccati siciliani e rigidi velluti spagnoli; tessuti georgiani ricamati con monete d'oro, e fukusa giapponesi dalle sfumature color verde oro e dagli uccelli riccamente piumati.
Aveva anche una particolare passione per le vesti ecclesiastiche, come del resto per tutto ciò che aveva a che fare con il culto cattolico. Nelle lunghe cassapanche di cedro, allineate nella galleria settentrionale della sua casa, aveva riposto rari e splendidi esemplari di quello che in realtà è l'abbigliamento della sposa di Cristo, obbligata a indossare porpora, gioielli e lini raffinati per nascondere il corpo pallido e macerato, consunto dalle sofferenze volute e ferito dal volontario martirio. Possedeva un magnifico piviale di seta cremisi e di damasco intessuto d'oro, con un disegno ripetuto di melograni d'oro tra fiori stilizzati a sei petali e, sui due lati, un motivo di ananas in grani di perla. Gli orphreys erano divisi in pannelli che rappresentavano scene della vita della Vergine mentre sul cappuccio era raffigurata, con ricami di seta colorata, la sua Incoronazione. Era un lavoro italiano del XV secolo. Un altro piviale era di velluto verde ricamato a mazzi di fiori d'acanto in forma di cuore dai quali spuntavano bianchi fiori dal lungo stelo, resi a rilievo con filo d'argento e pietre colorate. Il fermaglio portava una testa di serafino di filigrana d'oro in rilievo. Gli orphreys erano tessuti in seta rossa e oro, abbellita da vari medaglioni di santi e martiri tra i quali San Sebastiano. Aveva anche pianete di seta color dell'ambra, di seta azzurra e broccato d'oro, di seta gialla damascata e intessuta d'oro con scene della passione e della crocifissione di Cristo, ricamate con leoni e pavoni e altri emblemi; dalmatiche di seta bianca e di seta rossa di Damasco, decorata con tulipani e delfini e fleurs de lys; paliotti d'altare di velluto cremisi e di lino blu; e corporali e veli di calice e sudari. C'era qualcosa, nei mistici uffici in cui questi oggetti venivano impiegati, che gli faceva correre la fantasia.
Questi tesori, infatti, così come tutte le cose che raccoglieva nella sua bella casa, gli servivano per dimenticare, gli davano la possibilità di sfuggire per un certo periodo alla paura che, a volte, gli sembrava insopportabile. Sulla parete della chiusa stanza solitaria in cui aveva trascorso tanta parte della sua infanzia, aveva appeso con le proprie mani il terribile ritratto le cui mutevoli fattezze gli mostravano la vera degenerazione della sua vita, e sul quale aveva drappeggiato come un sipario il manto porpora e oro. Per settimane intere non entrava in quella camera, dimenticava l'orrenda cosa dipinta e ritrovava la serenità, la sua meravigliosa gaiezza, la sua dedizione appassionata al puro fatto di esistere. Poi, improvvisamente, una notte usciva di casa, si recava in posti orribili dalle parti di Blue Gate Fields e restava là giorni e giorni finché ne veniva scacciato. Al ritorno, sedeva di fronte al ritratto a volte provando un profondo schifo per il quadro e per se stesso, ma altre volte colmo di quell'orgoglio individualistico che dà al peccato metà del suo fascino e sorrideva, segretamente compiaciuto, all'ombra deforme costretta a portare un peso che avrebbe dovuto essere suo.
Dopo qualche anno, non riusciva a restare per molto tempo lontano dall'Inghilterra. Aveva ceduto la villa di Trouville che divideva con Lord Henry e la piccola casa di Algeri dalle bianche mura dove aveva trascorso più di un inverno. Odiava separarsi dal quadro che aveva una parte così importante nella sua vita e inoltre temeva che, durante la sua assenza, qualcuno potesse entrare nella stanza nonostante il complicato sistema di catenacci che aveva fatto mettere alla porta.
Sapeva benissimo che questo non significava nulla. Certo, il ritratto conservava ancora, sotto la perfida bruttezza del volto, una marcata somiglianza con lui, ma questo che cosa avrebbe potuto suggerire? Avrebbe riso di chiunque cercasse di accusarlo. Non l'aveva dipinto lui. Per quanto potesse essere ignobile e vergognoso, che rapporto aveva con lui? Chi gli avrebbe creduto anche se gli avesse rivelato il suo segreto?
Tuttavia aveva paura. A volte quando si trovava nella sua grande casa del Nottinghamshire, in compagnia dei giovani eleganti del suo ceto che solitamente frequentava, stupendo la contea con il lusso sfrenato e con il fastoso splendore del suo stile di vita, abbandonava improvvisamente gli ospiti e ritornava in gran fretta in città per assicurarsi che la porta non fosse stata forzata e che il quadro fosse sempre al suo posto. Che cosa sarebbe successo se lo avessero rubato? La sola idea lo agghiacciava. Senza dubbio tutti avrebbero conosciuto il suo segreto. Forse già lo sospettavano.
Infatti, anche se affascinava molta gente, non pochi diffidavano di lui. Per poco non era stata respinta la sua candidatura a un club del West End cui per nascita e posizione sociale avrebbe avuto pieno diritto di appartenere, e si diceva che una volta, mentre un amico lo accompagnava nella sala del Churchill, il duca di Berwich e un altro gentiluomo si erano ostentatamente alzati ed erano usciti. Dopo il suo venticinquesimo compleanno, strane storie cominciarono a diffondersi sul suo conto. Correva la voce che lo avessero visto azzuffarsi con dei marinai stranieri in un'infima bettola nella zona più lontana di Whitechapel, che frequentasse ladri e falsari e conoscesse i misteri dei loro traffici. Le sue strane assenze divennero di dominio pubblico e quando riappariva in società, la gente sussurrava negli angoli, gli passava accanto con un sorriso di scherno, oppure lo fissavano con un freddo sguardo indagatore come se fossero decisi a scoprire il suo segreto.
Naturalmente lui non si curava di queste insolenze e di questi tentativi di provocazione e, nell'opinione dei più, i suoi modi franchi e privi di affettazione, il fascino del suo sorriso fanciullesco e la grazia infinita di quella meravigliosa gioventù che sembrava non lasciarlo mai, erano di per se stessi una risposta sufficiente alle calunnie - perché tali le ritenevano - che circolavano sul suo conto. Fu notato comunque che alcuni di coloro che erano stati in grande intimità con lui, dopo qualche tempo sembravano evitarlo. Si vedevano donne che lo avevano adorato alla follia e che per lui avevano sfidato ogni censura sociale e messo da parte tutte le convenzioni, impallidire di vergogna o di orrore quando Dorian Gray appariva.
Tuttavia, questi scandali di cui si sussurrava, agli occhi di molti non facevano che aumentare il suo singolare e pericoloso fascino. La sua grande ricchezza era un elemento rassicurante. La società, quella civilizzata almeno, non crede mai troppo facilmente a ciò che potrebbe danneggiare chi è ricco e affascinante. Sente istintivamente che l'educazione è più importante della morale e, nella sua opinione, la più specchiata rispettabilità vale molto meno del fatto di avere un buon chef. E, alla fine dei conti, è una molto magra consolazione venire a sapere che chi ci ha fatto servire un pessimo pranzo o un vino scadente, è irreprensibile nella vita privata. Nemmeno le virtù cardinali possono far perdonare delle entrées troppo fredde, come fece notare una volta Lord Henry, durante una discussione sull'argomento; e probabilmente vi sono molte cose da dire a favore di questa tesi. I canoni della buona società, infatti, sono, o dovrebbero essere, gli stessi dell'arte: per essi la forma è assolutamente essenziale. Dovrebbero avere la dignità di una cerimonia e, insieme, la sua irrealtà, dovrebbero unire l'ipocrisia delle commedie romantiche allo spirito e alla bellezza che ce le rendono piacevoli. È davvero così terribile l'insincerità? Io non credo: è semplicemente un metodo che ci permette di moltiplicare la nostra personalità.
Questa, almeno, era l'opinione di Dorian Gray. Era solito meravigliarsi della psicologia superficiale di coloro che ritengono che l'Io dell'uomo sia una cosa semplice, stabile, sicura e dotata di una sola essenza. Secondo lui, l'uomo era un essere con miriadi di vite e miriadi di sensazioni, era una creatura multiforme e complessa che portava in sé strane eredità di pensiero e di passione, una creatura la cui carne era corrotta dalle mostruose malattie della morte. Gli piaceva aggirarsi nella cupa e fredda galleria della sua casa di campagna e osservare i ritratti di coloro il cui sangue gli fluiva nelle vene. Ecco Philip Herbert, descritto da Francis Osborne nelle sue Memorie del Regno della Regina Elisabetta e di re Giacomo come un uomo "benvoluto a corte per il bel volto, che non gli tenne a lungo compagnia". Forse il giovane Herbert aveva condotto la vita che a volte lui stesso conduceva? Forse qualche strano germe velenoso era passato di corpo in corpo finché era giunto nel suo? Era forse il fievole senso di quella bellezza distrutta che, così improvvisamente e quasi senza motivo, nello studio di Basil Hallward lo aveva spinto a quella folle preghiera che aveva cambiato radicalmente la sua vita? Ecco, con il giustacuore rosso ricamato in oro, il mantello ingioiellato, il colletto e i polsini orlati d'oro, Sir Anthony Sherard con l'armatura lucente e brunita ai suoi piedi. Qual era l'eredità che gli aveva lasciato? Forse l'amante di Giovanna di Napoli gli aveva trasmesso un'eredità di vergogna e di peccato? Le sue azioni erano forse sogni che quegli uomini defunti non avevano avuto il coraggio di attuare? E qui, dalla tela sbiadita, sorrideva Lady Elizabeth Devereux, nel velo di mussola, con il corsetto ricamato di perle e le maniche rosa a spacchi verticali. Nella destra teneva un fiore e nella sinistra un collare smaltato di rose bianche e damascate. Accanto, su un minuscolo tavolo, erano posati un mandolino e una mela. Sulle scarpine appuntite c'erano grosse rosette. Conosceva la sua vita e le strane storie che si raccontavano sui suoi amanti: aveva in sé qualche cosa del suo temperamento? Quegli occhi a mandorla dalle palpebre pesanti parevano fissarlo curiosi. E che dire di George Willoughby, con quei suoi capelli incipriati e i nèi bizzarri? Che aria perversa! Il volto era scuro e mesto, le labbra sensuali parevano piegarsi in una smorfia sprezzante. Delicati merletti cadevano sulle sue mani gialle e sottili, sovraccariche di anelli. Era stato una delle persone più eleganti del diciottesimo secolo e, in gioventù, l'amico di Lord Ferrars. Che dire poi del secondo Lord Beckenham, compagno del Principe Reggente durante il suo periodo più sfrenato, nonché uno dei testimoni al suo matrimonio con la signora Fitzherbert? Com'era bello e altero con quei riccioli castani e la posa insolente! Quali passioni gli aveva trasmesso? Il mondo lo aveva considerato infame perché aveva diretto le orge di Carlton House. Sul petto gli scintillava la stella della Giarrettiera. Accanto al suo, era appeso il ritratto della moglie, una donna pallida dalle labbra sottili, vestita di nero. Anche il sangue di lei gli scorreva nelle vene. Come era strano! E sua madre, con quel suo volto da Lady Hamilton e le labbra come stillanti vino. Sapeva che cosa aveva preso da lei: la bellezza e l'amore per la bellezza altrui. Gli sorrideva nel suo abito da baccante. Aveva foglie di vite nei capelli e vino purpureo cadeva dalla coppa che teneva in mano. I garofani del quadro avevano perduto il colore, ma gli occhi erano ancora meravigliosi, profondi e brillanti di colore. Sembravano seguirlo in ogni suo movimento.
Ma si possono anche avere antenati nella letteratura, come nella propria stirpe, antenati forse ancor più vicini nel tipo e nel temperamento e, certo, con influenze di cui siamo più profondamente consapevoli. A volte sembrava a Dorian Gray che tutta la storia fosse solo un racconto della sua vita, non come l'aveva vissuta in realtà, ma come l'aveva creata nella sua fantasia, come si era svolta nella sua mente e nelle sue passioni. Sentiva di averli conosciuti tutti, quei singolari terribili personaggi che erano passati sulla scena del mondo e avevano commesso peccati così meravigliosi e così sottili malvagità. Gli sembrava che, in qualche modo misterioso, la loro vita fosse stata la sua.
Anche l'eroe del meraviglioso racconto che aveva tanto influenzato la sua vita aveva avuto la stessa fantasticheria. Nel settimo capitolo raccontava di quando, incoronato di alloro perché il fulmine non potesse colpirlo, si era seduto come Tiberio in un giardino di Capri a leggere l'infame libro di Elefantide, mentre nani e pavoni gli si aggiravano intorno pieni di sussiego e il suonatore di flauto derideva il ragazzo che agitava l'incensiere. Come Caligola aveva gozzovigliato nelle scuderie con i fantini in tunica verde e aveva preso il cibo nella mangiatoia d'avorio insieme al cavallo che aveva la fronte cinta di gioielli. Come Domiziano si era aggirato in un corridoio rivestito di specchi di marmo, guardandosi intorno con occhi stravolti alla ricerca del riflesso della spada che avrebbe posto fine ai suoi giorni, malato di quell'ennui, di quel terribile taedium vitae che assale coloro che hanno tutto dalla vita. Aveva guardato, attraverso un limpido smeraldo, i rossi massacri del circo e poi, in una lettiga di porpora e perle tirata da mule dai ferri d'argento, si era fatto portare attraverso la via dei Melograni verso la Domus Aurea e aveva udito gli uomini gridare al suo passaggio il nome di Nerone Cesare. Come Eliogabalo, si era dipinto il volto, aveva preso la conocchia insieme alle donne, aveva trasportato la Luna da Cartagine per offrirla al Sole in mistico matrimonio.
Dorian Gray era solito leggere e rileggere di continuo questo fantastico capitolo e i due immediatamente successivi, in cui come in arazzi singolari o in smalti abilmente lavorati, erano raffigurate le forme orrende e bellissime di coloro che il vizio, il sangue e la noia avevano reso mostruosi o folli: Filippo, duca di Milano, che assassinò la moglie e le dipinse le labbra con veleno scarlatto perché l'amante suggesse la morte dando l'ultimo bacio alla morta; Pietro Barbi, veneziano, conosciuto con il nome di Paolo II, che spinse la sua vanità fino ad assumere il titolo di Formosus e la cui tiara valutata duecentomila fiorini fu comperata a prezzo di un terribile peccato; Gian Maria Visconti, che usava i segugi per cacciare l'uomo, e il cui corpo assassinato fu ricoperto di rose da una prostituta che lo amava; il Borgia con il Fratricidio che gli cavalcava a fianco e il mantello macchiato del sangue di Perotto; Pietro Riario, il giovane cardinale arcivescovo di Firenze, figlio favorito di Sisto IV, la cui bellezza era pari solo alla dissolutezza, che ricevette Leonora d'Aragona in un padiglione di seta bianca e cremisi, pieno di ninfe e centauri, e fece dorare un fanciullo perché alle feste gli servisse da Ganimede o da Hylas; Ezzelino, la cui malinconia era alleviata solo dallo spettacolo della morte, e che amava il rosso sangue, come altri amavano il rosso vino: figlio del demonio, era ritenuto, e aveva truffato il padre giocando con lui l'anima a dadi; Giambattista Cybo che per beffa prese il nome di Innocenzo e nelle cui torpide vene un medico ebreo trasfuse il sangue di tre giovinetti; Sigismondo Malatesta, amante di Isotta e signore di Rimini, che venne bruciato in effigie a Roma perché nemico di Dio e dell'uomo, che strangolò Polissena con un tovagliolo, offrì il veleno a Ginevra d'Este in una coppa di smeraldo e, in onore di una vergognosa passione, costruì una chiesa pagana per il culto cristiano; Carlo VI, così violentemente preso dalla cognata che un lebbroso lo avvertì che sarebbe presto impazzito e che, quando il cervello fu colto dalla malattia e cominciò a sragionare, si calmava solo vedendo le carte saracene dipinte con le immagini dell'amore, della morte, e della follia; e - nel farsetto attillato, il berretto ornato di gemme, i riccioli come foglie di acanto - Grifonetto Baglioni, che assassinò Astorre insieme alla moglie e Simonetto con il suo paggio, un giovane di tale bellezza che, quando giacque morente sulla gialla piazza di Perugia, coloro che lo odiavano non poterono impedirsi di piangere, e Atalanta, che lo aveva maledetto, lo benedisse.
C'era un orribile fascino in tutti questi personaggi. Li vedeva di notte e gli turbavano l'immaginazione durante il giorno. Il rinascimento conosceva strani modi per uccidere di veleno: con un elmo o con una torcia accesa, con un guanto ricamato d'oro e con una catenella d'ambra. Dorian Gray era stato avvelenato da un libro. In certi momenti considerava il male solo un mezzo mediante il quale realizzare la sua concezione della bellezza.
XII
Era il nove di novembre, il giorno del suo trentottesimo compleanno, come ricordò più volte in seguito.
Tornava a casa verso le undici di sera, dopo aver pranzato da Lord Henry, avvolto in una pesante pelliccia perché la notte era fredda e nebbiosa. All'angolo di Grosvenor Square con South Adley Street un uomo in un ulster grigio col bavero alzato, lo superò muovendosi rapido nella nebbia. Teneva in mano una valigia. Dorian Gray lo riconobbe: era Basil Hallward. Si sentì assalire da uno strano, inspiegabile senso di paura. Finse di non riconoscere il pittore e proseguì in fretta verso casa.
Hallward però lo aveva visto. Dorian lo udì dapprima fermarsi sul marciapiedi, poi corrergli dietro. Pochi momenti dopo la mano di lui gli si posava su un braccio.
"Dorian! Che colpo di fortuna! Ti ho aspettato nella tua biblioteca fin dalle nove. Alla fine la stanchezza del tuo cameriere mi ha impietosito e me ne sono andato dicendogli di andare a letto. Parto per Parigi con il treno di mezzanotte: ci tenevo molto a vederti prima di partire. Ho pensato che fossi tu, o meglio la tua pelliccia, nel passarti accanto, ma non ne ero affatto sicuro. Non mi hai riconosciuto?"
"Con questa nebbia, mio caro Basil? Non riesco nemmeno a riconoscere Grosvenor Square. Credo che la mia casa sia da queste parti, ma non ne sono affatto sicuro. Mi dispiace che tu stia partendo, non ti vedo da secoli. Ma immagino che tornerai presto."
"No, rimarrò via dall'Inghilterra per sei mesi.
Ho intenzione di prendere uno studio a Parigi e di rinchiudermi dentro finché non avrò finito un grande quadro che ho in mente. Comunque, non era di me che volevo parlare. Eccoci alla porta di casa tua: fammi entrare un momento, ho qualcosa da dirti."
"Con molto piacere, ma non perderai il treno?" domandò pigramente Dorian Gray mentre saliva i gradini e apriva la porta.
La luce del lampione penetrava a fatica la nebbia e Hallward diede un'occhiata all'orologio. "Ho un sacco di tempo," rispose. "Il treno parte alle dodici e quindici e sono appena le undici. Stavo proprio andando al club a cercarti quando ti ho incontrato. Come vedi, non ho bagagli ingombranti: ho già spedito le cose più pesanti. Ho solo questa borsa e posso comodamente arrivare alla Victoria Station in venti minuti."
Dorian lo guardò e sorrise. "Che modo di viaggiare per un famoso pittore! Una borsa Gladstone e un ulster! Entra, altrimenti la nebbia mi viene in casa. E ricordati di non dirmi nulla di serio. Non c'è nulla di serio in questi tempi, o, almeno, non dovrebbe esserci."
Hallward entrò scuotendo il capo e seguì Dorian in biblioteca. Un allegro fuoco di legna ardeva nel grande camino. Le lampade erano accese e un portaliquori olandese d'argento ancora aperto era posato, insieme ad alcuni sifoni di soda e a grandi bicchieri di cristallo molato, su un minuscolo tavolino intarsiato.
"Come vedi, il tuo cameriere mi aveva messo a mio agio. Mi ha dato tutto quello che desideravo, comprese le tue sigarette dal bocchino dorato. È una persona davvero ospitale. Mi piace molto di più di quel francese che avevi una volta. A proposito, che cosa è successo di lui?"
Dorian scrollò le spalle. "Credo che abbia sposato la cameriera di Lady Radley e l'abbia portata a Parigi come sarta inglese. Ho sentito che l'anglomanie è molto di moda, laggiù. È stupido da parte dei francesi, non ti pare? Ma non era affatto un cattivo cameriere, sai? Non mi era simpatico, ma non potevo lamentarmene. Spesso immaginiamo delle cose completamente assurde. In realtà, mi era molto devoto e mi sembrò molto dispiaciuto quando se ne andò. Vuoi un altro brandy con soda? O preferisci uno Hockheim al seltz? Io lo prendo sempre. Devo averne, nella stanza vicina."
"Grazie, non voglio altro," disse il pittore levandosi cappello e cappotto e gettandoli sulla borsa che aveva posato in un angolo. "E ora, mio caro amico, devo parlarti seriamente. Non fare quella faccia scura. Mi rendi le cose molto più difficili."
"Di che cosa si tratta?" esclamò Dorian Gray, con la sua aria insolente, lasciandosi cadere su un divano. "Spero non di me. Stasera sono stanco di me, mi piacerebbe essere qualcun altro."
"Si tratta di te," rispose il pittore con la sua voce grave e profonda, "e te lo devo dire. Ti prenderà solo mezz'ora."
Dorian sospirò e accese una sigaretta. "Mezz'ora!" mormorò.
"Non è chiederti molto, Dorian, e parlo nel tuo esclusivo interesse. Penso sia bene che tu sappia che a Londra si dicono le cose più tremende sul tuo conto."
"Non desidero saperne nulla. Amo gli scandali che riguardano gli altri, ma quelli che riguardano me non mi interessano. Non hanno il fascino della novità."
"Devono interessarti, Dorian. Ogni gentiluomo ha interesse al suo buon nome. Non vorrai che la gente parli di te come di un personaggio vile e vizioso. Naturalmente ci sono la tua posizione, la tua ricchezza e via dicendo, ma posizione e ricchezza non sono tutto. Bada che non credo assolutamente a queste voci, o almeno, quando ti vedo non posso crederci. Il peccato è una cosa che si stampa sulla faccia di un uomo: non lo si può nascondere. A volte la gente parla di vizi segreti, ma cose simili non esistono. Se un disgraziato ha un vizio, lo manifesta nella linea della bocca, nelle palpebre cadenti, persino nella forma delle mani. L'anno scorso venne da me un tizio - non voglio fare il suo nome, ma lo conosci - per farsi fare il ritratto. Non lo avevo mai visto e fino a quel momento non avevo mai sentito dire nulla sul suo conto, anche se in seguito ho saputo un bel po' di cose. Mi offrì una somma sbalorditiva. Rifiutai. C'era qualche cosa nella forma delle sue dita che mi disgustava. Adesso so che le cose immaginate sul suo conto erano assolutamente vere: conduce una vita spaventosa. Ma tu, Dorian, con quel tuo viso puro, luminoso, innocente, con la tua meravigliosa giovinezza intatta... non posso pensare nulla contro di te. Tuttavia ti vedo molto di rado e ormai non vieni più nel mio studio; così, quando sono lontano e sento queste cose disgustose che la gente mormora sul tuo conto, non so che cosa dire. Perché, Dorian, un uomo come il duca di Berwick lascia la sala di un club quando entri tu? Come mai qui a Londra tanti gentiluomini non vengono a casa tua né ti invitano a casa loro? Un tempo eri amico di Lord Staveley. L'ho incontrato la settimana scorsa a pranzo. Durante la conversazione saltò fuori il tuo nome a proposito delle miniature che hai prestato per la mostra del Dudley. Staveley fece una smorfia e disse che potevi avere il gusto artistico più squisito, ma che non si dovrebbe permettere a nessuna ragazza casta di conoscerti e a nessuna donna onesta di rimanere dove ci sei anche tu. Gli ricordai che ero tuo amico e gli chiesi di spiegarsi. Lo fece, lo fece così, davanti a tutti. Una cosa orribile. Perché la tua amicizia è così fatale ai giovani? C'è stato quel disgraziato giovanotto delle guardie che si è suicidato. Eri suo grande amico. C'è stato Lord Henry Ashton che ha dovuto lasciare l'Inghilterra con il nome macchiato. Eravate inseparabili. E che dire di Adrian Singleton e della sua terribile fine? Che dire dell'unico figlio di Lord Kent e della sua cameriera? Ho incontrato il padre ieri, in St. James's Street: sembrava distrutto dalla vergogna e dal dolore. Che dire del giovane duca di Perth? Che vita conduce adesso? Qual è il gentiluomo che lo frequenterebbe?"
"Smettila, Basil. Parli di cose di cui non sai nulla," disse Dorian Gray mordendosi le labbra e con una nota di infinito disprezzo nella voce. "Mi chiedi come mai Berwick lascia la stanza quando entro io: perché io so tutto della sua vita e non perché lui sa qualche cosa della mia. Con il sangue che gli scorre nelle vene, come potrebbe avere un passato pulito? Mi chiedi di Henry Ashton e del giovane Perth. Sono stato io ad insegnare all'uno i suoi vizi e all'altro la sua depravazione? E se quell'imbecille del figlio di Kent prende in moglie una che batte il marciapiede, che cosa c'entro io? Se Adrian Singleton firma una cambiale con il nome di un amico, sono io il suo tutore? Le conosco le chiacchiere che si fanno in Inghilterra. I borghesi sciorinano i loro pregiudizi morali davanti a enormi tavole imbandite e parlano a bassa voce di quelle che chiamano le dissolutezze delle classi superiori per dimostrare di far parte della buona società e di essere in confidenza con quelli che calunniano. In questo paese basta che un uomo sia un po' diverso e abbia una certa intelligenza perché ogni lingua mediocre si agiti contro di lui. E che tipo di vita conducono questi che si atteggiano a moralisti? Mio caro amico, dimentichi che qui siamo nella patria dell'ipocrisia."
"Dorian," esclamò Hallward, "non è questo il problema. In Inghilterra ci sono moltissime cose che non vanno e la società inglese è completamente sbagliata. Ma proprio per questo vorrei che tu fossi diverso. E invece non lo sei stato. Si ha il diritto di giudicare un uomo dall'influenza che esercita sugli amici. I tuoi pare abbiano perduto ogni senso dell'onore, della bontà, della purezza. Hai instillato in loro la frenesia del piacere e loro sono caduti fino in fondo. Ce li hai portati tu, sì, ce li hai portati tu, e tuttavia puoi sorridere come sorridi adesso. Ma c'è anche di peggio. So che tu e Harry siete inseparabili. Non fosse che per questo, non avresti dovuto permettere che il nome di sua sorella fosse sulla bocca di tutti."
"Attento, Basil. Stai andando un po' troppo oltre."
"Devo parlare e tu devi ascoltarmi e mi ascolterai. Quando hai conosciuto Lady Gwendolin, non l'aveva sfiorata nemmeno l'ombra di uno scandalo. E, adesso c'è forse una sola donna come si deve disposta a farsi vedere in carrozza con lei al Park? Ma se nemmeno ai suoi figli si permette di vivere con lei. Poi corrono altre voci: si dice che sei stato visto sgusciare all'alba da case infami ed entrare travestito nelle più sozze taverne di Londra. È vero? Può essere vero? La prima volta che le ho sentite, ne ho riso. Quando le sento adesso, mi fanno venire i brividi. E la tua casa di campagna e quello che succede laggiù? Dorian, non sai quello che si dice sul tuo conto. Non voglio dirti che non intendo farti una predica. Ricordo quel che Harry ha detto una volta: chiunque decida di fare per un po' il curato dilettante, comincia sempre col dire questa frase, e subito dopo rompe la promessa. Io voglio proprio farti una predica. Voglio che tu conduca una vita che ti permetta di essere rispettato da tutti. Voglio che il tuo nome e la tua reputazione siano senza macchia. Voglio che ti sbarazzi della gente orribile che ti sta intorno. Non alzare le spalle in questo modo, non essere così indifferente. Tu hai una straordinaria influenza: fa che spinga al bene e non al male. Dicono che tu corrompa tutti coloro che divengono tuoi intimi amici e che basta che tu entri in una casa, perché ne segua qualche cosa di vergognoso. Non so se è vero o no. Come potrei saperlo? Ma queste sono le voci che circolano sul tuo conto. Mi hanno detto cose di cui sembra impossibile dubitare. Lord Gloucester era uno dei miei migliori amici a Oxford. Mi ha fatto vedere una lettera che gli ha scritto sua moglie quando era in fin di vita, sola, nella sua villa di Mentone. Nella più terribile confessione che io abbia mai letto era coinvolto il tuo nome. Gli dissi che era assurdo, che ti conoscevo a fondo e che non saresti stato capace di cose simili. Conoscerti? Mi domando se ti conosco. Prima di poter rispondere dovrei vedere la tua anima."
"Vedere la mia anima!" balbettò Dorian Gray balzando in piedi bianco di paura.
"Sì," rispose gravemente Hallward, con un tono di profonda sofferenza nella voce, "vedere la tua anima. Ma solo Dio può farlo."
Un'amara risata di scherno eruppe dalle labbra di Dorian Gray. "La vedrai tu stesso. Stasera!" esclamò afferrando una lampada sul tavolo. "Andiamo: l'hanno fatta le tue mani. Perché non dovresti vederla? Dopo, se vorrai, potrai raccontarlo a tutti. Nessuno ti crederà. E se ti credessero piacerai loro ancor di più. Conosco la nostra epoca meglio di te, anche se tu ne vai cianciando in modo così noioso. Vieni, ti dico. Hai parlato abbastanza di corruzione: adesso la guarderai in faccia."
In ogni parola pronunciata c'era la follia dell'orgoglio. Pestò un piede a terra in quel suo modo insolente e infantile. Provava una gioia terribile al pensiero che un altro avrebbe diviso il suo segreto e che l'autore del ritratto all'origine di tutta la sua vergogna avrebbe portato per il resto della vita l'ignobile ricordo di quel che aveva fatto.
"Sì," proseguì venendogli vicino e guardandolo fisso negli occhi severi, "ti farò vedere la mia anima. Vedrai quello che, a tuo avviso, solo Dio può vedere."
Hallward arretrò. "Questa è una bestemmia, Dorian!" gridò. "Non devi dire cose simili. Sono orribili e non significano niente."
"Lo credi davvero?" disse e rise nuovamente.
"Ne sono certo. E per quanto riguarda le cose che ti ho detto stasera, le ho dette per il tuo bene. Sai che sono sempre stato un amico leale."
"Non toccarmi. Finisci quel che hai da dire."
Un lampo contorto di sofferenza passò sul viso del pittore. Tacque per un momento e un profondo senso di pietà lo assalì. Dopotutto che diritto aveva di spiare nella vita di Dorian Gray? Se aveva commesso solo un decimo di quello che si raccontava, quanto doveva aver sofferto! Poi si raddrizzò, si diresse verso il caminetto, e rimase immobile a guardare i ceppi ardenti, coperti da una brina di cenere e da palpitanti cuori di fiamma.
"Sto aspettando, Basil," disse il giovane con voce chiara e dura.
Basil si voltò. "Quel che ho da dire è questo," esclamò. "Devi rispondere in qualche modo alle terribili accuse che ti si fanno. Se mi dici che sono assolutamente false, dalla prima all'ultima, ti crederò. Negale, Dorian, negale! Non vedi cosa sto passando? Mio Dio! Non dirmi che sei malvagio, corrotto, infame."
Dorian Gray sorrise. Le labbra erano piegate in un'espressione sprezzante. "Vieni di sopra, Basil," disse con voce tranquilla, "tengo un diario della mia vita, giorno per giorno: non esce mai dalla stanza in cui viene scritto. Te lo farò vedere se vieni con me."
"Verrò, Dorian, se lo desideri. Vedo che ho perso il treno. Non importa, posso partire domani. Ma non chiedermi di leggere nulla, stasera. Voglio solo una semplice risposta alla mia domanda."
"Ti verrà data di sopra. Non posso dartela qui.
XIII
Uscì dalla stanza e cominciò a salire; Basil Hallward lo seguiva da vicino. Camminavano adagio, come si fa istintivamente di notte. La lampada gettava ombre fantastiche sul muro e sulle scale. Un soffio di vento fece vibrare rumorosamente qualche finestra.
Giunti all'ultimo pianerottolo, Dorian posò la lampada sul pavimento e, presa la chiave, la girò nella serratura. "Vuoi proprio sapere, Basil?" domandò a bassa voce.
"Sì."
"Ne sono felice," assentì sorridendo. Poi aggiunse, con una certa asprezza: "Sei l'unica persona al mondo che abbia il diritto di sapere tutto di me. Nella mia vita hai avuto un'influenza maggiore di quello che pensi." Prese la lampada, aprì la porta ed entrò. Una fredda corrente d'aria li investì e, per un momento, la fiamma si ridusse a una scura lingua arancione. Rabbrividì. "Chiudi la porta," sussurro posando la lampada sul tavolo.
Hallward si guardò intorno perplesso. La stanza sembrava abbandonata da anni. Un arazzo fiammingo, un quadro coperto da un drappo, un vecchio cassone italiano, una libreria quasi vuota: non sembrava che ci fosse altro, salvo un tavolo e una sedia. Mentre Dorian Gray accendeva una candela mezzo consumata posta sulla mensola del caminetto, vide che tutto era coperto di polvere e che il tappeto era pieno di buchi. Un topo scappò con un guizzo dietro i pannelli che rivestivano le pareti. C'era un umido odore di muffa.
"Dunque credi che solo Dio possa vedere l'anima, Basil? Togli quel drappo e vedrai la mia."
La voce era fredda e crudele. "Sei pazzo, Dorian, oppure stai recitando," mormorò Hallward, accigliato.
"Non vuoi? Allora lo farò io," disse il giovane. Strappò il drappo dalla bacchetta e lo lasciò cadere sul pavimento.
Un grido di orrore sfuggì dalle labbra del pittore appena vide, sotto la debole luce, il volto orrendo che gli ghignava dalla tela. C'era in quell'espressione qualche cosa che lo riempiva di nausea e di disgusto. Santo cielo! Stava guardando il volto di Dorian Gray! Qualche cosa di orrendo, qualunque ne fosse la causa, non aveva ancora completamente distrutto la sua meravigliosa bellezza. C'era ancora dell'oro nei capelli radi e un'ombra scarlatta sulle labbra sensuali. Gli occhi acquosi avevano mantenuto un poco del loro bel colore azzurro, le curve perfette non avevano ancora abbandonato le narici cesellate e il collo scultoreo. Sì, era proprio Dorian. Ma chi lo aveva dipinto? Gli parve di riconoscere la sua tecnica e anche la cornice era quella che lui aveva disegnato. L'idea era assurda, ma gli faceva ugualmente paura. Afferrò la candela accesa e la avvicinò al quadro. Nell'angolo sinistro c'era il suo nome tracciato a lunghe lettere di vermiglio brillante.
Era una sconcia parodia, una satira ignobile e infame. Non aveva mai fatto nulla di simile. E tuttavia il quadro era suo. Lo riconobbe e gli parve che, in un attimo, il sangue gli si fosse tramutato da fuoco in una densa poltiglia di ghiaccio. Il suo quadro? Che cosa significava questo? Perché si era alterato? Si voltò e fissò Dorian Gray con uno sguardo nauseato. Le labbra gli tremavano e gli pareva che la lingua arida non riuscisse più ad articolare parola. Si passò una mano sulla fronte: era madida di un sudore viscido.
Il giovane era appoggiato alla mensola del caminetto e lo osservava con quella strana espressione che si nota sul viso di chi è avvinto da uno spettacolo nel momento in cui recita un grande artista. Non sembrava né vera gioia né vero dolore: solo la passione dello spettatore e, forse, negli occhi, un bagliore di trionfo. Aveva tolto il fiore dalla giacca e lo odorava, o fingeva di farlo.
"Che cosa significa?" gridò infine Hallward. La sua stessa voce gli suonò strana e stridula all'orecchio.
"Anni fa, quando ero ragazzo," disse Dorian Gray, stritolando il fiore tra le dita, "mi hai incontrato, mi hai colmato di adulazioni e mi hai insegnato a essere vanitoso della mia bellezza. Un giorno mi presentasti un amico che mi spiegò il prodigio della giovinezza e finisti il ritratto che mi rivelò il prodigio della bellezza. In un momento di follia, che persino ora non so se rimpiangere o meno, espressi un desiderio; forse tu lo chiameresti una preghiera..."
"Ricordo! Oh, come me ne ricordo bene! No! È impossibile. La stanza è umida, la muffa ha aggredito la tela. I colori che ho usato contenevano qualche disgraziata sostanza velenosa. Ti dico che è impossibile."
"Ah, che cosa è impossibile?" mormorò il giovane, andando alla finestra e appoggiando la fronte al vetro appannato.
"Mi hai detto che lo avevi distrutto."
"Sbagliavo: ha distrutto me."
"Non credo che sia il mio quadro."
"Non riesci a vederci il tuo ideale?" disse Dorian con voce amara.
"Il mio ideale, come tu lo chiami..."
"Come tu lo chiamavi."
"Non aveva in sé nulla di malvagio, nulla di vergognoso. Tu per me rappresentavi un ideale che non troverò mai più. Questo è il volto di un satiro."
"È il volto della mia anima."
"Cristo! Che cosa devo avere adorato! Ha gli occhi di Un demonio."
"In ciascuno di noi, sono presenti l'inferno e il paradiso, Basil," esclamò Dorian con un gesto incontrollato di disperazione.
Hallward si voltò di nuovo verso il quadro e lo esaminò. "Mio Dio, se tutto questo è vero," esclamò, "e se questo è ciò che hai fatto della tua vita, allora devi essere anche peggiore di quel che immagina chi parla male di te!" Sollevò ancora la candela, avvicinandola alla tela, ed esaminò il dipinto. La superficie pareva intatta, come quando l'aveva finita. Evidentemente quella vergogna e quell'orrore venivano dall'interno. Per un singolare moto di vita interiore la lebbra del peccato stava lentamente mangiandosi il quadro. La putrefazione di un cadavere in una tomba piena d'acqua non era così spaventosa.
La mano gli tremò, la candela cadde dal bocciolo arrestandosi sul pavimento con un crepitio. Hallward la premette sotto il piede e la spense. Poi si lasciò cadere nella sedia traballante accanto al tavolo e seppellì il viso tra le mani.
"Buon Dio, Dorian, che lezione! Che tremenda lezione!" Non ottenne risposta, ma sentiva il giovane singhiozzare accanto alla finestra. "Prega, Dorian, prega," mormorò. "Che cosa ci hanno insegnato a dire durante l'infanzia? "Non indurci in tentazione, perdona le nostre colpe e liberaci dal male." Ripetiamolo insieme. La preghiera del tuo orgoglio è stata ascoltata. Sarà ascoltata anche la preghiera del tuo pentimento. Ti ho adorato troppo, e tutti e due siamo stati puniti."
Dorian Gray si voltò lentamente e lo guardò con occhi bagnati di lacrime. "È troppo tardi, Basil," disse balbettando.
"Non è mai troppo tardi, Dorian. Inginocchiamoci e cerchiamo di ricordare una preghiera. Non c'è un verso che dice, "anche se i tuoi peccati sono scarlatti, io li renderò bianchi come neve"?"
"Queste parole non significano più nulla per me."
"Zitto! Non dire queste cose. Hai fatto abbastanza male nella vita. Mio Dio! Non vedi quella maledetta cosa che ci guarda?"
Dorian Gray lanciò un'occhiata al quadro e improvvisamente fu assalito da un incontrollabile sentimento di odio nei confronti di Basil Hallward, come se glielo avesse suggerito l'immagine sulla tela, come se glielo avessero sussurrato quelle labbra ghignanti. Sentì agitarsi dentro di sé la selvaggia emozione di un animale inseguito e odiò l'uomo seduto al tavolo come non aveva mai odiato nessuno. Si guardò intorno con una luce selvaggia nello sguardo. Qualche cosa riluceva sul cassettone dipinto che aveva di fronte. L'occhio vi cadde sopra. Sapeva che cosa era. Era un coltello che, qualche giorno prima, aveva preso con sé per tagliare un pezzo di spago, dimenticando poi di riportarlo via. Vi si avvicinò lentamente, passando accanto a Basil. Appena fu giunto alle sue spalle, lo afferrò e si voltò. Hallward si mosse sulla sedia come se volesse alzarsi. Dorian Gray si precipitò su di lui e piantò il coltello nella grossa vena dietro l'orecchio, premendogli la testa sul tavolo e colpendolo ancora ripetutamente.
Si udì un rantolo soffocato e l'orribile gorgoglio di un uomo che soffoca nel sangue. Per tre volte Hallward alzò le braccia tese, agitando grottescamente le mani irrigidite. Lo colpì altre due volte, ma l'uomo non si mosse. Qualche cosa cominciò a gocciolare sul pavimento. Attese un momento sempre tenendo la testa premuta sul tavolo. Poi gettò il coltello sul tavolo e ascoltò.
Sentiva solo lo stillicidio del sangue sul tappeto logoro. Aprì la porta e uscì sul pianerottolo. La casa era del tutto tranquilla. Non si sentiva nessuno. Rimase qualche secondo chino sulla balaustra scrutando nel nero pozzo di oscurità ribollente. Poi tolse la chiave dalla serratura, ritornò nella stanza e vi si chiuse.
La cosa era sempre seduta sulla sedia, distesa sul tavolo a testa china, la schiena curva e le lunghe braccia irreali. Se non fosse stato per lo squarcio rosso e slabbrato sul collo e per la chiazza nera e grumosa che si allargava lentamente sul tavolo, si sarebbe detto che l'uomo dormisse semplicemente.
Come era successo tutto in fretta! Si sentiva stranamente calmo e, avvicinatosi alla finestra, la aprì e uscì sul balcone. Il vento aveva disperso la nebbia e il cielo era simile a un'enorme coda di pavone, costellata da miriadi di occhi d'oro. Guardò in basso e vide il poliziotto di ronda dirigere il lungo raggio della lanterna sulle porte delle case silenziose. La macchia cremisi di una carrozza in cerca di clienti luccicò all'angolo, poi scomparve. Una donna avvolta in uno scialle svolazzante scivolava lentamente, barcollando, vicino alla cancellata; ogni tanto si fermava e si guardava alle spalle. Poi cominciò a cantare con voce rauca. Il poliziotto le si avvicinò e le disse qualche cosa. Lei si allontanò a passi incerti, ridendo. Una fredda folata di vento spazzò la piazza. Le fiamme dei lampioni a gas tremolarono e assunsero un colore blu, gli alberi spogli agitarono i rami di nero acciaio. Rientrò rabbrividendo e chiuse la finestra dietro di sé.
Giunto alla porta, girò la chiave e aprì. Non lanciò neppure un'occhiata all'uomo assassinato. Sentiva che il segreto stava nel non rendersi conto della situazione L'amico, che aveva dipinto quel fatale ritratto responsabile di tutte le sue miserie era uscito dalla sua vita. Questo bastava.
Poi ricordò la lampada. Era un singolare esempio di artigianato moresco, in argento massiccio intarsiato con arabeschi di acciaio brunito e tempestato di turchesi grezze. Forse il cameriere ne avrebbe notato la mancanza e avrebbe fatto delle domande. Esitò un attimo, poi tornò indietro e la prese dal tavolo. Non poté fare a meno di vedere la cosa morta. Com'era immobile! E quelle lunghe mani orribilmente pallide! Assomigliava ad una spaventosa figura di cera.
Dopo aver chiuso la porta alle sue spalle, scese cautamente. Il legno scricchiolava e pareva emettere gemiti di sofferenza. Si fermò diverse volte e attese. No: tutto era tranquillo. Era solo il rumore dei suoi passi.
Quando fu nella biblioteca, vide in un angolo la borsa ed il soprabito. Bisognava nasconderli. Aprì un ripostiglio segreto nel rivestimento a pannelli, dove teneva nascosti i suoi strani travestimenti, e li ripose. Poi estrasse l'orologio: erano le due meno venti.
Sedette e cominciò a pensare. Tutti gli anni, quasi ogni mese, in Inghilterra venivano impiccati uomini per avere commesso quello che lui aveva fatto. Era passata nell'aria una follia omicida? Forse qualche stella rossa era passata troppo vicino alla terra... E tuttavia quali erano le prove contro di lui? Basil Hallward aveva lasciato la casa alle undici. Nessuno lo aveva visto rientrare. Quasi tutti i domestici erano a Selby Royal. Il suo cameriere era andato a letto... Parigi! Sì, Basil era andato a Parigi con il treno di mezzanotte, come aveva deciso. Con le sue strane abitudini riservate, sarebbero passati mesi prima che nascessero sospetti. Mesi! Era possibile distruggere tutto molto prima.
Un'idea improvvisa lo colpì. Indossò la pelliccia e il cappello e uscì nel vestibolo. Qui si fermò, sentendo il passo lento e pesante del poliziotto sul lastricato all'esterno e vedendo il raggio della lanterna cieca riflettersi nelle finestre. Attese trattenendo il respiro.
Pochi momenti dopo, aprì il chiavistello e scivolò fuori chiudendo delicatamente la porta alle sue spalle. Poi cominciò a suonare il campanello. Circa cinque minuti dopo il suo cameriere apparve, semivestito e molto assonnato.
"Mi dispiace di averti fatto alzare, Francis," disse, entrando, "ma ho dimenticato la chiave. Che ora è?"
"Le due e dieci, signore," rispose il cameriere, guardando l'orologio e socchiudendo gli occhi.
"Le due e dieci. È terribilmente tardi. Devi svegliarmi domani alle nove. Ho alcune cose da fare."
"Benissimo, signore."
"Mi ha cercato qualcuno, questa sera?"
"Il signor Hallward, signore. È rimasto qui fino alle undici, poi è andato a prendere il treno."
"Oh, mi dispiace di non averlo visto. Ha lasciato detto qualche cosa?"
"No, signore, solo che le avrebbe scritto da Parigi se non l'avesse trovata al club."
"Va bene, Francis. Non dimenticare di svegliarmi alle nove."
"No, signore"
L'uomo si allontanò lungo il corridoio ciabattando.
Dorian Gray gettò sul tavolo pelliccia e cappello ed entrò in biblioteca. Per un quarto d'ora camminò avanti e indietro nella stanza, mordendosi le labbra e riflettendo. Poi da uno degli scaffali prese il libro azzurro e cominciò a sfogliarlo. "Alan Campbell, 152 Hertford Street, Mayfair". Sì, questo era l'uomo di cui aveva bisogno.
XIV
Il mattino dopo, alle nove, il cameriere entrò con una tazza di cioccolata su un vassoio e aprì le imposte. Dorian dormiva pacificamente sul fianco destro, con una mano sotto la guancia. Sembrava un ragazzo che si fosse stancato giocando o studiando.
Il cameriere dovette toccarlo due volte sulla spalla prima che si svegliasse. Mentre apriva gli occhi, un debole sorriso gli sfiorò le labbra, come se si fosse smarrito in un sogno delizioso. In realtà non aveva sognato affatto. La notte non era stata turbata da immagini di piacere o di dolore. Ma la gioventù sorride senza motivo: è una delle sue principali attrattive.
Si voltò e, appoggiandosi sul gomito, cominciò a sorseggiare la cioccolata. Il dolce sole di novembre inondava la stanza. Il cielo era limpido e nell'aria c'era un piacevole tepore. Pareva quasi un mattino di maggio.
Un poco alla volta gli eventi della notte precedente si insinuarono nella sua mente con piedi bagnati di sangue e, pezzo a pezzo, ripresero forma, terribilmente precisi. Trasalì, ricordando quanto aveva sofferto, e per un momento tornò in lui quello strano sentimento di odio per Basil Hallward che lo aveva spinto a ucciderlo mentre era là seduto. Si sentì raggelare dall'emozione. Il morto era ancora là, sulla sedia, nella luce del sole. Che cosa orribile! Queste orribili cose erano fatte per la notte, non per il giorno.
Sentì che, se avesse continuato a rimuginare su quello che aveva passato, si sarebbe sentito male o sarebbe impazzito. Vi sono peccati il cui fascino sta più nel ricordo che nell'atto; strane vittorie che gratificano più l'orgoglio che le passioni e che danno all'intelletto un più vivo senso di piacere, superiore a qualunque piacere esse diano, o possano dare, ai sensi. Ma questo era diverso, era una cosa da scacciare dalla mente, da addormentare con l'oppio, da soffocare per non venirne soffocati.
Quando batté la mezza, si passò una mano sulla fronte, si alzò in fretta e si vestì con più cura del solito, scegliendo con molta attenzione la cravatta e la spilla e cambiando più volte gli anelli. Indugiò anche sulla colazione, assaggiando i vari piatti, parlando con il cameriere di certe nuove livree che intendeva far fare per la servitù di Selby e scorrendo la corrispondenza. Alcune lettere lo fecero sorridere, tre lo annoiarono, una la rilesse diverse volte e infine la strappò con una leggera espressione di fastidio. "Che cosa incredibile, la memoria di una donna!" come aveva detto una volta Lord Henry.
Dopo aver bevuto una tazza di caffè nero, si asciugò lentamente le labbra con un tovagliolo, ordinò con un cenno al cameriere di attendere, sedette alla scrivania e scrisse due lettere. Una la infilò in tasca, l'altra la consegnò al cameriere.
"Francis, portala al 152 di Hertford Street e, se il signor Campbell è fuori città, fatti dare il suo indirizzo."
Rimasto solo, accese una sigaretta e cominciò a fare degli schizzi su un foglio di carta, disegnando prima fiori, poi particolari architettonici, infine volti umani. Improvvisamente notò che ogni volto disegnato pareva avere un'incredibile rassomiglianza con Basil Hallward. Si accigliò e, alzatosi, si avvicinò a uno scaffale dove prese un libro a caso. Era deciso a non pensare all'accaduto finché non fosse assolutamente necessario.
Dopo essersi sdraiato sul divano, guardò il titolo del libro. Erano gli Émaux et Camées di Gauthier, nell'edizione Charpentier in carta giapponese con le acqueforti di Jacquemart. Era rilegato in pelle verde limone, con impresso un motivo di losanghe in oro e di melograni. Glielo aveva regalato Adrian Singleton. Mentre lo sfogliava, l'occhio gli cadde sulla poesia che parla della mano di Lacenaire, la fredda mano gialla "du supplice encore mal lavée", con la liscia peluria rossa e le "doigts de faune". Si guardò le bianche dita affusolate e, suo malgrado, rabbrividì. Passò oltre finché giunse a queste belle strofe su Venezia:
Sur une gamme chromatique
Le sein de perles ruisselant,
La Vénus de l'Adriatique,
Sort de l'eau son corps rose et blanc.
Les dômes, sur l'azur des ondes
Suivant la phrase au pur contour,
S'enflent comme des gorges rondes
Que soulève un soupir d'amour.
L'esquif aborde et me dépose
Jetant son amarre au pilier,
Devant une façade rose,
Sur le marbre d'un escalier.
Che versi squisiti! Leggendoli pareva di navigare lungo i verdi canali della città di rosa e di perla, seduti in una nera gondola dalla prua d'argento e dalle cortine fluttuanti. I singoli versi gli ricordavano quelle linee rette azzurro turchesi che ci seguono quando si prende il largo in direzione del Lido. Gli improvvisi lampi di colore gli ricordavano lo splendore degli uccelli dalla gola color dell'opale e dell'iris che frullano intorno all'alto campanile a forma di alveare, o che camminano con grazia così maestosa sotto gli archi scuri e polverosi. Disteso a occhi socchiusi, continuava a ripetere tra sé:
Devant une façade rose,
Sur le marbre d'un escalier.
Tutta Venezia era in questi due versi. Ricordò l'autunno che vi aveva passato e un amore meraviglioso che lo aveva spinto ad appassionate, deliziose follie. Lo spirito romantico si trova ovunque, ma Venezia, come Oxford, aveva conservato lo scenario, e per un romantico lo scenario è tutto, o quasi tutto. Basil era stato con lui per, un po' di tempo ed era impazzito per il Tintoretto. Povero Basil! Che morte orribile, la sua!
Sospirò, riprese in mano il libro e cercò di dimenticare. Lesse delle rondini che volano dentro e fuori dal piccolo caffè di Smirne, dove gli Hagi siedono sgranando i loro rosari di ambra e i mercanti in turbante fumano le lunghe pipe infiocchettate e parlano gravemente tra loro; lesse dell'obelisco di Place de la Concorde che piange lacrime di granito nel suo esilio solitario e senza sole e desidera ritornare sul caldo Nilo coperto di loto dove sono le sfingi, gli ibis rosso rosati, i bianchi avvoltoi dagli artigli d'oro e i coccodrilli dai piccoli occhi di berillo che strisciano sul verde fango fumante; cominciò a meditare su quei versi che, traendo musica dal marmo consunto dai baci, parlano della singolare statua da Gauthier paragonata a una voce di contralto: il "monstre charmant" che riposa nella camera di porfido del Louvre. Ma dopo un poco il libro gli cadde dalle mani. Si innervosì e fu colto da un tremendo accesso di terrore. Che cosa sarebbe successo se Alan Campbell non fosse stato in Inghilterra? Sarebbero trascorsi giorni prima che potesse ritornare. Forse avrebbe rifiutato di venire. Che cosa avrebbe potuto fare in questo caso? Ogni istante era di importanza vitale. Un tempo, cinque anni prima, erano stati grandi amici, quasi inseparabili. Poi la loro intimità era improvvisamente finita. Quando si incontravano in società solo Dorian Gray sorrideva: Alan Campbell mai.
Era un giovane estremamente intelligente, anche se non apprezzava veramente le arti figurative e quel poco di sensibilità estetica per la poesia lo aveva preso tutto da Dorian. La passione intellettuale che lo dominava era la scienza. A Cambridge, aveva trascorso la maggior parte del tempo nel lavoro di laboratorio e aveva ricevuto un ottimo punteggio nel concorso di scienze naturali del suo anno. Lo studio della chimica l'interessava ancora, e aveva un suo laboratorio nel quale era solito chiudersi per tutta la giornata con grande dispiacere della madre che sarebbe stata felice di vederlo presentarsi candidato al Parlamento e aveva la vaga idea che i chimici fossero una specie di farmacisti. Tuttavia, era anche un eccellente musicista e suonava il piano e il violino meglio di molti dilettanti. Proprio la musica li aveva avvicinati: la musica e quell'indefinibile attrazione che Dorian sembrava capace di esercitare quando voleva, e che infatti esercitava, spesso senza saperlo. Si erano incontrati da Lady Berkshire la sera in cui aveva suonato Rubinstein e da allora si erano visti sempre insieme all'Opera o ovunque si desse buona musica. La loro intimità era durata diciotto mesi. Campbell era sempre a Selby Royal o a Grosvenor Square. Per lui, come per altri, Dorian Gray era il modello di tutto ciò che vi è di meraviglioso e di affascinante nella vita. Nessuno seppe mai se tra loro fosse sorto un litigio o meno ma, improvvisamente, la gente cominciò a notare che, quando si incontravano, si parlavano appena e che Campbell pareva abbandonare presto ogni party in cui era presente Dorian Gray. Inoltre era cambiato: a volte era stranamente malinconico, sembrava quasi che non gli piacesse più ascoltare la musica. Non suonava più: quando lo pregavano di farlo si scusava dicendo che la scienza lo assorbiva a un punto tale che non aveva più tempo per tenersi in esercizio. Ed era certamente vero: sembrava interessarsi sempre di più alla biologia e qualche volta il suo nome appariva su riviste scientifiche a proposito di strani esperimenti.
Questo era l'uomo che Dorian Gray attendeva Ogni momento consultava l'orologio. Man mano che i minuti passavano la sua agitazione aumentava terribilmente. Alla fine si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza, come un bell'animale in gabbia. Camminava a passi lunghi e furtivi, le mani erano stranamente fredde.
L'attesa divenne insopportabile. Aveva l'impressione che il tempo avanzasse con i piedi di piombo, mentre ali mostruose lo sospingevano verso il bordo irregolare di una buia fenditura o di una voragine. Sapeva che cosa lo aspettava, anzi lo vedeva, e scosso da un tremito premette le mani sudate sulle palpebre ardenti, come se volesse rubare la vista alla sua stessa mente e schiacciare i bulbi oculari nelle orbite. Era inutile. La mente aveva un suo alimento che divorava avidamente e l'immaginazione, resa grottesca dal terrore, aggrovigliata e contorta come una creatura viva sofferente, danzava come un assurdo burattino con il ghigno di una maschera greca. Poi, improvvisamente, il tempo si fermò. Sì: quella cosa cieca, dal lento respiro, non strisciava più, era morta e gli orrendi pensieri corsero turbinando dinanzi a lui, estrassero dal suo sepolcro un futuro spaventoso e glielo mostrarono. Egli guardò e impietrì dall'orrore.
Finalmente la porta si aprì ed entrò il cameriere. Dorian portò su di lui uno sguardo vitreo.
"Il signor Campbell, signore," annunciò l'uomo.
Un sospiro di sollievo gli uscì dalle labbra secche e le guance ripresero colore.
"Fallo entrare subito, Francis." Si sentiva nuovamente se stesso: la crisi di paura era superata.
L'uomo fece un inchino e si ritirò. Pochi momenti dopo entrò Alan Campbell, pallido e con un'espressione di estrema severità. I capelli neri come il carbone e le sopracciglia scure ne accentuavano il pallore.
"Alan, sei stato molto gentile. Grazie per essere venuto."
"Avevo deciso di non entrare più in casa sua, Gray. Ma lei mi ha fatto dire che si trattava di una questione di vita o di morte." La voce era dura e fredda. Parlava lentamente, con decisione. Nel freddo sguardo indagatore che rivolse a Dorian Gray c'era un'espressione di disprezzo. Teneva le mani nelle tasche del cappotto di astrakan e sembrava non aver notato il gesto con cui era stato accolto.
"Sì, è una questione di vita o di morte, Alan, e per più di una persona. Siediti."
Campbell prese la sedia accanto alla tavola e Dorian sedette di fronte a lui. I loro occhi si incontrarono. In quelli di Dorian c'era un'infinità pietà. Sapeva che quello che stava per fare era spaventoso.
Dopo un prolungato silenzio, si chinò sul tavolo e disse, con molta tranquillità ma osservando l'effetto di ogni parola sul viso dell'uomo che aveva mandato a chiamare: "Alan, in una stanza chiusa, all'ultimo piano di questa casa, una stanza nella quale solo io posso entrare, c'è un morto seduto ad un tavolo. È morto da dieci ore, ormai. Non agitarti e non guardarmi in quel modo. Chi sia l'uomo, perché è morto, come è morto, non sono cose che ti interessano. Quello che tu devi fare è..."
"Basta, Gray. Non voglio sapere nient'altro. Se quello che lei ha detto è vero o no, non è cosa che mi riguarda. Rifiuto assolutamente di immischiarmi nella sua vita. Tenga per lei i suoi orribili segreti. Non mi interessano più."
"Devono interessarti, Alan. Questo dovrà interessarti. Sono terribilmente spiacente per te, Alan, ma non posso farne a meno: sei l'unico in grado di salvarmi. Sono costretto a coinvolgerti in questa faccenda, non ho scelta. Alan, tu sei uno scienziato, conosci la chimica e roba simile. Hai fatto esperimenti. Quel che devi fare è semplicemente distruggere la cosa che c'è di sopra, distruggerla in modo che non ne rimanga traccia. Nessuno l'ha visto entrare in questa casa. Anzi, in questo momento si pensa che sia a Parigi. La sua mancanza non verrà notata per mesi. Quando se ne accorgeranno, bisogna che qui non si trovi nessuna traccia di lui. Tu, Alan, devi trasformare lui e tutto ciò che gli appartiene in un pugno di cenere che io possa disperdere nell'aria."
"Sei pazzo, Dorian."
"Ah! Aspettavo che mi dessi del tu."
"Sei pazzo, ti dico... pazzo a immaginare che avrei sollevato un dito per aiutarti, pazzo a farmi questa mostruosa confessione. Non voglio aver nulla a che fare con questa faccenda, qualunque sia. Credi che voglia mettere in pericolo la mia reputazione per te? Che cosa mi importa di questa diabolica faccenda in cui ti sei cacciato?"
"È stato un suicidio, Alan."
"Me ne rallegro. Ma chi lo ha spinto a questo? Tu, immagino."
"Insisti nel rifiutare di fare quel che ti ho chiesto ?"
"Certo che rifiuto. Non voglio averci assolutamente nulla a che fare. Non mi importa nulla della vergogna che può venirtene. Te la meriti tutta. Non mi dispiacerebbe vederti disonorato, pubblicamente disonorato. Come osi chiedere a me, proprio a me, di immischiarmi in questa orribile cosa? Pensavo che tu conoscessi meglio il carattere umano. Il tuo amico Lord Henry Wotton non deve averti insegnato molto in fatto di psicologia, qualunque altro cosa possa averti insegnato. Nulla mi indurrà ad accennare un passo per aiutarti. Non hai scelto la persona adatta. Va' da qualcuno dei tuoi amici, non venire da me."
"Alan, è stato un assassinio. L'ho ucciso. Non immagini che cosa mi ha fatto soffrire. Quale che sia la mia vita, la sua responsabilità, nel farla o nel rovinarla, è stata molto maggiore di quella del povero Harry. Può darsi che non lo abbia voluto, ma il risultato è stato lo stesso."
"Un assassinio! Buon Dio, Dorian, sei arrivato a questo? Non ti denuncerò, la cosa non mi riguarda. Del resto, se non mi occupassi di questa faccenda ti arresterebbero certamente: nessuno commette un delitto senza fare qualche stupidaggine, ma io non voglio averci nulla a che fare."
"Devi averci a che fare. Aspetta un momento; ascoltami. Ascolta soltanto, Alan. Ti chiedo solo di compiere un certo esperimento scientifico. Tu entri negli ospedali e negli obitori e le cose orribili che fai là dentro non ti fanno nessun effetto. Se in qualche ripugnante sala di dissezione o in qualche fetido laboratorio, trovassi quest'uomo disteso su un tavolo di piombo con intorno dei canaletti rossi per far scorrere il sangue, ti limiteresti a ritenerlo un esemplare interessante. Non batteresti ciglio. Non penseresti affatto di fare qualche cosa di male. Al contrario, probabilmente avresti l'impressione di giovare alla specie umana, di aumentare la conoscenza del mondo, di gratificare la tua curiosità intellettuale, o qualche cosa di simile. Io ti chiedo solo di fare una cosa che hai fatto molte altre volte. Distruggere un cadavere deve essere molto meno orribile delle cose che sei solito fare. E, ricorda, è l'unica prova esistente contro di me. Se la scoprono, sono perduto, e verrò certamente scoperto se non mi aiuti."
"Non ho nessuna voglia di aiutarti, dimentichi questo. Tutta questa storia mi lascia semplicemente indifferente. Non mi riguarda affatto."
"Alan, ti supplico. Pensa alla situazione in cui mi trovo. Fino a un attimo prima che tu venissi, ero quasi svenuto di terrore. Un giorno potresti trovarti anche tu nella stessa situazione. No! Non pensare a questo. Cerca di vedere la cosa sotto l'aspetto puramente scientifico. Non ti chiedi da dove provengano i morti sui quali compi i tuoi esperimenti. Non domandartelo nemmeno ora. Ti ho già detto anche troppo. Ma ti prego di farlo. Una volta eravamo amici, Alan."
"Non parlare di quei tempi, Dorian: sono morti."
"A volte i morti se ne vanno in giro. L'uomo di sopra non se ne andrà. È seduto al tavolo con la testa reclinata e le braccia distese. Alan, Alan, se non mi vieni in aiuto sono rovinato. Pensa, mi impiccheranno, Alan! Non capisci? Mi impiccheranno per quel che ho fatto."
"È inutile tirare in lungo questa scena. Rifiuto assolutamente di occuparmi di questa faccenda. È pazzesco che tu me lo chieda."
"Ti rifiuti?"
"Sì."
"Te ne supplico, Alan."
"È inutile."
La stessa espressione di pietà ritornò negli occhi di Dorian Gray. Quindi allungò una mano, prese un pezzo di carta e vi scrisse qualche cosa. Lo lesse due volte, lo piegò con cura e lo spinse attraverso la tavola. Fatto questo, si alzò e andò alla finestra.
Campbell lo guardò sorpreso, poi prese il foglio e lo aprì. Mentre lo leggeva, sul volto gli apparve un pallore mortale. Ricadde a sedere e fu sopraffatto da un orribile senso di nausea. Aveva l'impressione che il cuore pulsasse fino a scoppiare in una vuota cavità.
Dopo un paio di minuti di terribile silenzio, Dorian si volse, gli si avvicinò e si fermò dietro di lui posandogli una mano sulla spalla.
"Mi dispiace moltissimo per te, Alan," mormorò, "ma non mi hai lasciato altra scelta. Ho già scritto una lettera: eccola. L'indirizzo lo vedi. Se non mi aiuti", sarò costretto a spedirla. Sai quali saranno le conseguenze. Ma tu mi aiuterai. Non puoi rifiutare, adesso. Ho cercato di risparmiarti. Sarai tanto onesto da ammetterlo. Sei stato severo, aspro, offensivo. Mi hai trattato come nessuno ha mai osato trattarmi... nessuno che sia vivo, almeno. Ho sopportato tutto. Adesso sono io a dettare le condizioni."
Campbell seppellì il volto tra le mani, scosso da un brivido.
"Sì, sono io a dettare le condizioni, Alan. Sai quali sono. La cosa è semplicissima. Avanti, non perdere il controllo dei nervi. La cosa deve essere fatta. Affrontala e falla."
Un gemito sfuggì dalle labbra di Campbell; un tremito lo scuoteva tutto. Il ticchettio dell'orologio sulla mensola del caminetto gli pareva dividesse il tempo in atomi separati di sofferenza, ognuno troppo spaventoso per essere sopportato. Gli parve che un anello di ferro gli si stringesse lentamente intorno alla fronte, come se la disgrazia che lo minacciava fosse già avvenuta. La mano sulla spalla pesava come se fosse di piombo. Era insostenibile, sembrava schiacciarlo.
"Avanti, Alan, devi decidere immediatamente."
"Non posso farlo," disse meccanicamente, come se le parole potessero modificare le cose.
"Devi. Non hai scelta. Non perdere tempo."
Campbell esitò un momento. "C'è del fuoco nella stanza?"
"Sì, una stufa a gas con il corpo di amianto."
"Devo andare a casa a prendere alcune cose in laboratorio."
"No, Alan, non devi lasciare questa casa. Scrivi su un foglio quello che ti occorre e il mio servo prenderà una carrozza e lo porterà qui."
Campbell scarabocchiò alcune righe, le asciugò con la carta assorbente e scrisse su una busta l'indirizzo del suo assistente. Dorian Gray prese il biglietto e lo lesse con attenzione. Poi suonò il campanello, consegnò la busta al cameriere, ordinandogli di tornare il più presto possibile, e di portare le cose con sé.
Quando la porta di casa si chiuse, Campbell ebbe uno scatto e, alzatosi, si diresse verso il caminetto. Tremava come se avesse un attacco di malaria. Per circa venti minuti nessuno dei due pronunciò parola. Una mosca ronzava fastidiosamente nella stanza e i battiti dell'orologio sembravano colpi di martello.
Quando la pendola suonò l'una, Campbell si voltò e, lanciando un'occhiata a Dorian Gray, vide che aveva gli occhi pieni di lacrime. Nella purezza e nella perfezione di quel volto triste c'era qualche cosa che lo fece arrabbiare. "Sei infame, assolutamente infame!" mormorò.
"Zitto, Alan: mi hai salvato la vita," disse Dorian.
"La vita? Santo cielo! Che razza di vita! Sei passato di corruzione in corruzione, e adesso culmini in un delitto. Facendo quel che stai per fare - che mi costringi a fare - non è alla tua vita che penso."
"Ah, Alan," mormorò Dorian con un sospiro, "vorrei che tu provassi per me un millesimo della pietà che io provo per te." Mentre pronunciava queste parole si voltò e rimase immobile, guardando fuori, nel giardino. Campbell non rispose.
Dopo circa dieci minuti si sentì bussare alla porta ed entrò il cameriere con una grande cassa di mogano piena di prodotti chimici, una lunga serpentina di acciaio, un rotolo di filo di platino e due morsetti di ferro di forma insolita.
"Devo lasciare tutto qui, signore?" domandò a Campbell.
"Sì," disse Dorian. "E temo di avere un'altra incombenza per te, Francis. Come si chiama quell'uomo di Richmond che fornisce le orchidee a Selby?"
"Harden, signore."
"Già, Harden. Devi andare subito a Richmond, parlargli personalmente, dirgli di mandare il doppio delle orchidee che ho ordinato, e di metterne il meno possibile di bianche. Anzi, di bianche non ne voglio. È una bella giornata, Francis, e Richmond è un bel posto, altrimenti non ti infastidirei con questa cosa."
"Nessun fastidio, signore. Per che ora devo tornare?"
Dorian guardò Campbell. "Quanto tempo ci vorrà per il tuo esperimento, Alan?" domandò con voce calma e indifferente. La presenza di una terza persona nella stanza sembrava dargli un coraggio straordinario.
Campbell aggrottò le sopracciglia e si morse un labbro. "Ci vorranno cinque ore circa," rispose.
"Allora, sarà sufficiente che tu sia di ritorno per le sette e mezzo, Francis. Anzi, aspetta: basta che tu tiri fuori il mio vestito da sera, poi sarai libero per tutta la serata. Non ceno a casa, quindi non avrò bisogno di te."
"Grazie, signore," disse l'uomo e uscì.
"Adesso, Alan, non c'è un momento da perdere. Com'è pesante questa cassa! Te la porto io. Tu prendi le altre cose." Parlava rapidamente, in tono autoritario. Campbell si sentiva soggiogato. Lasciarono insieme la stanza.
Quando furono giunti sul pianerottolo dell'ultimo piano, Dorian levò di tasca la chiave e la girò nella toppa. Poi si fermò e un'espressione turbata gli apparve negli occhi. Rabbrividì. "Non credo di poter entrare, Alan," mormorò.
"Non importa, non ho bisogno di te," disse Campbell freddamente.
Dorian socchiuse la porta. Nel farlo vide il viso ghignante del ritratto nella luce del sole. Sul pavimento, davanti ad esso, era ammucchiato il drappo che aveva strappato. Ricordò che la notte precedente, per la prima volta in vita sua, aveva dimenticato di nascondere la tela fatale. Stava per precipitarsi a farlo quando arretrò con un brivido.
Che cos'era quella disgustosa rugiada rossa che brillava, umida e lucente, su una delle mani, come se la tela sudasse sangue? Com'era terribile!... ancor più orribile, gli sembrò in quel momento, della cosa silenziosa che sapeva riversa sulla tavola, quella cosa la cui ombra, grottesca e informe sul tappeto macchiato, mostrava che non si era mossa ma era ancora lì, come l'aveva lasciata.
Trasse un profondo respiro, aprì un poco di più la porta e, con gli occhi semichiusi, distogliendo il viso, entrò rapidamente deciso a non posare nemmeno per un attimo gli occhi sul cadavere. Poi, chinatosi, afferrò il drappo e lo gettò sul quadro.
Si fermò, timoroso di voltarsi, con gli occhi fissi sul complicato ricamo che aveva davanti. Sentì Campbell trascinare all'interno la pesante cassa, i ferri e gli altri strumenti necessari per il suo terribile lavoro. Cominciò a chiedersi se lui e Basil Hallward si fossero mai conosciuti e che cosa pensassero l'uno dell'altro.
"Adesso lasciami," disse una voce severa alle sue spalle. Si voltò e uscì in fretta, appena consapevole del fatto che il morto era stato rialzato contro la sedia e che Campbell stava esaminandone il volto giallo e lucente. Mentre scendeva le scale sentì girare la chiave nella toppa.
Le sette erano passate da un pezzo quando Campbell ritornò in biblioteca. Era pallido, ma perfettamente calmo. "Ho fatto quello che mi hai chiesto," mormorò. "E adesso, addio. Facciamo in modo di non vederci più."
"Mi hai salvato dalla rovina, Alan. Non me ne dimenticherò," disse Dorian, semplicemente.
Appena Campbell fu uscito, salì di sopra. Nella stanza c'era un orribile odore di acido nitrico. Ma la cosa che era stata seduta al tavolo era scomparsa.
XV
Quella sera, alle otto e mezzo, Dorian Gray, elegantissimo e con un mazzetto di violette di Parma all'occhiello, entrò nel salotto di Lady Narborough tra gli inchini dei camerieri. Sulla fronte sentiva sussultare, i nervi impazziti e si sentiva in preda a un'eccitazione selvaggia, Ma mentre si chinava sulla mano della sua ospite, i suoi modi erano come sempre sciolti e pieni di grazia. Forse non ci si sente mai a proprio agio come quando si recita una parte. Certo quella sera nessuno, guardando Dorian Gray, avrebbe potuto credere che era appena uscito da una tragedia orribile, come tutte le tragedie del nostro tempo. Non era possibile che quelle dita sottili avessero afferrato un coltello per commettere un delitto, né che quelle labbra sorridenti avessero bestemmiato contro Dio e contro la bontà. Lui stesso non poteva fare a meno di meravigliarsi della propria calma e per un momento provò acutamente il piacere di vivere una doppia vita.
Al party c'era poca gente, messa insieme in fretta da Lady Narborough, una donna molto intelligente, dotata di quelli che Lord Henry era solito chiamare i resti di una bruttezza davvero notevole. Si era dimostrata moglie eccellente di uno dei nostri ambasciatori più noiosi e, dopo aver sepolto correttamente il marito in un mausoleo di marmo da lei stessa ideato, aveva maritato le figlie a degli uomini più ricchi e piuttosto anziani e si era data ai piaceri del romanzo francese, della cucina francese e dell'esprit francese, quando riusciva a capirlo.
Dorian era uno dei suoi favoriti: gli diceva sempre che era estremamente felice di non averlo incontrato in gioventù. "Sono sicura, mio caro, che mi sarei follemente innamorata di lei," era solita dire, "e per lei "avrei lasciato il cappello dietro il mulino". È stata una grande fortuna che, a quel tempo, lei non fosse nemmeno un'intenzione. Del resto, i nostri cappelli erano così brutti e i nostri mulini erano così occupati a far vento, che non ho mai avuto nemmeno un flirt. Comunque, è stata tutta colpa di Narborough. Era tremendamente miope e non c'è nessun gusto quando si ha un marito che non vede nulla."
Gli ospiti della serata erano piuttosto noiosi. Il fatto era, come spiegò a Dorian Gray dietro un ventaglio piuttosto male in arnese, che una delle figlie sposate era venuta improvvisamente a stare per qualche tempo con lei e, per peggiorare le cose, aveva portato il marito. "Credo proprio che sia stato poco gentile da parte sua, mio caro," sussurrò. "È vero che d'estate sono loro ospite quando ritorno da Homburg, ma dopotutto una vecchia come me deve prendere un po' d'aria fresca ogni tanto e d'altra parte li rianimo un po'. Non immagina che vita fanno laggiù. Pura e intatta vita di campagna. Si alzano presto perché hanno moltissimo da fare e vanno a letto presto perché hanno pochissimo da pensare. Non c'è stato uno scandalo nelle vicinanze dai tempi della regina Elisabetta e così si addormentano subito dopo pranzo. Non deve mettersi vicino a nessuno dei due, lei si metterà vicino, a me e mi farà divertire."
Dorian mormorò un complimento gentile e si guardò intorno. Sì, era proprio un party noioso. C'erano due ospiti che non aveva mai visto; gli altri erano Ernest Harrowden, una di quelle mediocrità di mezza età che sono così comuni nei club londinesi, privi di nemici, ma accuratamente antipatici agli amici; Lady Ruxton, una donna sui quarantasette vestita con troppo lusso, con il naso a becco, che cercava continuamente di compromettersi, ma così scialba che, con suo grande disappunto, nessuno avrebbe mai pensato qualcosa di male sul suo conto; la signora Erlynne, un'arrivista senza qualità, con una deliziosa balbuzie e i capelli rosso veneziano; Lady Alice Chapman, figlia dell'ospite, una ragazza ottusa e malvestita; con una di quelle caratteristiche facce britanniche che una volte viste non si ricordano mai più, e il marito, un essere rubizzo dalle basette bianche che, come molti della sua classe, pensava che una giovialità disordinata possa compensare un'assoluta mancanza di idee.
Era piuttosto pentito di essere venuto, quando Lady Narborough guardando il grande orologio di bronzo dorato, adagiato in ricche volute sulla mensola del camino coperta da un panno mauve, esclamò: "È indecente, da parte di Henry Wotton, arrivare così in ritardo! L'ho fatto avvertire stamattina sperando di trovarlo, e mi ha assicurato che non mi avrebbe delusa."
Il fatto che Henry dovesse arrivare lo consolò, e quindi, quando la porta si aprì e Dorian udì la voce lenta e musicale dare una veste affascinante a una falsa scusa, non si sentì più annoiato.
Ma a pranzo non riuscì a mangiare nulla. I Piatti passavano uno dopo l'altro senza che li toccasse. Lady Narborough continuava a sgridarlo per quello che chiamava "un insulto al povero Adolphe, che ha composto il menù apposta per lei" e, di tanto in tanto, Lord Henry gli lanciava un'occhiata, stupito del suo silenzio e dei suoi modi distratti. Ogni tanto il cameriere gli riempiva il bicchiere di champagne. Beveva avidamente ma la sete sembrava aumentare di continuo.
"Dorian," disse Lord Henry alla fine, mentre veniva servito lo chaud-froid, "che cosa ti succede, stasera? Mi sembri di pessimo umore."
"Credo che sia innamorato," esclamò Lady Narborough, "ma che abbia paura di dirmelo perché teme che io sia gelosa. Ha assolutamente ragione: lo sarei di certo."
"Cara Lady Narborough," mormorò Dorian sorridendo, "è da una settimana che non sono innamorato... da quando è partita Madame Ferrol."
"Mi domando come facciate, voi uomini, a innamorarvi di quella donna!" esclamò la vecchia signora. "Non riesco proprio a capirlo."
"Semplicemente, perché assomiglia a lei da bambina, Lady Narborough,", disse Lord Henry. "È l'unico legame che rimane tra noi e i suoi vestitini."
"Non ricorda proprio per niente i miei vestitini, Lord Henry. Ma la ricordo benissimo a Vienna trent'anni fa e ricordo anche l'ampiezza dei suoi décolletés."
"L'ampiezza c'è ancora," disse Lord Henry prendendo un'oliva con le lunghe dita; "e quando è molto elegante ricorda l'edition de luxe di un brutto romanzo francese. È davvero stupefacente e piena di sorprese. L'intensità dei suoi affetti familiari è straordinaria: quando morì il suo terzo marito divenne completamente bionda per il dispiacere."
"Henry, come puoi... !" esclamò Dorian Gray.
"È una spiegazione molto romantica," rise l'ospite. "Ma, il suo terzo marito, Lord Henry! Non vorrà dire che Ferrol è il quarto."
"Certo, Lady Narborough."
"Non ci credo assolutamente."
"Bene, lo chieda al signor Gray. È uno dei suoi più intimi amici."
"È vero, signor Gray?"
"Me lo ha assicurato lei, Lady Narborough," disse Dorian. "Le ho domandato se, come Margherita di Navarra, aveva fatto imbalsamare i loro cuori e li aveva appesi alla cintura. Mi ha detto che non lo aveva fatto perché nessuno di loro aveva un cuore."
"Quattro mariti! Parola mia, questo si chiama trop de zèle."
"Trop d'audace, io le ho detto," disse Dorian Gray.
"Oh, Madame Ferrol è audace in tutto, mio caro. E che tipo è il marito? Non lo conosco."
"I mariti delle donne molto belle appartengono alla categoria dei criminali," disse Lord Henry sorseggiando il vino.
Lady Narborough lo colpì con il ventaglio. "Lord Henry, non mi sorprende affatto che il mondo dica che lei è estremamente maligno."
"Ma quale mondo?" domandò Lord Henry, alzando le sopracciglia. "Non può essere che l'altro mondo, dato che questo mondo ed io siamo in ottimi rapporti."
"Tutti quelli che conosco dicono che lei è molto maligno," esclamò la vecchia signora, scuotendo il capo.
Lord Henry prese per un momento un'aria seria. "È assolutamente mostruoso," disse alla fine, "il modo che ha oggi la gente di dire alle nostre spalle cose che sono assolutamente e completamente vere."
"Non è incorreggibile?" esclamò Dorian Gray, piegandosi sulla sedia.
"Lo spero," disse la sua ospite ridendo. "Ma davvero se tutti voi adorate Madame Ferrol in questo modo ridicolo, sarò costretta a sposarmi per essere di moda."
"Lei non si sposerà più, Lady Narborough," interruppe Lord Henry. "È troppo felice. Quando una donna si risposa lo fa perché detestava il primo marito. Quando si risposa un uomo, lo fa perché adorava la prima moglie. Le donne mettono alla prova la loro fortuna, gli uomini la mettono a repentaglio."
"Narborough non era perfetto," disse la vecchia signora.
"Se lo fosse stato, lei non l'avrebbe amato, mia cara," fu la risposta, "Le donne ci amano per i nostri difetti. Se ne abbiamo a sufficienza, ci perdonano tutto, persino l'intelligenza. Dopo aver detto queste cose, temo che lei non mi inviterà più a pranzo, Lady Narborough; comunque sono cose vere."
"Certo che sono cose vere, Lord Henry. Se noi donne non vi amassimo per i vostri difetti, che cosa sarebbe di tutti voi? Nessuno di voi si sposerebbe. Sareste una massa di disgraziati scapoli. Non è che con questo le cose cambierebbero molto: di questi tempi tutti gli uomini sposati vivono da scapoli e tutti gli scapoli da sposati."
"Fin de siècle," mormorò Lord Henry.
"Fin du globe," replicò la padrona di casa.
"Vorrei che fosse davvero fin du globe," disse Dorian con un sospiro. "La vita è una grande delusione."
"Ah, mio caro," disse Lady Narborough infilandosi i guanti, "non mi dica che ha esaurito la vita. Quando un uomo dice una cosa simile, si è sicuri che la vita ha esaurito lui. Lord Henry è molto maligno e a volte vorrei esserlo stata anch'io: ma lei è fatto per essere buono, ha l'aria di esserlo. Devo trovarle una bella moglie. Lord Henry, non pensa che il signor Gray dovrebbe sposarsi?"
"Glielo dico sempre, Lady Narborough," disse Lord Henry con un inchino.
"Bene, dobbiamo cercargli un partito conveniente. Stasera sfoglierò attentamente il Debrett e ne tirerò fuori una lista di tutte le giovani fanciulle desiderabili."
"Con le rispettive età, Lady Narborough?" domandò Dorian.
"Naturalmente, con le rispettive età, in edizione leggermente riveduta. Ma non bisogna agire frettolosamente. Voglio che sia quello che il Morning Post chiamerebbe un matrimonio ben assortito, e voglio che siate felici tutti e due."
"Quante assurdità si dicono sui matrimoni felici!" esclamò Lord Henry. "Un uomo può essere felice con qualsiasi donna, finché non ne è innamorato."
"Ah! Che cinico!" esclamò la vecchia signora, scostando la sedia e facendo un cenno a Lady Ruxton. "Deve ritornare presto a cena da me. Lei è veramente un tonico straordinario, molto meglio di quello che mi prescrive Sir Andrew. Deve dirmi chi le piacerebbe incontrare. Voglio che sia una riunione piacevolissima."
"Mi piacciono gli uomini che hanno un futuro e le donne che hanno un passato," rispose Lord Henry. "O pensate che sarebbe un party di sole sottane?"
"Temo di sì," rispose la donna ridendo e si alzò. "Mille scuse, mia cara Lady Ruxton," aggiunse. "Non mi ero accorta che non aveva finito la sigaretta."
"Non importa, Lady Narborough. Fumo troppo. Ho intenzione di controllarmi, in futuro."
"Non lo faccia, per favore, Lady Ruxton," disse Lord Henry. "La moderazione è fatale. L'abbastanza è cattivo come un pasto, il troppo è buono come un banchetto."
Lady Ruxton lo guardò interessata. "Deve venire qualche pomeriggio a casa mia a spiegarmelo, Lord Henry. Mi pare una teoria affascinante," mormorò e scivolò fuori dalla stanza.
"Adesso, cercate di non discutere troppo di quella vostra politica e di scandali," esclamò Lady Narborough dalla porta. "Altrimenti, di sopra litigheremo di sicuro."
Gli uomini risero e il signor Chapman si alzò solennemente, spostandosi da un estremo all'altro della tavola. Dorian Gray cambiò posto e andò a sedere accanto a Lord Henry. Il signor Chapman cominciò a parlare a voce alta della situazione alla Camera dei Comuni, dileggiando i suoi avversari. La parola doctrinaire, parola terrorizzante per una mente inglese, riappariva di tanto in tanto tra le sue esplosioni di risa. Un prefisso allitterativo serviva da ornamento alla sua retorica. Issò l'Union Jack sui pinnacoli del pensiero. L'ereditaria stupidità della razza - da lui giovialmente definita sano buonsenso inglese - venne presentata come il giusto baluardo della società.
Un sorriso incurvò le labbra di Lord Henry che si voltò verso Dorian osservandolo.
"Ti senti meglio, caro amico?" domandò. "A cena sembravi piuttosto di malumore."
"Sto benissimo, Harry. Sono stanco. Tutto qui."
"Ieri sera eri affascinante. La piccola duchessa ti è completamente devota. Mi ha detto che verrà a Selby."
"Mi ha promesso di venire il venti."
"Ci sarà anche Monmouth?"
"Oh, sì, Harry."
"È terribilmente noioso, per me, quasi quanto per lei. Lei è molto intelligente, troppo per una donna. Le manca il fascino indefinibile della debolezza. Sono i piedi d'argilla che valorizzano l'oro della statua. I suoi piedi sono molto graziosi, ma non sono d'argilla. Piedi di porcellana bianca, se vuoi. Sono passati attraverso il fuoco e quello che il fuoco non distrugge, indurisce. Ha avuto delle esperienze."
"Da quanto tempo è sposata?" domandò Dorian.
"Da un'eternità, mi ha detto. Credo da dieci anni, stando all'almanacco nobiliare, ma dieci anni con Monmouth devono essere un'eternità più un po' di tempo ancora. Chi saranno gli altri?"
"Oh, i Willoughby, Lord Rugby con la moglie, la nostra ospite, Geoffrey Clouston: il solito giro. Ho chiesto a Lord Grotrian di venire."
"Mi è simpatico," disse Lord Henry, "a moltissimi non lo è, ma io lo trovo piacevole. Si fa perdonare il fatto di essere qualche volta un po' troppo ben vestito, con quello di essere sempre troppo ben educato. È un tipo molto moderno."
"Non so se potrà venire, Harry. Forse dovrà andare a Montecarlo con il padre."
"Ah, che seccatura i parenti! Cerca di farlo venire. A proposito, Dorian, te ne sei scappato molto presto ieri sera, prima delle undici. Che cosa hai fatto dopo? Sei andato subito a casa?"
Dorian gli lanciò una rapida occhiata, accigliandosi. "No, Harry," disse alla fine, "sono stato fuori fino alle tre circa."
"Sei andato al club?"
"Sì," rispose. Poi si morse un labbro. "No, non intendevo questo, non sono stato al club. Sono andato in giro. Ho dimenticato cosa ho fatto... Come sei indiscreto, Harry! Vuoi sempre sapere che cosa fa la gente. Io cerco sempre di dimenticare quel che ho fatto. Sono rientrato alle due e mezzo, se vuoi sapere l'ora precisa. Avevo dimenticato la chiave a casa e ha dovuto aprirmi il mio cameriere. Se vuoi una testimonianza che appoggi la mia dichiarazione, puoi domandarglielo."
Lord Henry si strinse nelle spalle. "Mio caro amico, come se me ne importasse qualche cosa! Andiamo in salotto. Niente sherry, grazie, signor Chapman. Ti è successo qualche cosa, Dorian. Dimmi di che cosa si tratta. Questa sera non sei il solito."
"Non badare a me, Harry. Sono nervoso e di cattivo umore. Verrò a trovarti domani o dopo. Fa' le mie scuse a Lady Narborough. Non vengo di sopra, vado a casa. Devo andare a casa."
"D'accordo, Dorian. Penso che ti vedrò domani all'ora del tè. Ci sarà anche la duchessa."
"Cercherò di venire, Harry," disse Dorian lasciando la stanza. Mentre tornava a casa in carrozza si rese conto che il senso di terrore che credeva di aver soffocato, lo aveva nuovamente sopraffatto. Le domande casuali di Lord Henry per un momento gli avevano fatto perdere il controllo dei nervi e voleva averli saldi. Bisognava distruggere alcune cose pericolose. Rabbrividì: solo l'idea di toccarle gli dava un estremo fastidio.
Tuttavia era necessario. Se ne rese conto e, dopo aver chiuso a chiave la porta della biblioteca, aprì il ripostiglio segreto nel quale aveva nascosto il cappotto e la borsa di Basil Hallward. Nel caminetto ardeva un grande fuoco. Vi gettò un altro ceppo. L'odore della stoffa e del cuoio che bruciavano era orribile. Ci vollero tre quarti d'ora prima che tutto fosse consumato. Alla fine si sentì fiacco e nauseato. Accese alcune pastiglie algerine in un braciere di rame traforato e bagnò mani e fronte con fresco aceto muschiato.
Improvvisamente sussultò. Gli occhi assunsero una strana luminosità e si morse nervosamente il labbro inferiore. Tra due finestre c'era un grande stipo fiorentino di ebano intarsiato di avorio e lapislazzuli blu. Lo guardò come se fosse una cosa a un tempo affascinante e spaventosa, come se contenesse qualche cosa di cui fosse bramoso e, insieme, disgustato. Fu sopraffatto da una folle bramosia. Accese una sigaretta, poi la gettò via. Le palpebre si abbassarono finché le lunghe frange delle ciglia gli sfiorarono le guance. Ma continuava a fissare lo stipo. Alla fine si alzò dal divano dove era sdraiato, si avvicinò al mobile e toccò una molla nascosta. Un cassetto triangolare uscì lentamente. Le sue dita si avvicinarono istintivamente, vi entrarono, si chiusero su qualche cosa. Era una piccola scatola cinese di lacca nera e oro minutamente lavorata, i fianchi erano decorati a motivi ondulati; dalla scatoletta pendevano due cordoncini di seta, intrecciati con filo metallico terminanti in due cristalli rotondi. L'aprì. Conteneva una pasta verde, lucente come cera, dall'odore stranamente greve e persistente.
Esitò qualche istante, con un sorriso stranamente immobile sul volto. Poi, rabbrividì, sebbene nella stanza ci fosse un caldo terribile, si raddrizzò e guardò l'orologio. Mancavano venti minuti a mezzanotte. Rimise la scatoletta al suo posto, richiuse il cassetto e si trasferì in camera da letto.
A mezzanotte, mentre nell'aria nebbiosa vibravano rintocchi di bronzo, Dorian Gray indossò un abito modesto, mise una sciarpa al collo e scivolò silenziosamente fuori di casa. In Bond Street trovò una carrozza con un buon cavallo. La chiamò con un cenno e a bassa voce diede un indirizzo al vetturino.
L'uomo scosse il capo. "Troppo lontano per me," brontolò.
"Ecco una sovrana," disse Dorian. "Se va in fretta ne avrà un'altra."
"D'accordo, signore," disse l'uomo, "ci sarà entro un'ora." E, dopo aver intascato il prezzo della corsa, fece girare il cavallo e si avviò rapido verso il fiume.
XVI
Cominciò a cadere una pioggia fredda; i lampioni offuscati proiettavano una luce debole nella bruma mista a pioggia. I locali pubblici stavano chiudendo e gruppi indistinti di uomini e donne si andavano raccogliendo davanti agli ingressi. Da qualche bar provenivano orribili scoppi di risa. In altri, degli ubriachi si azzuffavano e gridavano.
Adagiato contro il fondo della carrozza, con il cappello abbassato sulla fronte, Dorian Gray osservava distrattamente la sordida vergogna della grande città e, di tanto in tanto, ripeteva tra sé le parole che Lord Henry gli aveva detto il primo giorno del loro incontro, "Curare l'anima con i sensi e i sensi con l'anima". Sì, questo era il segreto. Lo aveva sperimentato diverse volte, e adesso lo avrebbe sperimentato di nuovo. C'erano le fumerie d'oppio, dove si poteva comperare l'oblio, rifugi di orrore dove era possibile distruggere il ricordo di vecchi peccati con la follia di peccati nuovi.
La luna era sospesa in basso nel cielo, come un teschio giallo. Di tanto in tanto, una grossa nube informe allungava un lungo braccio nascondendola. I lampioni a gas si andavano facendo più rari e le strade più strette e buie. Ad un certo punto il vetturino sbagliò strada e fu costretto a ritornare indietro per mezzo miglio. Un velo di vapore saliva dal cavallo quando schizzava intorno a sé l'acqua delle pozzanghere. I finestrini laterali della carrozza erano appannati da una nebbia grigia.
"Curare l'anima con i sensi e i sensi con l'anima!" Come gli risuonavano nelle orecchie queste parole! Certo, la sua anima era mortalmente malata. Era proprio vero che i sensi potevano curarla? Era stato versato del sangue innocente. Come sarebbe stato possibile espiarlo? Ah! Non c'era espiazione per questo; ma se il perdono non era possibile, era ancora possibile dimenticare, e lui era deciso a farlo, ad annientare quella cosa, a schiacciarla come si schiaccia la vipera che ci ha morso. In realtà, che diritto aveva Basil di parlargli in quel modo? Chi l'aveva autorizzato a giudicare? Aveva detto cose spaventose, orribili, insopportabili.
La carrozza continuava ad avanzare lentamente e gli sembrava che rallentasse ad ogni passo. Alzò il divisorio e disse all'uomo di andare più in fretta. L'orribile fame d'oppio cominciava a roderlo. La gola gli bruciava e le mani delicate si torcevano nervosamente. In un gesto folle, colpì il cavallo con il bastone. Il vetturino rise e usò la frusta. Rispose a sua volta con una risata: l'uomo rimase in silenzio.
La via sembrava interminabile, le strade parevano la nera tela di un ragno enorme. La monotonia divenne insopportabile e, quando la nebbia cominciò a diventare più fitta, si sentì prendere dalla paura.
Passarono davanti a fornaci solitarie. Qui la nebbia era meno fitta e poté vedere gli strani forni a forma di bottiglia e le lingue di fuoco che ne uscivano, simili a ventagli arancione. Un cane abbaiò al loro passare e lontano nell'oscurità si sentì lo strido di un gabbiano vagante. Il cavallo inciampò in un solco, poi scartò e si lanciò al galoppo.
Dopo qualche tempo lasciarono la via di terra battuta e ripresero a sobbalzare su strade dal lastricato irregolare. Quasi tutte le finestre erano buie, ma, di tanto in tanto, ombre fantastiche si disegnavano in trasparenza contro le tende. Dorian le osservava con curiosità. Si muovevano come mostruose marionette e gesticolavano come creature vive. Le odiò. Una cupa ira gli gonfiava il cuore. Mentre svoltavano all'angolo di una strada, da una porta una donna gridò loro qualche cosa e due uomini rincorsero la carrozza per un centinaio di metri. Il conducente li colpì con la frusta.
Dicono che la passione costringa il pensiero in circoli viziosi. Certo, con una mostruosa iterazione, le labbra di Dorian Gray formavano e riformavano quelle sottili parole sull'anima e sui sensi, finché trovò in esse la piena espressione, per così dire, del suo stato d'animo, giustificando con l'approvazione dell'intelletto passioni che altrimenti lo avrebbero dominato. Da una cellula all'altra del cervello passò quell'unico pensiero e il selvaggio desiderio di vivere, il più terribile degli istinti umani, diede una nuova forza ai nervi e alle fibre tremanti. La bruttezza, che un tempo gli era stata odiosa perché rende le cose reali, adesso per la stessa ragione gli era cara. La bruttezza era l'unica realtà. Le risse volgari, i covi disgustosi, la cruda violenza della vita disordinata, persino la bassezza dei ladri e degli emarginati, nella loro intensa impressione di realtà erano più vividi di tutte le forme piene di grazia dell'arte, delle ombre sognanti del canto. Erano quel che gli era necessario per dimenticare. In tre giorni si sarebbe liberato.
Improvvisamente il conducente arrestò la vettura con uno strappo all'inizio di un vicolo buio. Oltre i tetti bassi e la lunga fila ineguale dei comignoli si levavano neri alberi di navi. Lembi di nebbia si aggrappavano ai pennoni come vele spettrali.
"È da queste parti, vero, signore?" domandò brusco il vetturino attraverso il divisorio.
Dorian si riscosse e si guardò attorno. "Va bene qui," disse. Scese in fretta, diede al vetturino la sovrana che gli aveva promesso e si diresse rapido verso le banchine. Di quando in quando appariva la lanterna di poppa di qualche grosso mercantile. La luce si rifletteva tremolando nelle pozzanghere. Un bagliore rosso proveniva da un vapore in partenza che stava rifornendosi di carbone. Il fondo viscido sembrava un incerato bagnato.
Si avviò in fretta verso sinistra, guardandosi ogni tanto alle spalle per vedere se lo seguiva qualcuno. Dopo sette o otto minuti arrivò davanti ad una casetta miserabile, stretta tra due fabbriche squallide. Una delle finestre in alto era illuminata. Si fermò e bussò in modo particolare.
Pochi istanti dopo udì dei passi nel corridoio e qualcuno tirò il catenaccio. La porta si aprì silenziosamente. Dorian entrò senza dire una parola alla figura acquattata e informe che si appiattì nell'ombra al suo passaggio. Il fondo del vestibolo era chiuso da una tenda verde che ondeggiò e fremette nel vento entrato con lui dalla strada. La scostò ed entrò in un locale lungo e basso che aveva l'aria di essere stata una sala da ballo di terz'ordine. Stridenti becchi a gas che si riflettevano offuscati e distorti negli specchi macchiati dalle mosche, erano allineati lungo le pareti. Dietro di essi erano posti dei riflettori di latta scanalata, sporchi di unto che proiettavano incerti circoli luminosi. Il pavimento era coperto di segatura color ocra a tratti ridotta a fango dal calpestio e macchiata da cerchi scuri dove era stato rovesciato del liquore. Alcuni malesi, accoccolati vicino a una piccola stufa a carbone, giocavano con tessere di osso, e parlavano mettendo in mostra i denti candidi. In un angolo, un marinaio era riverso su un tavolo con la testa nascosta tra le braccia; accanto al bancone dipinto a colori vistosi che teneva tutta una parete, due donne disfatte prendevano in giro un vecchio che si passava le mani sulle maniche della giacca con un'espressione di disgusto. "Crede di avere addosso delle formiche rosse," disse ridendo una delle donne mentre Dorian le passava accanto. L'uomo la guardò terrorizzato e cominciò a piagnucolare.
In fondo alla stanza c'era una scaletta che portava in una stanza debolmente illuminata. Mentre Dorian saliva in fretta i tre gradini traballanti, fu investito da un pesante odore di oppio. Trasse un profondo respiro e le narici fremettero di piacere. Appena entrato, un giovane dai capelli biondi e lisci che era chino su una lampada ad accendere una lunga pipa sottile, alzò lo sguardo verso di lui, e gli rivolse un esitante cenno di saluto.
"Tu qui, Adrian?" mormorò Dorian.
"Dove dovrei essere?" rispose l'altro in tono indifferente. "Nessuno degli amici mi rivolge più la parola."
"Pensavo che te ne fossi andato dall'Inghilterra."
"Darlington non intende fare nulla. Mio fratello mi ha pagato la cambiale, finalmente. Anche George non mi rivolge più la parola... ma non mi importa," aggiunse con un sospiro. "Finché c'è questa roba, non si ha bisogno di amici. Penso di averne avuti troppi."
Dorian rabbrividì e fece passare lo sguardo sugli esseri grotteschi che giacevano in pose incredibili sui materassi consunti. Lo affascinavano le membra contorte, le bocche spalancate, senza luce. Sapeva in quali strani paradisi stessero soffrendo e quali cupi inferni stessero insegnando loro il segreto di qualche nuovo piacere. Stavano meglio di lui. Lui era prigioniero del pensiero. La memoria, come, una terribile malattia, gli stava divorando l'anima. Di quando in quando, gli pareva di vedere gli occhi di Basil Hallward che lo fissavano. Tuttavia sentiva che non poteva rimanere: la presenza di Adrian Singleton lo turbava. Voleva essere in un posto dove nessuno lo conoscesse. Voleva sfuggire a se stesso.
"Vado nell'altro posto," disse, dopo un silenzio.
"Sulla banchina?."
"Sì."
"Ci troverai di certo quella gatta arrabbiata. Qui non la vogliono più, adesso."
Dorian scrollò le spalle. "Sono nauseato dalle donne innamorate di me. Le donne che odiano sono molto più, interessanti Inoltre, la roba è migliore là."
"La stessa, più o meno."
"A me piace di più. Vieni a bere qualche cosa. Devo bere qualche cosa."
"Non voglio nulla," mormorò il giovane.
"Non importa."
Adrian Singleton si sollevò a fatica e seguì Dorian Gray al bar. Un mezzosangue che portava un turbante consunto e un ulster male in arnese li accolse con un sorriso ripugnante, mentre posava davanti a loro una bottiglia di brandy e due bicchieri. Le donne si accostarono esitando e cominciarono a chiacchierare. Dorian voltò loro le spalle e disse qualche cosa a bassa voce ad Adrian Singleton.
Un sorriso contorto come un kriss malese passò come un tremito convulso sul viso di una delle donne.
"Siamo molto superbi, stasera," disse in tono di scherno.
"Per l'amor di Dio, piantala," esclamò Dorian Gray battendo il piede a terra. "Che cosa vuoi? Soldi? Eccoli. Ma stattene zitta."
Due lampi rossi balenarono per un momento negli occhi acquosi della donna, poi guizzarono via lasciandoli vitrei e privi di vita. La donna scosse il capo e prese i soldi dal banco con dita avide. La sua compagna la osservava con invidia.
"È inutile," sospirò Adrian Singleton. "Non mi importa di ritornare indietro. Che cosa significa? Qui sono felice."
"Mi scriverai, se avrai bisogno di qualche cosa, non è vero?" disse Dorian dopo un silenzio.
"Forse."
"Buona notte, allora.
"Buona notte," rispose il giovane risalendo gli scalini e passandosi il fazzoletto sulla bocca inaridita.
Dorian si diresse verso la porta con un'espressione di sofferenza in viso. Mentre scostava la tenda una disgustosa risata uscì dalle labbra rosse della donna che aveva preso i soldi. "Il Patto col Diavolo se ne va!" singhiozzò con voce rauca.
"Maledetta!" si rivoltò lui. "Non chiamarmi così."
La donna schioccò le dita. "Ti piacerebbe farti chiamare Principe Azzurro, vero?" gli gridò dietro.
A quelle parole il marinaio addormentato balzò in piedi e si guardò attorno con un'espressione selvaggia. Gli giunse alle orecchie il rumore della porta di ingresso che si chiudeva. Si precipitò fuori come se volesse inseguire qualcuno.
Dorian Gray si affrettava lungo la banchina sotto la pioggia sottile. L'incontro con Adrian Singleton lo aveva stranamente commosso e si chiedeva se fosse davvero sua la responsabilità di quella giovane vita distrutta, come aveva detto Basil Hallward con un tono così insultante. Si morse le labbra e, per un momento, una luce di tristezza gli si accese negli occhi. Sì, dopotutto, che cosa gliene importava? La vita era troppo breve per caricarsi sulle spalle anche gli errori degli altri. Ogni uomo vive la propria vita e paga il proprio prezzo per viverla. Peccato solo che così di frequente si dovesse pagare per un unico errore. In realtà, si paga molte e molte volte Nei suoi rapporti con gli uomini il destino non chiude mai conti..
Secondo gli psicologi ci sono momenti, in cui la passione per i peccati, o per quelli che il mondo chiama peccati, domina talmente una persona che ogni fibra del corpo, ogni cellula del cervello, paiono imbevute di impulsi di terrore. In questi momenti uomini e donne perdono la padronanza della volontà. Si muovono come automi verso la loro terribile fine. Non hanno più la facoltà di scelta e la coscienza è morta o, se è viva, lo è solo per dare alla ribellione il suo fascino, le sue attrattive alla disobbedienza. Tutti i peccati, infatti, come i teologi non si stancano di ripeterci, sono peccati di disobbedienza. Quando quello spirito superiore, quella stella mattutina del male, cadde dal cielo, fu perché si era ribellato.
Insensibile, concentrato nel male, con la mente guasta e l'anima assetata di ribellione, Dorian Gray si affrettava a passi sempre più veloci ma, mentre piegava sotto un portico buio che molte volte aveva usato come scorciatoia per raggiungere il luogo malfamato dove era diretto, si sentì afferrare improvvisamente alle spalle e, prima che avesse la possibilità di difendersi, venne spinto contro il muro e una mano brutale lo afferrò alla gola.
Lottò follemente per la sopravvivenza e, con uno sforzo terribile, riuscì a strappare le dita che lo attanagliavano. In un secondo udì lo scatto di una rivoltella, vide il bagliore di una canna lucida puntata diritta contro la sua testa, e la sagoma indistinta di un uomo basso e tarchiato che gli si parava davanti.
"Che cosa vuoi?" ansimò.
"Sta' calmo," disse l'uomo. "Se ti muovi ti sparo."
"Sei pazzo. Che cosa ti ho fatto?"
"Hai distrutto la vita di Sibyl Vane," fu la risposta; "e Sibyl Vane era mia sorella. Si è uccisa. Lo so. La sua morte è colpa tua.. Ho giurato che ti avrei ucciso. Ti ho cercato per anni. Non avevo tracce, non avevo indizi: le uniche due persone che ti conoscevano erano morte. Sapevo solo il soprannome che lei ti aveva dato. L'ho risentito questa sera per caso. Raccomanda l'anima a Dio, perché questa notte morirai."
Dorian si sentì prendere dal terrore. "Non l'ho mai conosciuta," balbettò. "Non l'ho mai sentita nominare. Sei pazzo."
"È meglio che tu confessi i tuoi peccati perché, quanto è vero che io sono James Vane, tu morirai." Ci fu un momento terribile. Dorian non sapeva che cosa dire o che cosa fare. "Inginocchiati!" gridò rauco l'uomo. "Ti do un minuto per dire le ultime preghiere. Non di più. Mi imbarco stanotte per l'India e prima devo sbrigare questa faccenda. Un minuto. È tutto."
Dorian Gray lasciò cadere le braccia. Paralizzato dal terrore, non sapeva che cosa fare. Improvvisamente una folle speranza gli attraversò la mente. "Fermati," gridò. "Da quando è morta tua sorella? Dimmelo, presto!"
"Da diciotto anni," disse l'uomo. "Perché me lo domandi? Che cosa contano gli anni?"
"Diciotto anni," rise Dorian Gray, con una nota di trionfo nella voce. "Diciotto anni! Portami sotto un fanale e guardami in faccia!"
James Vane esitò un attimo, senza capire. Poi afferrò Dorian Gray e lo trascinò fuori dal portico.
Nonostante la luce fosse incerta e indebolita dal vento, fu sufficiente per rivelare a James Vane il terribile equivoco, - almeno così pareva - nel quale era caduto, perché il viso dell'uomo che aveva cercato di uccidere aveva tutta la freschezza dell'adolescenza, tutta l'intatta purezza della giovinezza. Sembrava un ragazzo di poco più di vent'anni, appena più vecchio; forse, di sua sorella quando si erano separati, tanti anni prima. Era ovvio che non poteva essere questo l'uomo che aveva distrutto la sua vita.
Lasciò la stretta e arretrò. "Mio Dio, mio Dio!" esclamò, "ed io che stavo per ucciderti."
Dorian Gray trasse un lungo respiro. "Lei è stato sul punto di commettere un terribile delitto, amico," disse fissandolo con uno sguardo severo. "Che questo le serva da avvertimento a non cercare la vendetta con le proprie mani."
"Mi perdoni, signore," mormorò James Vane. "Sono stato ingannato. Una parola che ho sentito per caso in quella maledetta taverna mi ha messo su una pista sbagliata."
"Farebbe meglio ad andare a casa e a mettere via quella pistola, se non vuole finire nei pasticci," disse Dorian voltandosi e incamminandosi lentamente lungo la via.
James Vane rimase immobile, sconvolto.
Tremava da capo a piedi. Poco dopo, un'ombra nera che era strisciata lungo il muro grondante di pioggia, uscì sotto la luce e si avvicinò a lui cautamente. Sentì una mano posarglisi su un braccio e si guardò intorno sussultando. Era una delle donne che bevevano al bar.
"Perché non l'hai ucciso?" sibilò, avvicinando a lui il viso devastato. "Sapevo che gli stavi correndo dietro quando sei uscito da Daly. Stupido! Avresti dovuto ucciderlo. Ha un mucchio di soldi ed è cattivo come pochi."
"Non è l'uomo che cerco," rispose lui, "e non voglio i soldi di nessuno. Voglio la vita di un uomo. L'uomo che sto cercando deve essere sulla quarantina. Questo era poco più di un ragazzo. Grazie a Dio non mi sono sporcato le mani con il suo sangue."
La donna scoppiò in un'amara risata. "Poco più di un ragazzo!" disse in tono di scherno. "Sono quasi diciotto anni che il Principe Azzurro mi ha ridotta in questo stato."
"Tu menti!" gridò James Vane. La donna sollevò le braccia al cielo. "Giuro davanti a Dio che dico la verità," disse a voce alta.
"Davanti a Dio?"
"Che diventi muta se non è vero. È il peggiore tra tutti quelli che vengono qui. Dicono che si sia venduto al diavolo per conservare la sua bella faccia. Sono quasi diciannove anni che lo conosco e da allora non è cambiato molto. Io sì, invece," aggiunse con una smorfia di disgusto.
"Lo giuri?"
"Lo giuro," fu l'eco rauca che uscì da quella bocca avvilita. "Ma non, tradirmi," piagnucolò, "ho paura di lui. Dammi qualche cosa per andare a dormire."
James Vane si allontanò da lei bestemmiando e si precipitò all'angolo della strada, ma Dorian Gray era scomparso. Quando si guardò indietro, anche la donna era svanita.
XVII
Una settimana dopo, Dorian Gray, seduto nella serra di Selby Royal, conversava con la graziosa duchessa di Monmouth che, insieme al marito, un uomo sulla sessantina dall'aria affaticata, era tra i suoi ospiti. Era l'ora del tè e la luce morbida della grande lampada di merletto posta sopra la tavola accendeva le delicate porcellane e gli argenti battuti. La duchessa si era incaricata del servizio e le bianche mani si muovevano agilmente tra le tazze mentre le labbra, rosse e piene, sorridevano a qualche cosa che Dorian Gray le aveva sussurrato. Lord Henry, sdraiato in una sedia di vimini rivestita di seta, li guardava. Su un divano color pesca era seduta Lady Narborough che fingeva di ascoltare il duca, immerso nella descrizione dell'ultimo scarabeo brasiliano che aveva aggiunto alla sua collezione. Tre giovani in eleganti smoking servivano pasticcini ad alcune signore. La compagnia era composta da una dozzina di persone; se ne attendevano altre il giorno dopo.
"Di che cosa state parlando?" domandò Lord Henry avvicinandosi al tavolo e posando la tazza. "Spero che Dorian ti abbia parlato del mio progetto di ribattezzare tutto, Gladys. È una bellissima idea."
"Ma io non voglio essere ribattezzata, Henry," obiettò la duchessa, alzando su di lui due splendidi occhi.
"Sono soddisfattissima del mio nome, e sono sicura che il signor Gray è soddisfatto del suo."
"Mia cara Gladys, non vorrei cambiare né l'uno né l'altro per nulla al mondo. Sono perfetti. Mi riferivo soprattutto ai fiori. Ieri ho colto un'orchidea per metterla all'occhiello. Era splendidamente maculata, forte e viva come i sette peccati capitali. In un momento di distrazione ne chiesi il nome ad uno dei giardinieri. Mi disse che era un bell'esemplare di Robinsoniana, o qualche altro nome altrettanto orribile. È la triste verità, ma abbiamo perduto la capacità di dare bei nomi alle cose. I nomi sono tutto. Io non litigo mai con le azioni. Litigo solo con le parole. Per questo odio il realismo volgare nella letteratura. Chi chiama vanga una vanga dovrebbe essere costretto ad usarla. È l'unica cosa per cui è adatto."
"E allora come dovremmo chiamarti, Harry?"
"Il suo nome è Principe Paradosso," disse Dorian.
"Gli sta alla perfezione," esclamò la duchessa.
"Non ne voglio sapere," rise Lord Henry, sprofondando in una sedia. "A un'etichetta non c'è scampo! Rifiuto il titolo."
"I sovrani non possono abdicare," avvertirono le belle labbra.
"Allora vuoi che difenda il trono?"
"Sì."
"Io do le verità di domani."
"Preferisco gli errori di oggi," lei rispose.
"Tu mi disarmi, Gladys," esclamò lui cogliendo l'allusione.
"Del tuo scudo, Harry, non della tua spada."
"Non combatto mai contro la bellezza," disse lui con un gesto della mano.
"È qui che sbagli, Harry, credimi. Dai alla bellezza un valore troppo grande."
"Come puoi dire una cosa simile? Ammetto di ritenere che sia meglio essere belli che essere buoni ma, d'altra parte, nessuno è più pronto di me ad ammettere che è meglio essere buoni piuttosto che brutti."
"Allora la bruttezza è uno dei sette peccati capitali," esclamò la duchessa. "E che cosa succede del tuo paragone a proposito delle orchidee?"
"La bruttezza è una delle sette virtù mortali, Gladys. E tu, da buona conservatrice, non devi sottovalutarle. La birra, la Bibbia e le sette virtù mortali hanno ridotto la nostra Inghilterra nelle attuali condizioni.
"Allora non ti piace il tuo paese?" domandò.
"Ci vivo."
"Per poterlo criticare meglio."
"Vuoi che ti dica il parere dell'Europa?" domandò lui.
"Che cosa dicono di noi?"
"Che Tartufo è emigrato in Inghilterra e ha messo bottega."
"È tua, Harry?"
"Te la regalo."
"Non potrei usarla. È troppo vera."
"Non devi aver paura. I nostri compatrioti non riconoscono mai una descrizione."
"Sono pratici."
"Sono più furbi che pratici. Quando fanno il bilancio, contrappongono la stupidità alla ricchezza, e il vizio all'ipocrisia."
"Però abbiamo fatto grandi cose."
"Ce le hanno tirate addosso, Gladys."
"Ne abbiamo sopportato il peso."
"Solo fino alla Borsa."
Lei scosse il capo. "Credo nella razza," esclamò.
"La razza è solo la sopravvivenza degli arrivisti."
"Ha uno sviluppo."
"Mi interessa di più la decadenza."
"E l'arte?" domandò lei.
"È una malattia."
"L'amore?"
"Un'illusione."
"La religione?"
"Un surrogato alla moda della fede."
"Sei uno scettico."
"Niente affatto! Lo scetticismo è l'inizio della fede."
"Che cosa sei, allora?"
"Definire significa limitare."
"Dammi un filo da seguire."
"I fili si spezzano. Perderesti la strada nel labirinto."
"Mi disorienti. Parliamo di qualcun altro."
"Il nostro ospite è un soggetto piuttosto piacevole. Anni fa, fu battezzato Principe Azzurro."
"Ah, non ricordarmi queste cose," esclamò Dorian Gray.
"Il nostro ospite è un po' ispido stasera," notò la duchessa arrossendo. "Suppongo pensi che Monmouth mi abbia sposato esclusivamente per interesse scientifico, come il miglior esemplare di farfalla moderna che sia riuscito a trovare."
"Bene, spero che non la vorrà infilare con degli spilli, duchessa," disse Dorian, ridendo.
"Oh, lo fa già la mia cameriera quando è arrabbiata con me, signor Gray."
"E che cosa la fa arrabbiare con lei, duchessa?"
"Le cose più futili, signor Gray, le assicuro. Di solito perché arrivo alle nove meno dieci e le dico che devo essere vestita per le otto e mezzo."
"È davvero irragionevole. Dovrebbe farle una ramanzina."
"Non ne ho il coraggio, signor Gray. Sa, è lei che inventa i miei cappelli. Ricorda quello che portavo per il ricevimento all'aperto di Lady Hilstone? No, naturalmente. Ma è gentile da parte sua fingere di sì. Bene, l'ha messo insieme con niente. Tutti i bei cappelli sono fatti con niente."
"Come tutte le buone reputazioni, Gladys," interruppe Lord Henry. "Ogni volta che si ottiene un certo successo ci si fa un nemico. Per essere benvoluti da tutti bisogna essere mediocri."
"Non vale per le donne," disse la duchessa scuotendo il capo, "e sono le donne che governano il mondo. Le assicuro che non riusciamo a sopportare la mediocrità. Noi donne, come ha detto qualcuno, amiamo con le orecchie, proprio come voi uomini amate con gli occhi, se pure amate."
"A me pare che non facciamo nient'altro," mormorò Dorian.
"Ah, ma allora lei non ama veramente, signor Gray," replicò la duchessa in tono scherzosamente triste.
"Mia cara Gladys," esclamò Lord Henry. "Come puoi dirlo? Un idillio sentimentale vive ripetendosi e la ripetizione trasforma il desiderio in arte. Inoltre, ogni volta che si ama è l'unica volta. La diversità dell'oggetto non muta l'unicità della passione ma si limita a intensificarla. Nel migliore dei casi in tutta la vita si riesce ad avere una sola esperienza, e il segreto della vita sta nel ripeterla il più spesso possibile."
"Anche quando si è rimasti scottati, Lord Henry?" domandò la duchessa dopo una pausa di silenzio.
"Specialmente quando si è rimasti scottati," rispose Lord Henry.
La duchessa si voltò e guardò Dorian Gray con una strana espressione negli occhi. "Che cosa ne pensa, signor Gray?"
Dorian esitò un attimo. Poi gettò all'indietro la testa e rise. "Sono sempre d'accordo con Harry, duchessa."
"Anche quando sbaglia?"
"Henry non sbaglia mai."
"E la sua filosofia la rende felice?"
"Non ho mai cercato la felicità. Chi la vuole? Ho cercato il piacere."
"E lo ha trovato, signor Gray?"
"Spesso. Troppo spesso."
La duchessa sospirò. "Io cerco la pace," disse, "e se non vado a vestirmi, questa sera non ne avrò affatto."
"Lasci che le colga qualche orchidea, duchessa," disse Dorian balzando in piedi e allontanandosi nella serra.
"Stai flirtando con lui scandalosamente," disse Lord Henry alla cugina. "È meglio che tu stia attenta: è molto affascinante."
"Se non lo fosse, non ci sarebbe nessuna lotta."
"I greci contro i greci, allora?"
"Io sono dalla parte dei troiani. Hanno combattuto per una donna."
"Ma sono stati sconfitti."
"Ci sono cose peggiori della cattura," lei rispose.
"Stai galoppando a briglia sciolta."
"È l'andatura a determinare la vita," fu la risposta.
"Lo scriverò nel mio diario, questa sera."
"Che cosa?"
"Che un bambino scottato ama il fuoco."
"Non mi sono nemmeno bruciacchiata. Le ali sono intatte."
"Le usi per tutto, fuorché per volare."
"Il coraggio è passato dagli uomini alle donne. È una nuova esperienza per noi."
"Hai una rivale."
"Chi è?"
Lui rise. "Lady Narborough," sussurrò. "Lo adora."
"Mi metti in ansia. Il richiamo dell'antichità è fatale per noi romantiche."
"Romantiche! Avete tutti i metodi della scienza."
"Ci hanno educate gli uomini."
"Ma non vi hanno spiegate."
"Prova a definirci come sesso," lo sfidò.
"Sfingi senza segreti."
Lei lo guardò sorridendo. "Quanto tempo ci mette, il signor Gray!" disse. "Andiamo a dargli una mano. Non gli ho ancora detto il colore del mio vestito."
"Ah, ma devi intonare il vestito ai suoi fiori, Gladys."
"Sarebbe una resa prematura."
"L'arte romantica comincia dal punto culminante."
"Devo lasciarmi una via di ritirata."
"Alla maniera dei Parti?"
"Loro si salvarono nel deserto. Io non potrei farlo."
"Le donne non sempre hanno la possibilità di scelta," rispose, ma aveva appena finito la frase quando, dall'altra estremità della serra, giunse un gemito soffocato, seguito dal tonfo sordo di un corpo che cade pesantemente. Tutti balzarono in piedi. La duchessa era impietrita dal terrore. Con la paura negli occhi, Lord Henry si precipitò tra le palme alitanti e trovò Dorian Gray disteso con il volto contro il pavimento di mattoni, svenuto.
Venne immediatamente portato nel salotto azzurro e disteso su un divano. Dopo poco tempo rinvenne e si guardò intorno con un'espressione inebetita.
"Che cosa è successo?" domandò. "Oh! ricordo. Sono al sicuro qui?" Cominciò a tremare.
"Mio caro Dorian," rispose Lord Henry, "sei semplicemente svenuto, tutto qui. Devi esserti stancato troppo. È meglio che tu non scenda a cena. Prenderò io il tuo posto."
"No, scenderò," disse Dorian rimettendosi in piedi. "Preferisco scendere. Non devo stare solo."
Salì in camera sua e si vestì. A tavola fu di un'allegria sfrenata e noncurante, ma ogni tanto lo scuoteva un fremito di terrore quando ricordava di aver visto, premuto contro il vetro della serra come un fazzoletto bianco, il viso di James Vane che lo fissava.
XVIII
Il giorno dopo non uscì di casa ma passò quasi tutto il tempo nella sua stanza, in preda ad una folle paura della morte e tuttavia indifferente alla vita. Cominciava a dominarlo la consapevolezza di essere cacciato, spiato, preso. Sussultava se il vento muoveva appena una tenda. Le foglie morte che urtavano i vetri piombati gli sembravano i suoi proponimenti sprecati e i suoi folli rimpianti. Quando chiudeva gli occhi, rivedeva il viso del marinaio che lo spiava attraverso i vetri annebbiati e, di nuovo, gli pareva che l'orrore gli avvolgesse il cuore.
Forse, però, era stata solo la sua fantasia che aveva gridato vendetta nel buio della notte mettendogli dinanzi agli occhi le orrende immagini della punizione. La vita concreta è un caos, ma c'è qualche cosa di tremendamente logico nell'immaginazione. È l'immaginazione che spinge il rimorso sulle tracce del peccato. È l'immaginazione che fa sopportare a ogni delitto le sue conseguenze deformi. Nella realtà di ogni giorno i malvagi non vengono puniti, né i buoni ricompensati: il successo premia i forti, il fallimento schiaccia i deboli. Nient'altro. D'altra parte, se intorno alla casa si fosse aggirato un estraneo i domestici o i custodi lo avrebbero visto. Se i giardinieri avessero scoperto delle impronte sulle aiuole lo avrebbero riferito. Sì, era stata solo la sua fantasia. Il fratello di Sibyl Vane non era ritornato per ucciderlo. Era salpato con la sua nave per naufragare in qualche bufera invernale. Da lui, ad ogni modo, era al sicuro. Dopotutto quell'uomo non sapeva chi fosse: non poteva saperlo. La maschera della giovinezza lo aveva salvato.
Se però era stata semplicemente un'illusione, quanto era terribile pensare che la coscienza potesse far sorgere così terribili fantasmi, dare loro forma visibile, farli muovere davanti a noi! Che vita sarebbe mai stata la sua se giorno e notte le ombre del suo delitto l'avessero spiato da angoli silenziosi, l'avessero deriso da luoghi nascosti, gli avessero bisbigliato all'orecchio durante i banchetti, l'avessero svegliato con dita di ghiaccio mentre dormiva! Mentre quest'idea si impadroniva lentamente della sua mente, divenne pallido di paura e l'aria gli parve farsi improvvisamente gelida. Oh! in quale selvaggio istante di follia aveva ucciso il suo amico! Com'era orribile il solo ricordo della scena. La rivedeva tutta. Ogni disgustoso particolare tornava a lui ancora più orribile. Dalla nera caverna del tempo, terribile e fasciata di scarlatto, sorgeva l'immagine della sua colpa. Quando Lord Henry alle sei entrò nella sua stanza lo trovò che piangeva come se gli si spezzasse il cuore.
Soltanto tre giorni dopo si arrischiò ad uscire. Nell'aria limpida e odorosa di pino, di quel mattino d'inverno c'era qualche cosa che sembrava restituirgli l'allegria e la voglia di vivere. Ma non erano state solo le condizioni ambientali a produrre il cambiamento: la sua natura si era ribellata all'eccessiva angoscia che aveva cercato di tarpare e di guastare la sua perfetta serenità. Ai temperamenti delicati e complicati succede sempre così: le forti passioni, li schiacciano o ne vengono schiacciate, li uccidono o ne vengono uccise. Solo le passioni o i dispiaceri superficiali continuano a vivere, mentre i grandi amori, o i grandi dolori, sono distrutti dalla loro stessa, pienezza. D'altra parte, si era convinto di essere stato vittima della sua immaginazione sconvolta dal terrore, e ripensava alle sue paure con un po' di pietà e non poco disprezzo.
Dopo colazione fece una passeggiata di un'ora nel giardino con la duchessa, poi attraversò in carrozza il parco per raggiungere la partita di caccia. Uno strato di brina scricchiolante ricopriva l'erba come se fosse sale. Il cielo era una coppa rovesciata di metallo blu. Un sottile strato di ghiaccio orlava lo stagno coperto di giunchi.
All'angolo della pineta scorse Sir Geoffrey Clouston, fratello della duchessa, che estraeva dal fucile due cartucce esplose. Scese con un salto dalla carrozza e, dopo aver detto al servo di riportare la cavalla nella scuderia, andò in direzione dell'ospite facendosi strada tra i rami spogli e il fitto, sottobosco.
"Hai fatto buona caccia, Geoffrey?" domandò.
"Non tanto, Dorian. Credo che la maggior parte degli uccelli sia andata, all'aperto. Penso che le cose miglioreranno dopo mezzogiorno, quando, passeremo in un'altra zona."
Dorian si incamminò al suo fianco. L'aria sottile e profumata, le luci rosse e brune che balenavano nel bosco, le grida rauche dei battitori che si levavano ogni tanto, i secchi colpi di fucile che le seguivano, lo affascinavano e lo colmavano di un senso di deliziosa libertà. Si sentiva dominato dalla spensieratezza della felicità, dall'estrema indifferenza della gioia. Improvvisamente, da un ciuffo di erba secca una ventina di metri davanti a loro, le orecchie dalla punta nera erette, le lunghe zampe posteriori scattanti, uscì di corsa una lepre e fuggì verso un folto di ontani. Sir Geoffrey imbracciò il fucile, ma nella grazia dei movimenti dell'animale c'era qualche cosa che incantava stranamente Dorian Gray; gridò subito: "Non sparare, Geoffrey. Lasciala vivere."
"Che assurdità, Dorian!" rispose il compagno. E sparò mentre la lepre si infilava nel folto.
Si sentirono due grida: quello terribile di una lepre ferita, e quello di un uomo colpito a morte, più terribile ancora.
"Santo cielo! Ho colpito un battitore!" esclamò Sir Geoffrey. "Che somaro a mettersi di fronte a un fucile! Smettete di sparare, laggiù!" gridò a tutta voce. "C'è un ferito."
Il capocaccia arrivò di corsa con un bastone in mano.
"Dove, signore? Dov'è?" gridò. Contemporaneamente, lungo la linea dei cacciatori gli spari cessarono.
"Qui," rispose rabbioso Sir Geoffrey, correndo verso il folto. "Perché diavolo non tiene indietro i suoi uomini? Mi ha rovinato la caccia per tutta la giornata."
Dorian li osservò entrare nel boschetto di ontani, scostando i rami. Pochi momenti dopo ne uscirono trascinando un corpo alla luce del sole. Si girò sopraffatto dall'orrore. Pareva che la sfortuna lo seguisse ovunque andasse. Udì Sir Geoffrey domandare se l'uomo era morto davvero e la risposta affermativa del guardiacaccia. Gli parve che il bosco si fosse improvvisamente animato di facce. Si sentiva il calpestio di migliaia di piedi e un sommesso mormorio. Un grande fagiano dal petto color rame passò alto sopra i rami, battendo le ali.
Dopo pochi istanti, che nel suo turbamento gli parvero ore di sofferenza interminabili, sentì una mano posarglisi sulla spalla. Sobbalzò e si guardò intorno..
"Dorian," disse Lord Henry, "sarebbe meglio dire che per oggi la caccia è sospesa. Non farebbe una bella impressione se si continuasse."
"Vorrei che venisse sospesa per sempre, Harry," rispose amaro. "È una cosa ripugnante e crudele. Quell'uomo è... ?"
"Temo di sì," rispose Lord Henry. "Si è preso tutta la scarica nel petto. Deve essere morto quasi istantaneamente. Vieni, andiamo a casa."
Camminarono insieme lungo il viale per una cinquantina di metri, in silenzio. Poi Dorian guardò Lord Henry e disse, con un profondo sospiro: "È un cattivo presagio, Harry, molto cattivo."
"Che cosa?" domandò Lord Henry. "Oh, l'incidente, suppongo. Mio caro amico, non lo si poteva evitare. È stata colpa dell'uomo. Perché si è messo davanti ai fucili? D'altra parte, non ci riguarda direttamente. È piuttosto scocciante per Geoffrey, naturalmente. La gente poi dice che uno non sa sparare. E Geoffrey non se lo merita: ha un'ottima mira. Ma è inutile parlare ancora di questa faccenda."
Dorian scosse il capo. "È un cattivo presagio, Harry. Sento come se, qualche cosa di terribile dovesse capitare a qualcuno di noi. A me, forse," aggiunse, passandosi una mano sugli occhi con un gesto di sofferenza.
Il più anziano dei due rise. "L'unica cosa terribile al mondo è l'ennui, Dorian. È l'unico peccato per il quale non esiste perdono. Ma non è probabile che ne soffriremo, a meno che gli amici non si mettano a parlare della faccenda a pranzo. Devo dire loro che l'argomento è tabù. E per quanto riguarda i presagi, cose simili non esistono. Il destino non invia araldi. È troppo saggio o troppo crudele per farlo. D'altronde, che cosa ti potrebbe capitare, Dorian? Hai tutto ciò che un uomo può desiderare. Non esiste nessuno che non sarebbe felice di essere al tuo posto."
"E non esiste nessuno con cui non sarei disposto a cambiarlo, Harry. Non ridere così. Ti sto dicendo la verità. Quel disgraziato contadino che è appena morto, sta meglio di me. Non ho paura della morte. È il suo approssimarsi che mi fa paura. Mi sembra che le sue ali mostruose battano intorno a me nell'aria plumbea. Santo cielo! Non vedi un uomo che si muove tra gli alberi, laggiù, che mi sta osservando, che mi aspetta?"
Lord Henry guardò nella direzione che la mano coperta dal guanto indicava tremando. "Sì," disse sorridendo. "Vedo il giardiniere che ti aspetta. Immagino che voglia chiederti quali fiori vuoi sulla tavola stasera. Sei assurdamente nervoso, mio caro! Quando ritorneremo in città dovrai andare dal mio medico."
Dorian sospirò di sollievo, vedendo avvicinarsi il giardiniere. L'uomo si toccò il berretto, diede un'occhiata esitante a Lord Henry, poi estrasse una lettera e la porse al padrone. "Sua Grazia mi ha detto di aspettare la risposta," mormorò.
Dorian infilò la lettera in tasca. "Di' a Sua Grazia che sto rientrando," disse freddamente. L'uomo si voltò e si diresse rapido verso la casa.
"Le donne hanno la passione di fare le cose pericolose," disse ridendo Lord Henry. "È una delle doti che ammiro di più in loro. Una donna sarebbe disposta a flirtare con chiunque purché la notassero."
"E tu hai la passione di dire le cose pericolose, Harry. In questo momento sei completamente fuori strada. La duchessa mi piace molto ma non l'amo."
"E la duchessa ti ama molto, ma le piaci molto meno, quindi siete perfettamente assortiti."
"Stai facendo pettegolezzi, Harry, e i pettegolezzi, non hanno mai una base."
"La base di tutti i pettegolezzi è una certezza immorale," disse Lord Henry accendendo una sigaretta.
"Tu, Harry, saresti disposto a sacrificare chiunque sull'altare di una battuta."
"La gente sale sull'altare di sua volontà," fu la risposta.
"Vorrei poter amare," esclamò Dorian Gray con una commozione profonda nella voce. "Ma mi pare di aver perso la passione e dimenticato il desiderio. Mi concentro troppo su me stesso. La mia personalità si è fatta un peso. Voglio fuggire, andarmene via, dimenticare. Ho fatto una sciocchezza a venire qui. Credo che spedirò un telegramma a Harvey perché mi faccia allestire lo yacht. Su uno yacht si è al sicuro."
"Al sicuro da che cosa, Dorian? Tu devi trovarti in qualche guaio. Perché non mi dici di che cosa si tratta? Sai che ti aiuterei."
"Non posso dirtelo, Harry," rispose Dorian tristemente. "E forse si tratta solo di una mia fantasia. Questo disgraziato incidente mi ha sconvolto. Ho l'orribile presentimento che succederà anche a me qualche cosa del genere."
"Che assurdità."
"Lo spero, ma non posso fare a meno di sentire così. Ah, ecco la duchessa: sembra Artemide con un abito su misura. Come vede, siamo tornati, duchessa."
"Ho saputo tutto, signor Gray," lei rispose. "Il povero Geoffrey è terribilmente sconvolto. E pare che lei gli abbia chiesto di non sparare. Che strano!"
"Sì, è molto strano. Non so che cosa mi abbia spinto a dirlo. Un capriccio, immagino. Mi pareva un animaletto bellissimo. Mi dispiace che le abbiano raccontato di quell'uomo. È un argomento odioso."
"È un argomento noioso," interruppe Lord Henry. "Non ha nessun interesse psicologico. Quanto sarebbe stato interessante, invece, se Geoffrey lo avesse fatto apposta! Mi piacerebbe conoscere qualcuno che ha commesso un delitto vero e proprio."
"È orribile da parte tua, Harry!" esclamò la duchessa. "Non le pare, signor Gray? Il signor Gray si sente male di nuovo. Sta per svenire."
Dorian Gray si riprese con uno sforzo e sorrise. "Non è nulla, duchessa," mormorò, "ho i nervi terribilmente scossi, tutto qui. Temo di aver camminato troppo questa mattina. Non ho sentito quel che ha detto Harry. Era una cosa molto brutta? Devi dirmela, in qualche altra occasione. Credo di dover andare a stendermi un poco. Mi scusate, vero?"
Erano arrivati alla grande gradinata che portava dalla serra al terrazzo. Appena la porta a vetri si fu chiusa alle spalle di Dorian, Lord Henry si voltò e si rivolse alla duchessa, fissandola con i suoi occhi sonnolenti. "Ne sei molto innamorata?" domandò.
Per un po' la duchessa non rispose; osservava immobile il paesaggio. "Vorrei saperlo," rispose alla fine.
Lord Henry scosse il capo. "Il saperlo sarebbe fatale. È l'incertezza che affascina. La nebbia rende le cose meravigliose."
"Si può perdere la strada."
"Mia cara Gladys, tutte le strade conducono allo stesso punto."
"E cioè?"
"Alla disillusione."
"È stato il mio debut nella vita," sospirò lei.
"Ti è arrivato con la corona."
"Sono stanca delle sue foglie di fragola."
"Ti stanno bene."
"Solo in pubblico."
"Ti mancherebbero," disse Lord Henry.
"Non vorrei perderne nemmeno una."
"Monmouth ha le orecchie."
"I vecchi sono duri d'orecchio."
"Non è mai stato geloso?"
"Vorrei che lo fosse stato."
Lord Henry si guardò intorno cercando qualcosa. "Che cosa stai cercando?" domandò lei.
"Il bottone del tuo fioretto," rispose Lord Henry. "Lo hai lasciato cadere."
Lei rise. "Ho ancora la maschera."
"Ti abbellisce gli occhi," fu la risposta.
La duchessa rise di nuovo. I denti apparvero come minuscoli semi bianchi in un frutto scarlatto.
Sopra, nella sua stanza, Dorian Gray, sdraiato su un divano, fremeva di terrore in ogni fibra. D'improvviso la vita era diventata un fardello troppo pesante da sopportare. L'orribile morte dello sfortunato battitore, colpito nel boschetto come un animale selvatico, gli pareva prefigurare anche la sua morte. Le parole che Lord Henry aveva detto in un moto casuale di scherzoso cinismo, per poco non lo avevano fatto svenire.
Alle cinque suonò per il cameriere e gli ordinò di preparargli le valige, in tempo per il rapido della sera per Londra, e di far preparare la carrozza alla porta per le otto e mezzo. Era deciso a non dormire a Selby Royal una notte di più. Era un luogo di malaugurio. La morte vi appariva alla luce del sole. L'erba del bosco era macchiata di sangue.
Poi scrisse un biglietto per Lord Henry, dicendogli di intrattenere gli ospiti durante la sua assenza. Mentre stava infilandolo nella busta, bussarono alla porta e il cameriere lo informò che il sovrintendente desiderava vederlo. Si accigliò e si morse le labbra. "Fallo entrare," mormorò, dopo alcuni attimi di esitazione.
Appena l'uomo fu entrato Dorian tirò fuori il libretto degli assegni da un cassetto e lo aprì davanti a sé.
"Immagino che lei sia venuto per la disgrazia di questa mattina, Thornton," disse, prendendo la penna.
"Sì, signore," rispose il capocaccia.
"Era sposato quel poveretto? Aveva qualcuno a carico?" domandò Dorian con espressione annoiata. "In caso positivo, non vorrei che questa gente si trovasse in difficoltà e farò loro avere qualunque somma lei ritenga necessaria."
"Non sappiamo chi sia, signore. Per questo mi sono preso la libertà di venire da lei."
"Non sa chi sia?" domandò Dorian in tono indifferente. "Che cosa intende dire? Non era uno dei suoi uomini?"
"No, signore. Mai visto prima. Sembra un marinaio, signore."
Dorian lasciò cadere la penna di mano e gli parve che il cuore avesse improvvisamente smesso di battere. "Un marinaio?" gridò. "Ha detto un marinaio?"
"Sì, signore. Ha l'aria di essere stato qualche cosa di simile. Ha tatuaggi su tutte e due le braccia e roba del genere."
"Aveva qualche cosa addosso?" domandò Dorian, piegandosi in avanti e guardando l'uomo con occhi sbarrati. "Qualche cosa che permetta di identificarlo?"
"Un po' di soldi, signore... non molti, e una pistola a sei colpi. Ma nessun nome. Sembra una persona come si deve, signore, ma un po' rude. Una specie di marinaio, diremmo."
Dorian balzò in piedi. Una terribile speranza aleggiava in lui e vi si aggrappò follemente. "Dov'è il corpo?" esclamò. "Presto! Devo vederlo!"
"È in una stalla vuota alla fattoria, signore. I contadini non lo vogliono in casa: dicono che un morto porta disgrazia."
"Alla fattoria! Vada là immediatamente e mi aspetti. Dica a uno dei mozzi di portarmi qui un cavallo. No. Non importa. Andrò alla scuderia a piedi, farò prima."
Meno di un quarto d'ora dopo Dorian Gray galoppava a briglia sciolta sul lungo viale. Gli alberi sembravano passargli a fianco in una spettrale processione, mentre ombre tumultuose si gettavano davanti a lui. La cavalla scartò a un cancello bianco e per poco non lo disarcionò. La colpì sul collo col frustino. L'animale fendeva l'aria nebbiosa come una freccia. I sassi schizzavano via sotto gli zoccoli.
Alla fine raggiunse la fattoria. Due uomini oziavano sull'aia. Balzò di sella e gettò le redini a uno dei due. Nella stalla più lontana tremolava una luce. Qualche cosa sembrava dirgli che il corpo era là. Si affrettò verso la porta e posò una mano sul chiavistello.
Si arrestò un attimo, sentendo che stava per fare una scoperta che gli avrebbe ridato la vita o gliel'avrebbe distrutta. Quindi spalancò la porta ed entrò.
Nell'angolo più lontano, su un mucchio di sacchi, era disteso il corpo senza vita di un uomo vestito con una camicia grezza e un paio di calzoni blu. Sul volto gli avevano messo un fazzoletto sudicio. Accanto crepitava una candela grezza, infilata in una bottiglia.
Dorian Gray rabbrividì. Si rese conto che, con le sue mani, non sarebbe stato in grado di togliere il fazzoletto e chiamò uno degli uomini della fattoria.
"Togligli quell'affare dalla faccia. Voglio vederlo," disse, appoggiandosi allo stipite per sostenersi.
Quando l'uomo ebbe eseguito, avanzò di un passo. Un grido di gioia gli sfuggì dalle labbra. L'uomo che era stato colpito nel folto era James Vane.
Rimase immobile per alcuni minuti a guardare il cadavere. Mentre cavalcava verso casa, aveva gli occhi pieni di lacrime, perché sapeva di essere salvo.
XIX
"È inutile che tu mi dica che hai l'intenzione di diventare buono," esclamò Lord Henry, immergendo le bianche dita in una coppetta di rame rosso riempita di acqua di rose. "Così sei perfetto. Ti prego di non cambiare."
Dorian scosse il capo. "No, Harry. Ho commesso troppe cose orribili nella mia vita. Non voglio commetterne più. Ho cominciato ieri le mie buone azioni."
"Dove sei stato ieri?"
"In campagna, Harry. In una piccola locanda, da solo."
"Mio caro ragazzo," esclamò Lord Henry, sorridendo, "in campagna tutti possono essere buoni: non ci sono tentazioni. Per questo chi non vive in città è così profondamente incivile. La civiltà non è affatto facile da raggiungere. Ci si può arrivare solo in due modi: attraverso la cultura o attraverso la corruzione. La gente di campagna non ha la possibilità di essere né colta né corrotta: per questo ristagna."
"Cultura e corruzione," gli fece eco Dorian Gray. "Ho conosciuto un poco sia l'una che l'altra. Mi Pare terribile ora che si debba sempre trovarle insieme. Adesso infatti ho un nuovo ideale, Harry. Sto cambiando, credo di essere già cambiato."
"Non mi hai ancora raccontato la tua buona azione. Oppure mi hai detto di averne fatta più di una?" domandò l'amico, ammucchiando nel piatto una minuscola piramide cremisi di fragole e spolverandola di zucchero con un cucchiaio traforato a forma di conchiglia.
"Te la posso dire, Harry, ma non è una storia che potrei raccontare a chiunque. Ho risparmiato una persona. Potrà sembrarti vanità, ma capisci cosa voglio dire. Era molto bella e assomigliava moltissimo a Sibyl Vane. Forse per questo mi ha attratto, all'inizio. Ricordi Sibyl, non è vero? Quanto tempo sembra che sia passato! Bene, Hatty non era una del nostro ceto, naturalmente. Era solo una ragazza di campagna, ma l'amavo davvero. Sono sicuro che l'amavo. Per tutto questo splendido mese di maggio sono andato a trovarla due o tre volte alla settimana. Ieri ci siamo incontrati in un piccolo frutteto. I fiori del melo le cadevano di continuo sui capelli e lei rideva. Avremmo dovuto fuggire insieme questa mattina all'alba. Improvvisamente decisi di lasciarla pura come un fiore, come l'avevo trovata."
"Direi che la novità dell'emozione debba averti procurato un brivido di vero piacere, Dorian," lo interruppe Lord Henry. "Ma posso finire io la storia di questo idillio. Le hai dato dei buoni consigli e le hai spezzato il cuore. Questo è stato l'inizio della tua redenzione."
"Harry, sei terribile! Non devi dire queste cose tremende. Non ho spezzato il cuore di Hatty. Naturalmente ha pianto, e così via. Ma non l'ha colpita nessuna disgrazia. Può continuare a vivere, come Perdita, nel suo giardino di menta e calendule."
"E piangere su un infedele Florizel," disse Lord Henry ridendo e abbandonandosi all'indietro sulla sedia. "Mio caro Dorian, sei stranamente infantile. Credi che questa ragazza, adesso, sarà mai veramente soddisfatta con uno della sua condizione? Immagino che un giorno la sposeranno a un rozzo carrettiere o a un bifolco dall'espressione ebete. Bene, il semplice fatto di averti incontrato, di averti amato, le insegnerà a disprezzare il marito e sarà rovinata. Dal punto di vista morale, non mi pare che la tua grande rinuncia abbia un notevole valore. Anche come inizio, è misero. D'altra parte, come fai ad essere sicuro che in questo momento questa Hatty non stia galleggiando in qualche stagno illuminato dalla luna, circondata da belle ninfee come Ofelia?"
"È insopportabile, Harry! Ridi di tutto e poi suggerisci le peggiori tragedie. Ora mi dispiace di avertelo raccontato. Ma non mi importa di ciò che mi dici. So di aver avuto ragione comportandomi così. Povera Hatty! Questa mattina mentre passavo a cavallo davanti alla fattoria ho visto alla finestra il suo pallido viso, come un tralcio di gelsomini. Non parliamone più e non cercare di convincermi che la prima buona azione che ho fatto da anni, il mio primo piccolo sacrificio, sia in realtà una specie di peccato. Voglio essere migliore. Ma parlami un poco di te. Che cosa succede in città? Non vado al club da diversi giorni."
"La gente parla sempre della scomparsa del povero Basil."
"Pensavo che se ne fossero stancati, ormai," disse Dorian, versandosi un po' di vino e aggrottando leggermente le sopracciglia.
"Mio caro ragazzo, ne parlano soltanto da sei settimane e il pubblico britannico non ha assolutamente le capacità intellettuali di trovare più di un argomento nuovo ogni tre mesi. Tuttavia, negli ultimi tempi ha avuto molta fortuna. Ci sono stati il mio processo di divorzio e il suicidio di Alan Campbell. Adesso c'è la misteriosa scomparsa di un artista. Scotland Yard insiste ancora nel dire che l'uomo dall'ulster grigio partito il nove di novembre per Parigi con il treno di mezzanotte fosse il povero Basil mentre la polizia francese dichiara che Basil non è affatto giunto a Parigi. Immagino che fra un paio di settimane verremo a sapere che è stato visto a San Francisco. È strano, ma tutti quelli che scompaiono li vedono a San Francisco. Dev'essere una città deliziosa, dotata di tutte le attrattive dell'altro mondo."
"Che cosa credi che sia successo a Basil?" domandò Dorian, osservando controluce il borgogna e chiedendosi come mai potesse parlare con tanta calma dell'argomento.
"Non ne ho la minima idea. Se Basil decide di nascondersi, non è affar mio. Se è morto, non voglio pensarci. La morte è l'unica cosa che mi terrorizza. La odio."
"Perché?" domandò il giovane con voce stanca.
"Perché," disse Lord Henry, passandosi sotto le narici la griglia dorata di una boccettina di sali, "oggi a tutto si può sopravvivere fuorché a questo. La morte e la volgarità, nel diciannovesimo secolo, sono gli unici due fenomeni che non si riescono a spiegare. Andiamo a prendere il caffè nella sala da musica, Dorian. Devi suonarmi Chopin. L'uomo con cui è scappata mia moglie suonava Chopin divinamente. Povera Victoria! Le volevo molto bene. La casa è vuota senza di lei. Ovviamente la vita coniugale è solo un'abitudine, una cattiva abitudine. Ma si rimpiangono sempre le perdite, anche delle peggiori abitudini. Forse sono quelle che si rimpiangono di più. Sono una parte così essenziale della nostra personalità."
Dorian non disse nulla ma si alzò e, trasferitosi nella stanza accanto, sedette al pianoforte facendo scorrere le dita sull'avorio bianco e nero dei tasti. Quando ebbero portato il caffè, si interruppe e, guardando Lord Henry, disse.: "Harry, hai mai pensato che Basil possa essere stato assassinato?"
Lord Henry sbadigliò. "Basil era simpatico a tutti e portava sempre un orologio Waterbury. Perché avrebbero dovuto assassinarlo? Non era abbastanza intelligente per avere nemici. Naturalmente, per la pittura aveva un talento straordinario, ma si può dipingere come Velasquez ed essere tuttavia la persona più ottusa del mondo. Basil era davvero alquanto ottuso. Mi ha interessato una sola volta, quando mi ha detto che aveva per te un'adorazione folle e che eri il motivo dominante della sua arte."
"Volevo molto bene a Basil," disse Dorian con una nota di tristezza nella voce. "Ma non si dice che è stato assassinato?"
"Oh, lo sostengono alcuni giornali. A me però sembra del tutto improbabile. So che ci sono dei posti pericolosi a Parigi, ma Basil non era il tipo da frequentarli. Non era curioso. Era il suo principale difetto."
"Che cosa diresti, Harry, se ti confessassi che sono stato io ad uccidere Basil?" disse il giovane osservandolo attentamente mentre pronunciava queste parole.
"Direi, mio caro amico, che cerchi di recitare una parte che non ti si addice. Ogni delitto è volgare, proprio come è un delitto la volgarità. Commettere un delitto, Dorian, non è da te. Mi dispiacerebbe ferire la tua vanità, dicendoti questo, ma ti assicuro che è vero. Il delitto è un'esclusività delle classi inferiori, e non le biasimo affatto per questo. Immagino che per loro rappresenti quello che per noi è l'arte: semplicemente un metodo per procurarsi straordinarie sensazioni."
"Un metodo per procurarsi sensazioni? Allora, secondo te, chi ha commesso un delitto una volta ne potrebbe commettere un altro? Non mi dirai una cosa simile."
"Oh, ogni cosa si trasforma in un piacere se la si fa troppo spesso," disse Lord Henry ridendo. "Questo è uno dei più importanti segreti dell'esistenza. Tuttavia, secondo me il delitto è sempre un errore. Non si dovrebbe mai fare nulla di cui non si possa parlare dopo pranzo. Ma lasciamo perdere il povero Basil. Vorrei poter credere che abbia avuto davvero una morte romantica come quella che hai immaginato, ma non posso. Forse è caduto nella Senna da un omnibus e il conduttore ha soffocato lo scandalo. Sì, suppongo che questa sia stata la sua fine. Lo vedo disteso supino sotto quell'acqua verde sporco mentre le chiatte gli passano sopra e le lunghe alghe gli si impigliano nei capelli. Sai, penso che non avrebbe più fatto nulla di buono. Negli ultimi dieci anni la sua pittura era molto calata di tono."
Dorian sospirò; Lord Henry attraversò la stanza e cominciò ad accarezzare uno strano pappagallo di Giava, un grosso uccello dalle piume grige con la cresta e la coda rosa, in equilibrio su un trespolo di bambù. Al tocco delle dita affusolate, l'uccello lasciò cadere la bianca pellicola rugosa delle palpebre sui neri occhi di cristallo e cominciò a oscillare avanti e indietro.
"Sì," proseguì voltandosi e levando di tasca il fazzoletto, "la sua pittura era assolutamente calata di tono. Mi pareva che avesse perso qualche cosa. Aveva perduto, un ideale. Da quando non foste più grandi amici, cessò di essere un grande artista. Che cosa vi aveva divisi? Immagino che ti sia venuto a noia. Se è così, non te lo perdonò mai. È tipico delle persone noiose. A proposito, che cosa è successo di quel meraviglioso ritratto che ti fece? Non mi sembra di averlo visto da quando fu terminato. Ah, ricordo: un giorno, anni fa, mi hai detto che lo avevi spedito a Selby e che era stato rubato o era andato perduto durante il viaggio. Non l'hai più ritrovato? Che peccato! Era davvero un capolavoro. Ricordo che volevo comperarlo. Vorrei averlo fatto, ora. Era del miglior periodo di Basil. Da allora la sua pittura è stata quel curioso, miscuglio di pessima pittura e di ottime intenzioni che permette sempre a un uomo di essere chiamato un esponente rappresentativo dell'arte britannica. Hai fatto delle inserzioni per ritrovarlo? Dovresti farlo."
"Me ne sono dimenticato," disse Dorian. "Forse le ho fatte. Ma non mi è mai piaciuto veramente. Mi dispiace di aver posato: il suo ricordo mi è odioso. Perché ne parli? Mi ha sempre ricordato quegli strani versi di una commedia - l'Amleto mi pare - come dicono?
"Come il ritratto di una pena
un volto senza cuore,"
Sì, era proprio così."
Lord Henry rise. "Se un uomo ha con la vita un rapporto artistico, ha il cervello nel cuore," rispose, affondando in una poltrona.
Dorian Gray scosse il capo e toccò alcune note basse. "Come il ritratto di una pena," ripeté, "un volto senza cuore."
Il più anziano si allungò sulla poltrona e lo guardò socchiudendo gli occhi. "A proposito, Dorian," disse dopo un silenzio, ""che cosa guadagna un uomo se conquista il mondo intero e perde" - com'è la citazione? - "e perde l'anima?""
La musica ebbe una dissonanza. Dorian Gray sussultò poi fissò l'amico. "Perché me lo domandi, Harry?"
"Mio caro amico," disse Lord Henry inarcando meravigliato le sopracciglia, "te lo chiedo perché pensavo che fossi capace di darmi una risposta. Tutto qui. Domenica scorsa attraversavo il Park; vicino a Marble Arch c'era una piccola folla di straccioni che ascoltava uno dei soliti predicatori di strada. Mentre passavo sentii urlare questa domanda all'auditorio. Mi colpì perché era piuttosto drammatica. Londra ti dà molte impressioni di questo genere: una domenica piovosa, un cristiano arruffato con un impermeabile, un cerchio di facce pallide e malaticce sotto un tetto ineguale di ombrelli gocciolanti e una magnifica frase lanciata nell'aria da una voce stridula, isterica... era davvero bellissimo, a suo modo, molto suggestivo. Pensavo di rispondere al profeta che l'arte ha un'anima, l'uomo no. Temo però che non mi avrebbe capito." "No, Harry. L'anima è una terribile realtà; la si può comperare, vendere e barattare. La si può avvelenare o rendere perfetta. Ognuno di noi ha un'anima. Lo so."
"Ne sei assolutamente certo, Dorian?"
"Assolutamente certo."
"Ah! Allora dev'essere un'illusione. Le cose di cui si è assolutamente certi non sono mai vere. È questa la fatalità della fede, la lezione del sentimento. Che aria solenne! Non essere così serio. Che cosa abbiamo a che fare, tu ed io, con le superstizioni della nostra epoca? No: abbiamo abbandonato la nostra fede nell'anima. Suonami qualche cosa, suonami un notturno, Dorian. E mentre suoni, dimmi a bassa voce come hai fatto a conservare la giovinezza. Devi avere un segreto. Ho solo dieci anni più di te e sono pieno di rughe, sono logoro e ingiallito. Sei proprio meraviglioso, Dorian. Non sei mai stato bello come stasera. Mi ricordi il giorno in cui ti vidi per la prima volta. Eri piuttosto sfacciato, molto timido e assolutamente straordinario. Certo sei cambiato, ma non nell'aspetto. Vorrei che mi dicessi il tuo segreto. Farei di tutto per ritrovare la giovinezza, fuorché ginnastica, alzarmi presto e comportarmi come si deve. Giovinezza! Non c'è nulla che la equivalga. È assurdo parlare dell'ignoranza della giovinezza. Le sole persone di cui oggi ascolto le opinioni con un certo rispetto sono molto più giovani di me. Mi pare che siano più avanti di me. La vita ha rivelato loro le sue più recenti meraviglie. Quanto ai vecchi, li contraddico sempre. Per motivi di principio. Se chiedi qual'è il loro punto di vista su un fatto accaduto ieri, ripetono solennemente le opinioni -correnti del 1820 quando la gente portava il colletto alto, credeva a tutto e non sapeva assolutamente nulla. Che bello il pezzo che stai suonando! Chissà se Chopin l'ha scritto a Maiorca mentre il mare singhiozzava intorno alla villa e gli spruzzi salmastri si frangevano contro i vetri? È meravigliosamente romantico. È una benedizione che ci sia rimasta un'arte non contraffatta! Non smettere. Stasera ho voglia di musica. Mi pare che tu sia il giovane Apollo e io Marsia che l'ascolta. Intimamente soffro, Dorian, per cose che nemmeno tu sai. La tragedia della vecchiaia non sta nel fatto di essere vecchi ma in quello di essere giovani. A volte la mia stessa sincerità mi sorprende. Ah, Dorian, come sei felice! Che vita splendida hai avuto! Hai bevuto a sazietà ogni cosa, hai mangiato l'uva direttamente dal grappolo, nulla ti è rimasto nascosto e tutto è stato per te solo il suono della musica. Non ti ha logorato. Sei sempre lo stesso."
"Non sono lo stesso, Harry."
"Sì, lo sei. Mi domando come sarà il resto della tua vita. Non rovinarlo con rinunce. Attualmente sei perfetto. Non togliere qualcosa alla tua perfezione. Non hai difetti, ora. Non far segno di no: lo sai benissimo. E poi, Dorian, non ingannare te stesso. La vita non è retta dalla volontà o dalle intenzioni. La vita è una questione di nervi di fibre e di cellule in lenta formazione, in cui il pensiero si nasconde e la passione elabora i suoi sogni. Puoi immaginare di essere salvo e crederti forte, ma una nota casuale di colore in una stanza o nel cielo mattutino, un particolare profumo che un tempo hai amato e che associ a sottili ricordi, il verso di una poesia dimenticata che ti si ripresenta:, il ritmo di un pezzo musicale che hai smesso di suonare... ti dico, Dorian, da cose come queste dipende la vita. Browning lo ha scritto da qualche parte, ma i nostri sensi lo immaginano per noi. Ci sono momenti in cui l'odore di lilas blanc mi colpisce all'improvviso e sono costretto a rivivere quello strano mese della mia vita. Vorrei essere al tuo posto, Dorian. La gente ha sempre parlato male di noi due ma per te ha sempre avuto un'adorazione e ti adorerà sempre. Tu sei il modello di ciò che la nostra epoca sta cercando e che teme di aver trovato. Sono così contento che non hai mai fatto nulla, che non hai mai scolpito una statua, dipinto un quadro o creato qualche cosa se non te stesso! La vita è stata la tua arte: ti sei dato alla musica e i tuoi giorni sono i tuoi sonetti."
Dorian si alzò dal pianoforte passandosi una mano fra i capelli. "Sì, la vita è stata squisita," mormorò, "ma non condurrò più questa vita, Harry. E non devi dirmi queste cose bizzarre. Di me non sai tutto. Credo che se lo sapessi, anche tu ti allontaneresti da me. Ridi, ma non è il caso."
"Perché hai smesso di suonare, Dorian? Torna al pianoforte e suonami di nuovo quel notturno. Guarda quella grande luna color miele sospesa nell'aria fosca. Aspetta che tu la incanti e, se suoni, si avvicinerà alla terra. Non vuoi? Andiamo al club, allora. È stata una serata affascinante e dobbiamo finirla in modo affascinante. C'è una persona da White che desidera infinitamente conoscerti: il giovane Lord Poole, il figlio minore di Bournemouth. Ha già copiato le tue cravatte e mi ha pregato di presentartelo. È molto piacevole e ti assomiglia un poco."
"Spero di no," disse Dorian con un'espressione di tristezza nello sguardo. "Ma stasera sono stanco, Harry. Non verrò al club. Sono quasi le undici e voglio andare a letto presto."
"Rimani. Non hai mai suonato bene come questa sera. C'era nel tuo tocco qualche cosa di meraviglioso: una forza espressiva che non avevo mai sentito prima."
"È perché sto per diventar buono," rispose Dorian, sorridendo. "Un poco sono già cambiato."
"Per me non puoi cambiare, Dorian," disse Lord Henry. "Tu ed io saremo sempre amici."
"Tuttavia una volta mi hai avvelenato con un libro e non lo dimenticherò. Harry, promettimi che non presterai a nessuno quel libro: è dannoso."
"Mio caro ragazzo, adesso fai davvero il moralista. Tra poco andrai in giro come i convertiti e i revivalisti a mettere in guardia la gente contro i peccati di cui ti sei stancato. Ma sei troppo bello per farlo. E, d'altra parte, è inutile: tu ed io siamo quel che siamo e saremo quel che saremo. Quanto all'essere avvelenato da un libro, è una cosa impossibile. L'arte non ha nessuna influenza sulle azioni: annulla il desiderio di agire. I libri che la gente dice immorali sono quelli che rivelano alla gente le sue vergogne. Tutto qui. Ma non voglio discutere di letteratura. Fatti vedere, domani. Andrò a cavalcare alle undici. Potremmo andare insieme e dopo ti porterò a cena da Lady Branksome. È una donna piena di fascino e vorrebbe il tuo parere su alcune tappezzerie che intende comperare. Ricordati di venire. Oppure andremo a pranzo con la nostra duchessina? Dice che non ti ha più visto. Ti sei forse stancato di Gladys? Lo pensavo. Quei suoi discorsi intelligenti danno sui nervi. Bene, ad ogni modo, vieni alle undici."
"Devo proprio venire?"
"Certo. Il Park è molto bello in questo periodo. Non credo che ci siano stati dei lillà così belli da quando ti ho conosciuto."
"Benissimo. Sarò qui alle undici," disse Dorian. "Buona notte Harry." Quando fu sulla soglia esitò un attimo, come volesse dire ancora qualche cosa, poi sospirò ed uscì.
XX
Era una bella nottata, così tiepida che gettò il soprabito sul braccio e non si avvolse nemmeno la sciarpa di seta intorno al collo. Mentre si dirigeva verso casa fumando una sigaretta, due giovani in abito da sera gli passarono accanto. Sentì uno dei due sussurrare all'altro: "Quello è Dorian Gray." Ricordò come gli faceva piacere una volta quando lo indicavano, lo fissavano o parlavano di lui. Adesso era stanco di sentire ripetere il suo nome. Il fascino del piccolo villaggio dove era stato tanto spesso negli ultimi tempi era dovuto per metà al fatto che nessuno sapeva chi fosse. Aveva detto molte volte alla ragazza che aveva lusingato a innamorarsi di lui, di essere povero e lei gli aveva creduto. Una volta le aveva detto di essere malvagio e lei aveva riso, dicendogli che i malvagi sono sempre vecchi e brutti. Quella sua risata pareva il canto di un tordo. E come era bella con i suoi vestitini di cotone e i suoi grandi cappelli! Non sapeva nulla ma aveva tutto ciò che lui aveva perduto.
A casa trovò il cameriere che lo attendeva. Lo mandò a letto, si distese sul divano della biblioteca e cominciò a pensare ad alcune delle cose che Lord Henry gli aveva detto.
Era proprio vero che è impossibile cambiare? Provava un desiderio sfrenato per l'immacolata purezza dell'adolescenza: la sua infanzia bianco rosata, come l'aveva chiamata una volta Lord Henry. Sapeva di essersi macchiato, di aver colmato lo spirito di corruzioni, di aver nutrito di orrori la sua fantasia; sapeva di aver avuto un'influenza maligna sugli altri e di aver provato una gioia terribile nel farlo; e sapeva che delle vite che avevano attraversato la sua, proprio le più belle e le più ricche di promesse, erano state da lui condotte all'infamia. Ma era irreparabile, tutto questo? Non aveva nessuna speranza?
Ah! in quale mostruoso attimo di orgoglio e di passione aveva invocato che il ritratto portasse il peso dei suoi giorni, lasciando a lui l'immacolato candore dell'eterna giovinezza! A questo era dovuto il suo fallimento. Sarebbe stato meglio, per lui, se ogni peccato avesse portato con sé il suo castigo certo e immediato. Il castigo purifica. Non "perdona i nostri peccati", ma "colpiscici per le nostre iniquità" dovrebbe essere la preghiera dell'uomo nei confronti di un Dio più giusto.
Lo specchio stranamente intagliato che Lord Henry gli aveva regalato molti anni prima era sulla tavola e, come un tempo, gli amorini dalle bianche membra ridevano tutto intorno alla cornice. Lo sollevò, come aveva fatto in quella notte tremenda quando per la prima volta aveva notato il cambiamento nel quadro fatale, e guardò la liscia superficie con occhi disperati e colmi di lacrime. Una volta, una persona che lo aveva amato terribilmente gli aveva scritto una lettera folle che terminava con queste parole di adorazione: "Il mondo è cambiato perché tu sei fatto di avorio e d'oro. La curva delle tue labbra riscrive la storia." La frase gli ritornò alla mente e la ripeté più volte tra sé, poi imprecò contro la propria bellezza e, gettato lo specchio sul pavimento, lo ridusse a schegge d'argento sotto i tacchi. La bellezza lo aveva rovinato, la bellezza e la giovinezza da lui invocata. Senza queste due cose, la sua vita avrebbe potuto essere senza macchie. La sua bellezza era stata solo una maschera, la gioventù solo una beffa. Che cos'era la gioventù, nel migliore dei casi? Un'età verde, acerba, un'età di amori superficiali e di pensieri morbosi. Perché ne aveva indossato la livrea? La gioventù lo aveva rovinato.
Meglio non pensare al passato. Nulla poteva mutarlo. A se stesso, al suo futuro, doveva pensare. James Vane era sepolto in una tomba senza nome nel cimitero di Selby. Alan Campbell si era sparato una sera nel suo laboratorio, senza però rivelare il segreto che era stato costretto a conoscere. L'eccitazione per la scomparsa di Basil Hallward si sarebbe esaurita presto. Stava già affievolendosi. Da quel lato si sentiva al sicuro. E, d'altra parte, non era la morte di Basil Hallward che gli opprimeva la mente. Lo preoccupava piuttosto la morte vivente della sua anima. Basil aveva dipinto il ritratto e gli aveva rovinato la vita. Non glielo poteva perdonare. Il ritratto era la causa di tutto. Basil gli aveva detto delle cose intollerabili e tuttavia le aveva sopportate pazientemente. L'omicidio era stato solo un atto di follia momentanea. Per quanto riguardava Alan Campbell, poi, era lui che si era ucciso. Lo aveva fatto di sua volontà, la cosa non lo riguardava affatto.
Una nuova vita! Ecco che cosa voleva. Ecco che cosa attendeva. Certo l'aveva già iniziata. In ogni caso aveva risparmiato una creatura innocente. Non avrebbe mai più insidiato l'innocenza, sarebbe stato buono.
Pensando a Hatty Merton, si domandò se il ritratto nella camera chiusa fosse cambiato. Certo, non doveva più essere così orribile. Forse, se fosse riuscito a purificare la sua vita, sarebbe stato in grado di eliminare dal viso le tracce di ignobili passioni. Forse le tracce del male erano già scomparse. Sarebbe andato a vedere.
Prese la lampada sulla tavola e salì cautamente le scale. Mentre apriva la porta, un sorriso di gioia gli sfiorò il viso stranamente giovane e indugiò un attimo sulle labbra. Sì, sarebbe stato buono e l'orrenda cosa nascosta non lo avrebbe più terrorizzato. Gli parve che il peso gli fosse già stato tolto di dosso.
Entrò tranquillamente, chiuse la porta alle sue spalle, come era solito fare, e tolse il panno cremisi dal ritratto. Un grido di dolore e di indignazione gli sfuggì dalle labbra. Non riusciva a scorgere nessun cambiamento, se non negli occhi che avevano assunto un'espressione scaltra e nella bocca sulla quale erano apparse le rughe dell'ipocrisia. La cosa era sempre disgustosa - più ripugnante di prima, se possibile - e la rugiada scarlatta che macchiava la mano sembrava più brillante, più simile a sangue appena versato. Allora cominciò a tremare. Solo per vanità aveva compiuto la sua unica buona azione? Oppure per desiderio di una nuova sensazione, come aveva suggerito Lord Henry con la sua risata beffarda? O per quel desiderio di recitare una parte che a volte ci fa compiere azioni migliori di noi? O forse per tutte queste cose insieme? E come mai la macchia rossa si era allargata? Pareva essersi diffusa come un'orribile malattia sulle dita rugose. C'era del sangue sui piedi come se fosse colato, sangue anche sulla mano che non aveva impugnato il coltello. Confessare? Voleva dire che doveva confessare? Denunciarsi e farsi condannare a morte? Rise. L'idea gli sembrava mostruosa. D'altra parte, se anche avesse confessato, chi gli avrebbe creduto? Della vittima non rimanevano tracce. Tutto quello che gli apparteneva era stato distrutto. Lui stesso aveva bruciato le cose che erano rimaste dabbasso. La gente avrebbe detto semplicemente che era matto. Se avesse insistito lo avrebbero chiuso in manicomio... Tuttavia era suo dovere confessare per soffrire pubblicamente la vergogna che gliene sarebbe venuta e per espiare davanti a tutti. C'era un Dio che imponeva agli uomini di rivelare i peccati in terra così come in cielo. Qualunque sua azione non lo avrebbe mondato finché non avesse confessato la sua colpa. La sua colpa? Scosse le spalle. La morte di Basil Hallward gli sembrava una cosa di minima importanza. Pensava a Hatty Merton: non era infedele, questo specchio della sua anima che stava fissando. Vanità? Curiosità? Ipocrisia? Solo questi erano i motivi della sua rinuncia? No, c'era stato qualche cosa di più. Almeno così pensava. Ma chi poteva dirlo? ... No, non c'era stato nient'altro. L'aveva risparmiata per vanità, per ipocrisia aveva indossato la maschera della bontà, per curiosità era stato spinto alla rinuncia. Ora se ne rendeva conto.
Ma questo delitto... lo avrebbe perseguitato per tutta la vita? Sarebbe sempre stato costretto a sopportare il peso del suo passato? Doveva proprio confessare? Mai. Era rimasto solo un elemento di prova contro di lui. Il ritratto: ecco la prova. Lo avrebbe distrutto. Perché lo aveva conservato per tanto tempo? Una volta gli faceva piacere vederlo cambiare e invecchiare. Negli ultimi tempi questo piacere era scomparso. Lo teneva sveglio la notte. Quando era lontano lo terrorizzava l'idea che altri potessero vederlo, aveva portato la malinconia nelle sue passioni, il suo ricordo gli aveva rovinato diversi momenti di gioia. Per lui aveva rappresentato la coscienza. Sì, era stato una coscienza. L'avrebbe distrutto.
Si guardò in giro e vide il coltello che aveva colpito Basil Hallward. Lo aveva pulito molte volte e non vi era rimasta nessuna macchia: era liscio e lucente. Come aveva ucciso il pittore così avrebbe ucciso la sua opera e tutto ciò che essa significava. Avrebbe ucciso il passato e, quando il passato fosse morto, sarebbe stato libero. Avrebbe ucciso la mostruosa vita della sua anima e, senza i suoi infami avvertimenti, si sarebbe sentito in pace. Afferrò il coltello e colpì la tela.
Si udì un grido poi un tonfo. Un grido di agonia così terribile che i domestici si svegliarono spaventati e uscirono intimoriti dalle loro stanze. Due signori che passavano nella piazza si fermarono e guardarono in alto, verso la grande casa. Proseguirono finché incontrarono un poliziotto e lo condussero lì. L'uomo suonò diverse volte il campanello ma non ottenne risposta. Tranne una finestra illuminata all'ultimo piano, la casa era immersa nell'oscurità. Dopo un poco si allontanò, si fermò sotto un portico vicino e rimase a osservare.
"Di chi è questa casa, agente?" domandò il più giovane dei due.
"Del signor Dorian Gray, signore," rispose il poliziotto.
I due uomini si guardarono e si allontanarono con una smorfia di scherno. Uno dei due era lo zio di Sir Henry Ashton.
All'interno, nei quartieri della servitù, i domestici semisvestiti parlavano tra loro a bassa voce. La vecchia signora Leaf piangeva e si torceva le mani. Francis era pallido come un morto.
Dopo un quarto d'ora circa prese con sé un cocchiere e uno degli uomini di fatica. Bussarono, ma non ottennero risposta. Chiamarono. Tutto era silenzioso. Alla fine, dopo aver tentato invano di forzare la porta, salirono sul tetto e si calarono sul balcone. La finestra cedette facilmente: la serratura era vecchia.
Quando furono entrati, videro appeso alla parete uno splendido ritratto del loro padrone come lo avevano visto l'ultima volta, in tutto lo splendore della sua gioventù e della sua bellezza. Disteso sul pavimento c'era un uomo, in abito da sera, con un coltello piantato nel cuore. Era sfiorito, rugoso, con un volto ripugnante. Solo quando esaminarono i suoi anelli lo riconobbero.
FINE
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